Madagascar

Noi e i lemuri – viaggio nel meraviglioso Sud

Diario di viaggio 2007

di Bea

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da anni il Madagascar era in programma: racconti di viaggiatori, documentari, qualche libro, sono i fattori che ci avevano fatto nascere il desiderio, ma per un motivo o per un altro il progetto era sempre rimasto nient’altro che un’idea.

Poi a dicembre, in agenzia, la svolta: trovo i voli per il Madagascar via Mauritius a un prezzo interessante e li opziono. E’ infatti piuttosto complesso e costoso ad agosto raggiungere il paese sui cui volano pochissime compagnie aeree e i cui voli, oltre a essere cari, sono anche sempre esauriti da t.o. e agenzie.

Non amo organizzare con troppo anticipo perciò solo verso maggio, una volta stabilito in linea di massima il programma di visita, acquisto tramite last minute un volo interno Air Madagascar per Fort Dauphin, da cui decidiamo di partire alla scoperta di questo paese. Poi imprevisti di famiglia mettono in dubbio l’effettiva partenza fino a pochi giorni dal volo e perciò ho solo il tempo di fissare un hotel per la sera dell’arrivo a Tana, la capitale, e  per contattare, senza ottenere risposta per tempo, un hotel e un’agenzia a FD.

5/08/07

Inizia così la nostra avventura malgascia e Ivo, mio marito, Tiziana, mia compagna di tanti viaggi, ed io, partiamo nel pomeriggio da Malpensa con prima destinazione Mauritius, dove ci aspetta una lunga sosta.

6/8/07

Sbrigate le formalità di immigrazione, ci informiamo all’ufficio del turismo, collocato all’interno della zona arrivi, su cosa sia possibile visitare nei dintorni. Ci viene consigliata una capatina al vicino mercato di Mahéburg con il suggerimento di passare il resto della giornata sulla spiaggia più prossima: entrambe le mete sono raggiungibili con autobus, ma visto che il tempo è incerto, con densi nuvoloni che non lasciano passare spiragli di sole, decidiamo di affittare una vettura per la giornata e girare in libertà. Di Mauritius ricordo immensi stupefacenti campi di canna da zucchero, segnaletiche stradali che lungo la strada improvvisamente scompaiono lasciandoti grossi dubbi circa la tua posizione e l’effettiva esistenza della tua meta, una capitale moderna e piuttosto caotica ma non particolarmente attraente neanche nella zona prospiciente il  mare, l’ottimo tè alla vaniglia che ti viene servito ovunque. Verso sera ci ripresentiamo in aeroporto per il nostro volo Maurice-Antananarivo (anche chiamata Tana) che parte e arriva puntualmente.

Un addetto dell’hotel ci attende e ci affida al titolare di una piccola agenzia che ci accompagna all’ufficio cambio dell’aeroporto (il miglior cambio effettuato in tutto il viaggio) e che nel breve tragitto verso il Manoir Rouge, hotel prescelto nella cittadina di Ivato, la più prossima all’aeroporto, ci illustra le sue possibilità di intervento nell’organizzazione dei giorni a venire.

L’hotel (circa 15 euro la tripla) si presenta come un’osteria della campagna francese, con tanto di caminetto acceso  e tasso alcolico degli avventori elevato, ma noi ci tratteniamo giusto il tempo di ottenere la chiave e ci fiondiamo a dormire, dopo le tante ore di viaggio, nella stanza messa a nostra disposizione.

7/8/07

L’addetto dell’agenzia è in ritardo. Al suo arrivo decidiamo rapidamente di accettare la sua proposta di assistenza con una vettura a Fort Dauphin per effettuare la traversata del sud e di un’altra a Morondava per l’escursione al Parco Nazionale degli Tsingy. La nostra situazione di assoluta precarietà non ci permette di contrattare e decidiamo di accettare l’accordo in cambio della certezza dei trasferimenti di tutto il soggiorno. Concludiamo la trattativa con una vera e  propria corsa in agenzia Air Mad a comprare i biglietti per i voli che ci consentiranno di portare a termine il nostro tour entro il giorno 25/8, data prevista per il rientro. Purtroppo non troviamo posto sul volo Morondava-Tana per il 24/8 e prenotiamo per il 25, facendo saltare quindi la visita della capitale. Non era tra le nostre priorità ma ci dispiace perderci i suoi mercati in cui contavamo di dedicarci a una delle nostre attività preferite: lo shopping sfrenato da vacanza. Pazienza: (parecchi) soldi risparmiati.

A viaggio effettuato posso dire che la scelta del t.o. a Tana è stata la soluzione ideale e per noi  ottimale, visto che ci ha liberato da ulteriori ricerche e trattative. Programmando il viaggio con anticipo, è però sicuramente meglio rivolgersi di volta in volta ad agenzie della regione stessa che si visita, sia per i costi che per le capacità logistiche degli autisti.

Saggiamo per la prima volta quelli che sono i normali ritardi dei voli interni Air Mad ed arriviamo a Fort Dauphin, dopo lo scalo a Tuléar, con un’ora di ritardo, verso le 15. Già dalla pista, significativamente abbellita da un tratto di arcobaleno, prendiamo contatto con un ragazzo che regge il cartello dell’hotel presso il quale avevamo cercato di prenotare, il Lavasoa, e gli chiediamo di aspettarci. La faccenda del ritiro bagagli è infatti cosa lunga: non vengono messi a disposizione dei passeggeri ma vengono “chiamati” tipo tombola e consegnati previa presentazione del talloncino, uno a uno. Naturalmente i nostri sono sul terzo e ultimo carrello: io attendo pazientemente in un angolo dedicandomi alla lettura del gratuito giornale locale trilingue (francese, inglese e malgascio, nell’ordine) dove campeggia il titolo “La sifilide spaventa Fort Dauphin. Il tasso dei malati aumenta! Il 30% degli abitanti sotto contagio”: decisamente inquietante ma mi pare un ottimo tentativo di bloccare la piaga del turismo sessuale che purtroppo in Madagascar ha una delle sue basi.

Intanto Petit Jean, il tassista, consapevole della lunga trafila, ci attende insieme ad altri addetti agli hotel: non si tratta di stipendiati ma di tassisti indipendenti che si accordano con gli hotel, in base alle stanze disponibili, per procacciare clientela. Ottima iniziativa, per noi, che una volta ottenuti gli zaini, per 21.000 Ar (10 euro) veniamo condotti attraverso la città (parola grossa!) fino alla penisola su cui sorge l’hotel, un insieme di bungalow in legno affacciati sulla spiaggia di Libanona.

002 La baia di Libanona vista dalla nostra veranda.jpg (118245 byte)

Già la vista delle montagne a ridosso di Fort Dauphin mi aveva entusiasmato per colori, scenografia, natura; l’arcobaleno e i giochi del sole tra le nubi che scorrevano velocissime nel cielo mi avevano conquistato : alla vista del nostro bungalow, decido che Fort Dauphin è meravigliosa. Ne scegliamo uno con soppalco, dove trova posto Tiziana, che ci costa meno di 50 euro in tre e dopo esserci “sistemati” attendiamo pazientemente il tramonto ( verso le 18-18,30) sulla nostra veranda, cullati dal rumore della risacca e ascoltando gli uccellini che abitano la fitta vegetazione che ci circonda. L’hotel è un po’ distante dal centro (a occhio, 15 minuti a piedi sulla  strada sabbiosa che porta a questa penisola sull’oceano) ma a duecento metri dal ristorante Chez Georges, collocato direttamente sulla spiaggia di Libanona e raggiungibile dai bungalow tramite un sentierino e con l’ausilio di una torcia per il rientro. Si tratta tra l’altro del ristorante che avevamo scelto, viste le descrizioni entusiastiche trovate, e alle 19 siamo già seduti a testarne l’attendibilità: esame passato a pieni voti. Le cene da Chez Georges sono ottime (tanto che non cercheremo altri ristoranti per tutto il soggiorno), anche se pare che in questi giorni sia difficile reperire il pesce e non c’è possibilità di scelta: comunque ogni piatto “obbligato” (granchio ripieno, insalata di polpo o gamberetti, aragostine alla griglia, filetto o zuppette di pesce, e anche i dolci) è stato squisito quindi direi che la penuria ittica non ha comportato svantaggi per noi. La serata si conclude con una splendida, meravigliosa stellata australe.

 

8/8/07

Non si può dire che si perda tempo, nello svolgimento di questo viaggio: durante il tragitto in taxi all’hotel, avevamo preso accordi con Petit Jean per l’escursione di oggi. Per 25 euro a persona, partenza alle 6, abbiamo prenotato la gita a Evatra e alla penisola di Lokaro. Ci sono tre modi di raggiungerla: in fuori strada, in barca a motore e in piroga a remi. Scegliamo la terza via: non è sicuramente il metodo più comodo e andando con la barca a motore resta più tempo per gironzolare sulla penisola. A noi però piace l’idea della totale tranquillità dello sciabordio dei remi e l’approccio soft alla gita. Molto soft, in effetti. Dalle due ore di viaggio che ci erano state pronosticate, si passa alle quattro effettive a causa di un fastidioso vento contrario, e anche al ritorno, i tempi sono molto più lunghi del previsto. In cambio abbiamo tutto il tempo di gustarci con calma gli splendidi panorami dei canali e dei tre laghi che attraversiamo, oltre al fatto che la nostra scelta dà da vivere a una categoria di lavoratori, i proprietari di piroga e i vogatori, destinati a scomparire. Quando poi la corrente si fa particolarmente fastidiosa, ci chiedono di coprire un breve tratto a piedi, passando per le fertili terre che si frappongono tra i laghi e l’oceano. Osserviamo le capanne di una piccola comunità che vive qui, dedicandosi alla pesca e all’agricoltura, in pressoché totale isolamento, La nostra guida ci spiega che purtroppo il nutrito gruppo di bambini che vediamo, non ha neanche una scuola da frequentare e pertanto scarsissime possibilità di miglioramento nella qualità di vita anche per i futuro.

La nostra guida ci racconta anche come tutta la regione rischia di subire modifiche irreversibili a causa dello sfruttamento minerario che una società canadese sta portando avanti da tempo. In città, stanno costruendo un nuovo porto: in cambio Fort Dauphin avrà un nuovo sistema di strade lastricate. Nella laguna, stanno invece costruendo una diga per evitare che l’acqua di mare risalga verso le postazioni che hanno creato per il lavaggio del minerale. Il sale infatti ostacola questa operazione. Ma la diga comporta anche una grossa modifica negli equilibri della vita di questo delicato ambiente. E ne abbiamo un’ulteriore conferma al fragoroso e inquietante esplodere di una mina, momento in cui ci rendiamo conto che le speranze di vedere uno dei pochi coccodrilli che ha eletto questo a proprio habitat, sono solo pie illusioni. Tra il baccano dei motoscafi e le operazioni dei minatori, i coccodrilli, e chissà quanti altri animali della zona, devono aver già fatto i bagagli da tempo.  

Arriviamo finalmente a Evatra. La laguna si restringe fino a lambire con la sua punta la bianca spiaggia che dà  sull’oceano e noi sbarchiamo in corrispondenza di un piccolo hotel (altra parola grossa!) con spazio per le tende e bungalow spartani. E’ qui che i nostri canoisti prepareranno il nostro pranzo mentre noi ci dedichiamo all’esplorazione di questa piccola porzione di penisola. Si attraversa il villaggio di povere capanne, si passa di fianco alla sede di un’associazione umanitaria di volontari che si occupano dello sviluppo della zona e che ha costruito un bella scuola, e ci si inoltra nella campagna. La passeggiata è breve e poco impegnativa: si supera il crinale e immediatamente si apre davanti a noi lo spettacolo del verde della costa e dell’azzurro dell’oceano; delle tante calette, delle spiagge abbaglianti, del mare impetuoso che trova requie solo in qualche rada isolata. Qua e là una palma dà tridimensionalità al paesaggio e un badamier, albero della famiglia dei mandorli, aggiunge uno strepitoso tocco di rosso.  

Scendiamo alla prima spiaggia di fronte a noi, quella chiamata “degli innamorati” (che fantasia!): una mezza luna candida in fondo a una insenatura protetta dalla forza dell’oceano, circondata da rigogliosa vegetazione (dove avvistiamo un folto gruppo di nepenta, le piante carnivore) e una piccola scogliera: ne approfittiamo per una sosta e un bagno. L’acqua è freddina all’impatto ma gradevole una volta abituati. E galleggiare placidamente osservando lo scenario alle spalle della spiaggia è un’esperienza da non perdere, soprattutto per chi ama l’acqua quanto me.

Neanche un’ora tra bagno e relax sulla sabbia e già è il momento di iniziare il rientro.

E lo spettacolo ha inizio di nuovo: si cammina su una enorme scogliera piana di granito, costellata da qualche formazione rocciosa ravvivata da palmette, agavi e piante grasse che trovano chissà dove la terra necessaria per attecchire. L’acqua non manca, come testimoniano le tante pozze e piscine scavate nel granito. Qualche grossa lucertola osserva incuriosita il nostro passare. Lentamente si risale e si raggiunge nuovamente il verde della collina per poi ridiscendere ad un’altra spiaggia su cui due uccelli bianchi saggiano la propria aerodinamicità nel vento dell’oceano aperto. Meriterebbe una sosta anche questo splendido luogo di pace assoluta, ma ricominciamo la salita verso un punto panoramico d’eccezione da dove ci è permesso abbracciare con un solo sguardo una caletta sottostante, il villaggio di Evatra affacciato sull’oceano e sulla laguna, la lunghissima spiaggia e l’interno verdeggiante. Altissime palme svettano sulle abitazioni e riconosco che questo è di gran lunga il punto più bello che abbia visto finora.

La discesa è rapida e all’ingresso dell’abitato veniamo presi d’assalto dai bambini che chiedono soldi e caramelle: ritornello che ci accompagnerà per tutto il viaggio.

Pranzo nel “resort” a base di ottimo pesce freschissimo e rientro alla base con ausilio di vela: cioè due sacchi da riso cuciti insieme. Insomma, invece di metterci 4 ore, al ritorno ce ne mettiamo un po’ più di tre, anche perché quando il vento diventa più sostenuto, bisogna di corsa disalberare per evitare di ribaltarsi. Diventiamo anche oggetto dello scherno di un nutrito gruppo di italiani (idioti) in barca a motore, ma una volta allontanatisi, torniamo a goderci la quiete del canale, lo sciabordio delle pagaie e le risate contagiose di uno dei rematori. Quanto meno fino a quando non esplode una mina alla cava.

Rientriamo in hotel soddisfatti ma piuttosto provati dalla giornata: soprattutto per la posizione costretta delle gambe ma anche per il sole, che ha brillato senza requie per tutto il giorno.

Cena veloce da Georges, doccia e nanna. Abbiamo già capito che qui bisogna adattarsi agli orari di alba e tramonto e raramente ci capiterà nell’arco del viaggio di ritirarci più tardi delle dieci di sera.

9/8/07

Decidiamo per una giornata di relax. Meta odierna, la Riserva di Nahampoana, a pochi chilometri dalla città, con lo scopo di entrare finalmente in contatto con l’animale più rappresentativo del paese: il lemure. Petit Jean passa a prenderci verso le 10, facciamo i biglietti all’ufficio della FD Travel e raggiungiamo l’ingresso del parco dove ci sono in attesa le guide addette alla visita, che si compone di passeggiata lungo il viale d’accesso con indicazione delle varie piante e visita alla vasca dei coccodrilli; raggiungimento della zona bungalow e del ristorante, dove veniamo accolti da due nutriti gruppi di lemuri, i sifaka e i catta dalla coda ad anelli; continuazione della visita per conoscere le tante piante endemiche del paese, con sosta alla gabbia dei camaleonti  e poi partenza per il giro del piccolo fiume che delimita il parco con avvistamento di altri catta ma del tipo marrone.  

035 Nahampoana - lemure Catta.JPG (73661 byte)

Pranzo a base di baguette imbottite al ristorante e rientro a Fort Dauphin.

Dal diario di viaggio:

Giornata rilassante a fotografare lemuri. Perché diciamocelo:belli i bambù, sia i gialli che i giganti, e scenografico il viale d’accesso ombreggiato dai bambù reclinati.Belli i sisal, le orecchie e le zampe di elefante, e l’albero salsiccia nonché l’incredibile palma triangolare, le gigantesche bouganville, gli alberi del viaggiatore, la cannella, il jackfruit e  il piccolo baobab di 13 anni  alto solo  un metro e mezzo. E anche tutte le altre piante che ho già dimenticato, e i 5 coccodrilli e le vispe tartarughe. Tutto bello, affascinante e curato. Ma la vera star, sono loro, i lemuri; e invece di andare in giro, vorresti stare tutto il tempo con loro, a vederli mentre si spartiscono le banane, voraci e con foga; a osservare i sifaka aggrappati ai rami con i piccoli al petto, mentre  giovani esemplari scendono curiosi a guardare questi bipedi muniti di macchina fotografica e li deliziano con la loro camminata danzante; e infine a rincorrere i catta mentre si allontanano con la coda elegantemente inanellata  a tratteggiare un simpatico punto di domanda

E’ inutile. Siamo catturati dalla magia di queste creature e quando la guida ci propone la notturna per vedere i microcebus, abbocchiamo. Sì, abbocchiamo perché è ben difficile vedere queste minuscole creature normalmente e ancora più difficile con una guida come l’Alphonse che ci è toccato in sorte. Si presenta all’appuntamento alle 19 semi ubriaco e ci trascina per mezza riserva alla ricerca di queste bestioline che sicuramente se ne guardano bene dal farsi trovare da un tipo del genere. Incrociamo gruppi più fortunati ma noi, dopo più di un’ora a girovagare sotto una pioggerella sottile, rinunciamo.

 

Ceniamo al ristorante della riserva. Nel buio totale dovuto a un black out apparentemente irreversibile, il menù consiste nella ormai familiare Three Horses Beer e un ottimo filetto di zebù prenotato nel pomeriggio. Al buio ma purtroppo non nella pace che dovrebbe associarsi a un posto di questo genere: i nostri vicini sono un rumoroso gruppo di “Avventure nel Mondo” che con le loro chiacchiere sguaiate rovinano decisamente l’atmosfera di posto fuori dal mondo di cui avremmo potuto godere.

Puntuale, Petit Jean passa a riprenderci e finisce così un’altra intensa giornata in Madagascar. Ritorno con la certezza che stanotte sognerò i lemuri.

10/8/07

Abbiamo fatto fatica a stabilire  il programma odierno: da un lato avevamo il desiderio di visitare la riserva di Berenty (altri lemuri) dall’altro siamo stati scoraggiati dagli alti prezzi, e dalla quantità di ore di fuoristrada da affrontare tra andata  e ritorno. Troppe per una visita di una sola giornata: converrebbe a quel punto passarci una notte in modo da godere appieno del luogo.

Decidiamo pertanto per una mattinata sulla nostra veranda,  e partenza alle 10 per Le Domaine de la Cascade, un non meglio precisato luogo di campagna con cascata di cui ci parlano bene sia Petit Jean che la proprietaria del Lavasoa. Il tempo è variabile con frequenti piccoli scrosci, cosa che ci permette di immortalare splendidi arcobaleni sulla baia.

Come stabilito, ci fermiamo all’ufficio cambio per procurarci gli aryary necessari per i prossimi giorni di viaggio: sappiamo che da qui a Tuléar non sarà più possibile cambiare.

Uscendo da Fort Dauphin, il tempo sembra migliorare nettamente e raggiungiamo la nostra meta nel pieno sole della tarda mattinata. Le Domaine consiste di una ampio prato inglese con uno spazioso bungalow e qualche costruzione aggiuntiva. Si può infatti decidere di alloggiare qui, se si ama la pace assoluta e il contatto con la natura.

Ci viene incontro una custode a cui Petit Jean spiega che vogliamo salire alla cascata e che al ritorno gradiremmo mangiare: io scelgo gamberetti in salsa curry, gli altri lo spiedino, e partiamo. La camminata è agevole: si passa di fianco a un paio di laghetti e a delle nursery per ogni genere di piante, fino a raggiungere il torrente, che qui in basso crea un piccolo bacino ombreggiato da enormi piante, alimentato da una piccola caduta d’acqua. Il cammino poi comincia a salire sul lato del torrente: nulla di particolarmente faticoso e la via è ben segnalata. A un tratto si guada e da questo punto si gode di una splendida vista su tutta la vallata. La salita nella foresta diventa leggermente più impegnativa, immersi nel verde, nelle grosse radici e tra le foglie. Ed è qui che ovviamente il tempo decide di cambiare: prima una leggera pioggia, poi uno scroscio più violento: troviamo un punto in cui gli alberi fitti ci fanno da ombrello. Quando la pioggia pare diminuire, ripartiamo ed è così che ci prendiamo la maggior parte della acqua che ci inzuppa completamente. Quando smette, siamo ormai alla cascata, che si rivela niente più di una cascatella in una pozza illuminata dal sole, che finalmente esce a far brillare le ultime gocce di pioggia che stillano dalle piante.

E’ lungo la strada del ritorno che mi accorgo di strane chiazze di sangue sui vestiti: del resto è normale che nella giungla, di fianco a un corso d’acqua, mentre piove, ci siano le sanguisughe. Controllandoci sommariamente a vicenda, ce ne liberiamo rapidamente,  anche perché non sono quelle che mi è capitato di vedere altrove. Queste sono piccolissime e una volta succhiato il mio sangue non sono più lunghe di due / tre centimetri. Che comunque sono più che sufficienti, a mio parere.

Ritorniamo alla base e veniamo fatti accomodare a un bel tavolo al sole di fianco al bungalow: in effetti viene voglia di passare un paio di giorni qui, nel più assoluto isolamento, curati e vezzeggiati dalla custode e da un anziano cuoco che ci prepara uno dei pasti migliori del viaggio. Mangiamo con calma, facendo asciugare i vestiti e gli zaini fradici, e intanto ammiriamo lo spettacolo del rigoglio della natura attorno a noi. E siamo piuttosto tristi che Petit Jean arrivi puntualmente alle 15 a prenderci.

Ma la giornata non finisce qui: arrivati all’ingresso di Fort Dauphin, subito dopo l’aeroporto, prendiamo una strada laterale che porta alla spiaggia di Ambinanibe. Si tratta di un altro angolo incantato di questa incredibile terra che nel giro di pochi metri cambia completamente aspetto. Qui, dopo aver attraversato i lavori che fervono per la costruzione di una strada per il nuovo porto, ripiombiamo nella pace e tranquillità di una enorme laguna interna, solcata da piccole piroghe e costellata di strutture in legno per la pesca.  La strada sabbiosa che la costeggia sembra sempre sul punto di franare nella laguna, stretta com’è dalla vegetazione prima e da un’immensa duna dopo. Incrociamo alcuni contadini che rientrano dal lavoro coi loro zebù e l’immancabile frotta di bambini improvvisa una partita al pallone in un ampio slargo. Ed è in coincidenza con il finire della duna che inizia un immenso tratto di spiaggia. Il cielo è pieno di scure nuvole basse, il sole filtra a tratti creando giochi di luce, l’oceano fa nuovamente la sua comparsa al di là della distesa di sabbia bianca con spruzzi di spuma e di azzurro, il vento disegna le sue forme nella rena: un vero incanto.  

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E’ questa l’ultima immagine che Fort Dauphin ci regala. La partenza per il tour del sud è ormai questione di poche ore.

11/08/2007

Puntuale, alle 7,30, il nostro mezzo è pronto per caricare i bagagli e per la nostra partenza. Ci ritroviamo con ben due autisti, Remo e Denis, da noi a breve ribattezzati Gianni e Pinotto per le loro litigate e i frequenti siparietti di cui si rendono comici protagonisti.

Su consiglio della proprietaria del Lavasoa, ci fermiamo in panetteria a fare un po’ di scorte per i 5 giorni che ci aspettano: 6 pacchi di Eau Vive, l’acqua minerale malgascia; una ventina di pagnottelle; una forma di formaggio che sarà elemento base di tutti i pranzi a venire; qualche dolce e biscotto, banane fritte e altri snack locali per spuntini vari. Ottima iniziativa, in effetti, perché se anche durante il viaggio non mancheranno luoghi di ristoro per il pranzo, si tratterà sempre di hotely, i tipici baracchini con scarsa dimestichezza con l’igiene, che cerchiamo di frequentare poco per scongiurare al massimo inconvenienti intestinali di difficile gestione, quando si deve necessariamente stare in macchina per parecchie ore al giorno.

I primi 100 km della strada che esce da Fort Dauphin con destino Tana e Tuléar sono asfaltati. Cioè sono tra i peggiori tratti di strada che ci troveremo a coprire per la totalità del viaggio. Costringono infatti di zigzagare continuamente da una parte all’altra della strada, evitando pedoni e carretti trainati da zebù, per aggirare i giganteschi crateri che costellano la maggior parte della strada. In coincidenza con qualche zona abitata, volonterosi bambini si sono appostati nei pressi di alcune buche che hanno diligentemente riempito e aspettano una mancia: iniziativa lodevole ma di poco e breve sollievo. Sballottati a destra e sinistra, con frequenti craniate perché per i primi due giorni Denis non ha ancora imparato a limitare la veemenza nell’affrontare la strada, osserviamo la natura che ci circonda. Per parecchi chilometri, il territorio è molto verde, montuoso ma pieno di coltivazioni, risaie, campi e filari di alberi. Noi attendiamo con impazienza la prima sosta programmata al Parco Nazionale dell’Andohahela, che per un lungo tratto costeggiamo, e che consiste di una parte di foresta pluviale e di una parte di foresta spinosa . Abbiamo scelto di visitare la parte detta “Tsimelahy“, che comporta una deviazione di 15 km circa dalla strada principale, e che dovrebbe rientrare in una zona di transizione tra i due tipi di foresta. Mentre ci avviciniamo, la terra si fa sempre più aspra e le cactacee prendono sempre più piede. Ma si tratta di un cambiamento quasi repentino, nell’arco dei pochi chilometri che separano il centro informativo sulla RN13, dove abbiamo pagato gli ingressi, dall’inizio del percorso guidato. Qui ci attende una guida che ci accompagna per l’ora e mezza circa in cui concentriamo la visita. Partendo dalla casa delle guide, in corrispondenza con il nostro primo vero baobab e di fianco a un placido fiume che abbiamo già guadato col fuoristrada, scendiamo lungo il crinale per un sentierino ben segnalato, costellato di varie piante bizzarre di cui la guida ci indica nome e impiego. A tratti si scende fino al fiume che qui scorre in un letto di granito dalle tinte rosa: la carenza d’acqua ci permette di camminare in prossimità dell’acqua che placidamente scorre. A tratti, invece, la strada risale fino a punti panoramici da dove ammirare il fiume nella sua interezza: in particolare osserviamo i colori dei vari salti tra le piscine che nel tempo l’acqua ha scavato nel granito, fino a giungere a un laghetto dove guadiamo nuovamente, in corrispondenza con l’area attrezzata per i picnic. Dopo una breve sosta al fresco delle piante, ricominciamo la salita sull’altro versante di questo piccolo canyon rosa: è proprio una gita piacevole, in un ambiente insolito e suggestivo.

Ci sarebbe piaciuto restare qui a mangiare il nostro panino al formaggio ma la consapevolezza dei tanti chilometri che mancano a Faux Cap, destinazione finale odierna, ci spinge a ripartire subito. Facciamo solo una breve sosta in un piccolo centro, Amboasary, per permettere agli autisti di mangiare e dove anche noi consumiamo il nostro panino sotto gli sguardi curiosi della popolazione intenta nell’allestimento di un mercato, e ripartiamo. La strada si snoda tra due ali di una impenetrabile foresta spinosa che in breve diventa una immensa distesa ordinata di sisal, con i suoi pennacchi che svettano nel vento caldo di questa regione semi desertica. Intanto l’asfalto ha definitivamente lasciato il posto alla pista e riconosco che gli scossoni sono diminuiti notevolmente, tanto che mi appisolo (e non riesco ancora a spiegarmi come questo sia possibile). Di quando in quando, qualche tomba mahafaly o antandroy, spezza la monotonia del viaggio: si tratta di ampi appezzamenti cintanti al centro dei quali sorge un monumento commemorativo dall’iconografia, a tratti bizzarra, che ricorda i fatti salienti della vita del defunto.

Non ci permettiamo altre soste perché ci rendiamo conto di essere molto in ritardo sul programma ed il buio ci sorprende che non abbiamo ancora imboccato la brutta e sconnessa pista che scende da Ambovombe  a Faux Cap.

E così, al nostro arrivo, scopriamo che nell’unico hotel degno di questo nome non c’è posto. Non che nutrissimo grandi speranze, visto che sapevamo che avremmo incrociato qui un gruppo di 8 persone atteso al Lavasoa per l’indomani e che qui al Libertalia non ci sono altro che 5 stanze (impossibile prenotare, non c’è telefono). Ma sinceramente speravo in un piccolo miracolo. E invece, sotto quella che mi sembra essere una tempesta di vento, nel buio più assoluto, ci tocca ripiegare sul contiguo Cactus Hotel: con questo vento, di montare la tenda che abbiamo con noi, non se ne parla. Veniamo accolti con stupore, vista la tarda ora e ci mostrano… la struttura: una serie di capanne di legno, senza luce, senza acqua, con fessure così grosse che stando a letto il vento riusciva a spettinarmi i capelli. Ogni volta che nel corso della notte ci muoveremo nel letto, una delle assi sottostanti il cosiddetto materasso, cadrà dal sostegno obbligandoci ad alzarci per rimetterla a posto. Dopo una giornata pesante come quella appena trascorsa, il quadro è decisamente poco confortante ma tant’è: quando non ci sono altre possibilità, ci si adatta e dopo una cena a base di un pollo anoressico e un lavaggio sommario con tanti fazzolettini umidificati, ci ritiriamo, invidiosi degli autisti che dormiranno sui comodi sedili del fuoristrada.

12/8/07

Sintetizzo l’esperienza della notte al Cactus sul Guest Book che mi viene fatto compilare al momento della colazione:

ce la si può fare!

Speriamo in tempestivi lavori per la creazione di un sistema fognario e qualche ammodernamento nel comfort dei letti, dopodichè sarà ottimo. La cucina pare buona: pare, perché purtroppo i nostri vicini francesi si sono mangiati di tutto prima del nostro arrivo (e i piatti lo testimoniavano) e parevano molto soddisfatti.

Tanto ottimismo e positività sono dettati più che altro dallo splendido spettacolo che si offre ai nostri occhi alla mattina: i bungalow si trovano su un’alta duna di sabbia bianchissima affacciata su una bella laguna e la colazione è allietata dalla vista del frequente passaggio, a qualche centinaio di metri, delle balene e di qualche delfino. E si vedono bene: saltano fuori dall’acqua, lanciano violenti soffi verso il cielo, picchiano con violenza la superficie. A Fort Dauphin ci eravamo interessati per effettuare l’uscita in mare per avvistare le balene ma la barca era in avaria. Chiediamo ora allo “staff” dell’hotel se sia possibile avvicinarsi per vederle meglio e ci dicono orgogliosi di sì, mostrandoci una barchetta in vetroresina di circa due metri, da azionare rigorosamente a remi. Decidiamo immediatamente che non è il caso di sfidare la sorte, salutiamo e ripartiamo.

Tappa odierna lungo la strada che ci porterà in serata a Lavanono è Cap Sainte Marie,  punta estrema del Madagascar e sede di un parco nazionale: la Routard non ne parla e la Lonely Planet dice che non è aperto al pubblico ma confidiamo sul fatto che entrambe sono vecchie e ci facciamo portare lì per vedere se nel frattempo l’Ente per la gestione dei parchi e delle guide si è organizzato per permettere la visita. Come al solito, i nostri autisti sono all’oscuro di tutto e accettano rassegnati il nostro volere.  

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La pista è ormai una semplice striscia di sabbia in mezzo ad agavi e cactus, con frequenti attraversamenti di tartarughe, ma le tombe sono diventate molto più numerose e meritano delle ripetute soste: capeggiano in cima al monumento semplici riproduzioni di macchine, di aerei, in un caso vediamo addirittura un elicottero, ricostruzioni di edifici dipinti ornati di specchietti e piastrelle colorate. Attorno, in base alla ricchezza spesa per il funerale, un numero variabile di corna di zebù, sacrificati in occasione della sepoltura. Considerando che la gente della regione vive in misere capanne di paglia, stride ancora di più il confronto tra la dimora terrena e quella eterna, ma almeno la popolazione locale ha trovato un modo di trarre un qualche vantaggio da tanta magnificenza post mortem: per quanto isolata sia una tomba, non appena ci fermiamo arriva qualcuno a riscuotere un obolo che paghiamo volentieri, così come volentieri distribuiamo qualche biscotto a bambini e adulti che accorrono numerosi a vedere i vazah, cioè noi, gli stranieri.

Siamo fortunati: il Parco è aperto e funzionante. Ci sono alcuni percorsi consigliati e paghiamo per essere accompagnati a due di quelli proposti: la passeggiata sulla falesia e la discesa alla grotta. Di più non ci è dato di sapere e partiamo pertanto all’avventura.

Gli autisti sono un po’ contrariati sia perché così faremo tardi per il loro pranzo, sia perché la pista per raggiungere i punti di partenza per le due escursioni è strettissima e di frequente strusciamo violentemente contro le piante spinose. Capiamo così perché gli altri fuoristrada della zona sono tutti in pessime condizioni.

La passeggiata sulla falesia è una tranquilla camminata di circa 20 minuti sul bordo dell’altopiano che si affaccia sul Canale del Mozambico. Sotto di noi, sulla spiaggia, passano piccole comitive di pescatori e in distanza, dal mare, continuano a levarsi in cielo spruzzi rivelatori. Il sentiero è ben segnato e la guida ci mostra varie piante grasse, alcune delle quali presentano strane infiorescenze; un paio di tartarughe, che in questa zona hanno il loro habitat ideale; delle grosse pittoresche cavallette dagli insoliti colori. La passeggiata conduce fino a una cappella dedicata alla Vergine Maria, in prossimità di un faro, attorno al quale sono in corso dei lavori per la realizzazione di un ristorante, con lo scopo di sfruttare turisticamente questa zona. Gli autisti ci attendono qui, alla fine del sentiero, per accompagnarci al secondo punto di partenza, quello per la discesa alla grotta. Lasciamo il fuoristrada in uno slargo tra cactus e alberi salsiccia e ci incamminiamo con la nostra guida lungo un sentiero sabbioso che scende lentamente verso il mare, prima in maniera graduale, poi più decisa attraverso una zona rocciosa: anche qui incrociamo la strada di parecchie tartarughe. Terminate le rocce, alcune delle quali artisticamente modellate dal vento,  inizia il vero spettacolo: approdiamo dapprima a una profonda striscia di sabbia abbagliante cosparsa di una enorme quantità di conchiglie di ogni genere, residui di conchiglie erose dall’acqua e resti di uova di Aepyornis, un uccello gigantesco che poteva raggiungere  i 300 kg e estintosi circa tre secoli fa. Arranchiamo fino al bordo della duna creata dal vento per affacciarci sulla laguna sottostante: un insieme di piscine emerse con la bassa marea dove sono all’opera piccole squadre di pescatori di molluschi, su cui troneggia uno spettacolare faraglione. La vista è veramente ad effetto e già questa parte dell’escursione è altamente meritevole. Ma non finisce qui: con nostro iniziale sommo rincrescimento, la guida inizia la discesa verso la spiaggia e la laguna, affondando rapidamente nella sabbia della duna fino a una quindicina di metri più in basso. Il nostro pensiero corre già a cosa comporterà la risalita. Raggiunta la spiaggia, ci avviciniamo rapidamente al promontorio che racchiude sul lato destro la baia e qui scorgiamo una prima e una seconda grotta. Ma è nella terza e più distante che la nostra guida scompare in un ampio antro: il tempo di abituarci alla penombra e davanti a noi si apre lo spettacolo dell’oceano che possiamo osservare da una sorta di finestra nella roccia e che possiamo andare a sfidare su una terrazza naturale. Le onde si infrangono con violenza sulla scogliera attorno a noi, costituita da terrazzamenti e archi naturali, creando splendidi giochi d’acqua e piccoli arcobaleni. In distanza i pescatori di molluschi sfruttano la risacca per svolgere velocemente la loro ricerca. Non oso pensare quale sarebbe la loro sorte se sbagliassero i tempi. Non ci staccheremmo più da questo posto magico, tanto più che la temperatura è decisamente più piacevole di quella esterna, sotto il sole dell’una, ma la guida ci spinge a continuare la nostra visita. Lasciamo le grotte, attraversiamo la laguna per la sua lunghezza e fortunatamente non affrontiamo la risalita lungo il muro di sabbia ma scegliamo una via più graduale per riguadagnare l’altopiano dove abbiamo parcheggiato. Nell’insenatura successiva ammiriamo un’altra insolita spiaggia sormontata da una duna ancor più spettacolare, forgiata e ricamata dal vento. Percorriamo lentamente la via del ritorno lasciando le nostre impronte nella sabbia, sentendoci una sorta di carovana nel deserto.

Gli autisti sono contenti di vederci, soprattutto perché affamati: Remo non fa altro che ripetere che le tartarughe sono il suo piatto preferito e allude a varie ricette. Temo continuamente in qualche sbandamento della macchina che vada a colpirne “casualmente” una delle decine che troviamo lungo la strada. Evidentemente col caldo, sono uscite tutte allo scoperto: a un certo punto siamo addirittura costretti a fermarci e a spostarle di peso dal tracciato della pista, per poter continuare lungo la nostra strada per Lavanono, dove arriviamo poco più di un’ora dopo aver lasciato la sede del parco. Chiediamo agli autisti di informarsi circa quale sia l’hotel più accogliente: dopo la notte passata al Cactus, è il minimo che possiamo concederci. E il meglio risulta essere “da Gigi Ecolodge”. Difficile stabilire di cosa si tratti: Gigi, un francese dell’isola della Riunione dice che non è un hotel ma la sua casa di campagna dove accoglie ospiti ma secondo un suo contraddittorio criterio. Ci dice che Lavanono è al centro di una splendida regione ricca di mete nascoste per gite meravigliose, ma è evidente che si tratta di segreti che non vuole condividere con noi. Gli chiediamo consiglio per la giornata di domani, disposti eventualmente a passare un’altra notte qui, ma lui tergiversa e non spiega neanche agli autisti quale sia il modo migliore per arrivare a Itampolo. Remo e Denis alla fine sintetizzeranno in una parola l’attitudine di Gigi: è stronzo. E per una volta, diamo loro ragione.

Dopo una bella passeggiata sulle immancabili dune circostanti, ci godiamo comunque le ore che passiamo in questo “ecolodge” per la non modica somma di trenta euro ad alloggio: una serie di bungalow con veranda, affacciati sulla lunga spiaggia, realizzati con materiale di recupero e decorati con conchiglie e doni del mare; bagni in comune pulitissimi, e doccia con acqua dolce che viene poi reimpiegata per innaffiare le varie piante, rigorosamente catalogate, che costituiscono il giardino. Nell’insieme una bella iniziativa: peccato per il personaggio.

Alle sette circa scatta l’operazione cena, decisamente degna di menzione: cucina creola a un ottimo livello e punch planteur offerto dalla casa, un aperitivo fatto in casa con rum malgascio (soprattutto) e succo di vari frutti. Spazzoliamo tutto e alle 21.30, allo spegnimento del generatore, ci ritiriamo per un piacevole dopocena immersi nel buio totale sulla nostra verandina, dove mi metto di impegno a contare le stelle cadenti: arrivo a sette ma poi la stanchezza  e il punch hanno la meglio.

13/08/07

Dopo lunghi ripensamenti e vari studi di cartine da parte degli autisti, decidiamo di evitare la difficile pista che da Lavanono porta direttamente a Itampolo per la meglio segnalata strada che sale fino ad Ampanihi, sacrificando così un giorno di mare a un po’ di entroterra. Ampanihi è infatti tappa obbligata della strada interna che porta da Tuléar a Fort Dauphin. Se avessimo avuto autisti della regione, questo non sarebbe stato necessario ma in fondo non ci dispiace visitare un luogo diverso dalle località di mare in cui abbiamo fatto tappa finora. O quanto meno, la pensiamo così fino a quando non testiamo l’orribile stato in cui versa la strada prescelta.

Verso le nove, lasciamo Lavanono e l’ampia pianura costiera che la alloggia e risaliamo la ripida falesia alle sue spalle: qui la strada è la solita pista di sabbia costellata di tartarughe fino al piccolo centro di Beloha, dove decidiamo di fare una breve sosta per consentire agli autisti di fare colazione. Passeggiamo lungo la strada principale del paese, attraverso il mercato e fino all’imponente chiesa. Il fatto di scattare alcune foto, ci rende l’attrazione principale per tutti gli abitanti in zona. Scattiamo le foto che poi mostriamo loro nel display: i meno timidi arrivano a chiederci loro stessi di essere fotografati, assumendo la posa impettita tipica delle foto di altri tempi.

Dopo avere ampiamente documentato fotograficamente la popolazione adulta di Beloha, ripartiamo verso nord. Impossibile evitare una sosta a una splendida tomba decorata di ricchi alo alo, sculture in legno conficcate nel terreno della tomba, che rappresentano scene della vita del defunto: una nuova variante delle tombe già viste, peculiare di questa zona.

Dopodiché inizia una delle strade peggiori dell’intero viaggio: la strada è una pista dissestata dove le piogge si sono portate via molta della terra che la rendeva piana, portando allo scoperto ampi tratti rocciosi. In prossimità dei frequenti corsi d’acqua, attualmente in secca, la situazione si fa anche più difficile, quando siamo costretti a scendere di alcuni metri dal livello del tracciato della strada. Quelli che si possono considerare dei tentativi di ponte, sono solo delle strutture in cemento in mezzo al nulla, visto che l’acqua ha eroso tutto il terreno intorno e non è pertanto possibile percorrerli e siamo ogni volta costretti ad aggirarli. Le buche sono voragini e il terreno, diventato duro, ci fa sobbalzare continuamente: i massi sono frequenti, ricchi di quarzo rosa, e la temperatura è molto più alta rispetto alla zona più prossima alla costa, tanto che siamo costretti a fermarci a dare un po’ di tregua al motore. Sono circa 90 i km da percorrere per raggiungere Ampanihi, ma in queste condizioni diventano interminabili. La strada peggiora a vista d’occhio, così come lo stato delle pietre miliari che all’inizio del tragitto ci segnalano puntualmente il passare dei chilometri e che all’improvviso scompaiono o diventano del tutto illeggibili. Dopo 3 ore di questo sconquasso, non abbiamo più idea di dove siamo né di quanto manchi. L’arrivo ad Ampanihi è una sorta di liberazione ormai insperata. Unica nostra aspirazione è sdraiarci su un letto e far passare il mal di mare. L’hotel della cittadina è costituito da una serie di bungalow in muratura, con tetto spiovente e l’aria da piccola baita alpina (o anche la casa di Biancaneve e i 7 nani, a ben vedere). In un unico piccolo ambiente hanno ricavato la zona letto e la zona bagno, rialzata, quest’ultima, su un alto gradino e separato dal resto della stanza da una tenda che ne delimita il perimetro. Ultima nota di colore è la rubinetteria, regolarmente installata ma inutile, visto che qui l’acqua corrente non c’è. Avranno voluto  essere previdenti.

Dopo un primo malinteso riguardante il prezzo (le stanze ci erano state quotate in Franchi Malgasci e quindi a 5 volte il loro valore effettivo), ci installiamo nel giardinetto dell’Hotel Angora (15.000 ar = 6 euro)  e mangiamo, come tardo pranzo, l’ennesima porzione di formaggio, ormai fortemente provato dalle temperature ma ancora commestibile. Troviamo anche il tempo di fare finalmente un po’ di shopping: appena diffusasi la notizia del nostro arrivo in città, un gruppetto di venditrici ha steso i propri teli/banchetti di fianco al nostro cancello e ci assillano fino a quando non compriamo qualche souvenir. Nelle vicinanze di Ampanihi risulta esserci il baobab più vecchio del mondo ma non riusciamo nemmeno a pensare di metterci nuovamente in macchina. Ammesso poi di ritrovare gli autisti che, appena scaricati i bagagli, sono spariti. Dopo un lungo riposino è già ora di una memorabile cena a base di pollo: se quello del Cactus era anoressico, questo è sicuramente morto di fame.

Per niente appesantiti dalle 4 patate che hanno costituito la parte nutriente della nostra cena, ci ritiriamo nelle nostre baite per qualche ora di ulteriore necessario riposo.

14/08/2007

Lasciamo presto questa cittadina e ci dirigiamo nuovamente verso il mare. Nella nostra rotta verso sud, percorriamo ancora qualche pessimo chilometro ma poi la strada torna ad essere una comoda pista sabbiosa, con la peculiarità che qui la sabbia ha una calda tonalità rossa. Attraversiamo una fitta foresta spinosa e per qualche tempo non vediamo più insediamenti umani: in compenso, con nostra somma gioia, ci passa davanti un lemure selvatico che attraversa la strada, raggiunge un altro lemure e insieme si allontanano sotto i nostri sguardi incantati. Non c’è nulla da fare: queste creature ci hanno proprio conquistato.

Dopo qualche tempo , dal nulla, comincia a spuntar gente: camminano sul bordo della strada, qualcuno si muove sui piccoli carretti trainati dagli zebù e tutti sono molto ben vestiti e impettiti. Scopriamo dopo qualche chilometro il motivo di questa migrazione: è giorno di mercato e nel raggio di svariati chilometri tutti si muovono per andare a vendere i propri prodotti e per fare acquisti. E durante la visita, mi viene anche il sospetto che vengano qui per raccontarsi le novità della regione e per farsi vedere. La curiosità nei nostri confronti dura poco: sono tutti molto indaffarati e c’è veramente tantissima gente. Le donne stanno per lo più sedute in gruppo mentre gli uomini si aggirano per i vari “stand”  o fanno capannello a parlare. E, cosa piuttosto inquietante, sono tutti armati di una lunga lancia o un grosso machete. Quando ripartiamo, chiediamo ai nostri autisti la ragione di questa esibizione di forza e ci rispondono che qui è una cosa normale, che significa che sono specialisti nell’uso delle armi e che non devono essere disturbati. Dice che qui al sud i furti e gli assalti sono frequenti e che la presenza delle armi indica che nel caso, loro sono pronti ad usarle. Sinceramente, sentire l’ennesimo accenno negativo nei confronti della popolazione del sud del paese mi ricorda molto i discorsi leghisti di qualche anno fa e sono un po’ scettica sulla veridicità di quanto raccontano Rémo et Denis, signori del nord. Ma probabilmente ci credono anche loro, visto che all’improvviso ci dicono di stare comunque tranquilli perché anche loro si sono preparati per questo viaggio acquistando i mezzi intimidatori necessari. Ed estraggono dal portaoggetti, un coltellaccio, l’uno, e un machete, l’altro, noncuranti del cartellino del prezzo ancora attaccato a entrambi che la dice lunga della loro preparazione in fatto di uso delle armi. Tanto che poi aggiungono: servono da mostrarle in caso di necessità ma speriamo che non serva perché non abbiamo la più pallida idea di cosa farne.

Scarsamente rincuorati da questa “polizza assicurativa”, continuiamo sulla nostra pista per almeno altre tre ore, chiedendo continuamente indicazione per la strada a più persone perché, dice Remo, questa è gente di cui non ci si deve fidare troppo e sono capaci di darti l’indicazione sbagliata per mandarti fuori strada. In effetti alcuni soggetti fermati hanno un’aria poco rassicurante e i sorrisi che ci hanno accompagnato per parecchi giorni hanno lasciato il posto a sguardi truci. O forse ci siamo semplicemente lasciati influenzare dalle nostre “guardie del corpo” molto prevenute.

Rispetto alla giornata di ieri, le ore di fuoristrada oggi passano come niente e alle 14 siamo già all’hotel  Sud Sud di Itampolo dove ci viene assegnato un ampio, semplice bungalow direttamente sul mare. Il tempo di lasciare i bagagli in camera e ci fiondiamo sulla spiaggia, dove ci fanno compagnia e fanno il bagno con noi, un bel gruppetto di ragazzini del vicino villaggio. Mentre consumiamo l’ultima razione di formaggio, arrivano anche i nostri autisti che si spogliano in corsa,e si buttano in acqua e si fanno scherzi come due ragazzini in gita. Del resto il posto si presta, con la lunga spiaggia di un candore abbagliante e il mare con le onde ideali da saltare e da cui farsi trascinare fino a riva.

Di Itampolo mi rimarrà per sempre in mente il colore bianco della sabbia e l’azzurro assoluto di mare e cielo nel momento del nostro arrivo. Già verso le 16, la luce cambia completamente e noi ci gustiamo l’atmosfera come rarefatta che precede il tramonto e i colori un po’ sfuocati con una lunga passeggiata fino a due dune sormontate da un albero che sorgono in fondo alla spiaggia. La sabbia è spessa e il vento ha disegnato i suoi ricami arricchiti di tante grandi conchiglie.

Rientriamo in tempo per un aperitivo a base di Three Horses Beer e noccioline, con vista sul tramonto incandescente.

Ottima anche la cena, in questa struttura molto semplice dove però non disdegnerei di passare qualche giorno: il personale è tra i più gentili e disponibili di tutta la vacanza.

Ma noi abbiamo altri programmi perciò ci ritiriamo presto, dopo l’ormai abituale osservazione ammirata del magnifico spettacolo di un cielo inondato di stelle.

15/08/2007

Ultimo giorno di viaggio con la nostra strana coppia di autisti. Hanno fretta di arrivare ad Anakao per ripartire immediatamente alla volta di Tanà, perciò non sono contenti quando, lungo la strada,  chiediamo di fermarci per una breve visita al Parco Nazionale di Tsimanampetsotsa. Anche qui, le guide danno informazioni piuttosto frammentarie se non errate. Il personale del parco ci spiega invece con esattezza cosa stiamo per visitare: una giovane ed entusiasta guida ci accompagna al lago omonimo, dalle acque di uno strano azzurro irreale, che costituiscono per gran parte dell’anno l’habitat abituale in una folta colonia di fenicotteri rosa. Il lago è grande, anche se in questo periodo dell’anno è ai suoi minimi, e i fenicotteri se ne stanno indisturbati al centro, ben lontano da noi fastidiosi osservatori. La visita prosegue poi a qualche chilometro dal lago su un breve circuito che permette la conoscenza di una serie di piante endemiche della regione: la guida si sofferma anche a spiegarci il loro impiego in campo medico, farmaceutico ed estetico. In particolare scoviamo la pianta dalla cui corteccia si ricava una sostanza rossastra che molte donne usano come crema per proteggersi dal sole e dagli agenti atmosferici. Franciscus, la nostra guida, ci spiega che le creme occidentali costano troppo per le donne locali, che però ci tengono a prendersi cura del proprio aspetto. La visita prosegue con le foto di rigore ad alcuni baobab: quello che sorride, per via di una sorta di sorriso inciso nella corteccia; il vazah, con corteccia rossastra e biancastra che a tratti si stacca, come la pelle degli stranieri, i vazah, appunto, sotto il sole malgascio; e la “nonna” baobab, un enorme, tozzo baobab antichissimo. C’è da notare che si tratta di baobab tipici della regione e non quelli più noti che illustrano i cataloghi sulle bellezze d’Africa o quelli più famosi del Viale dei Baobab, a Morondava, alti, imponenti, spettacolari. Ma la loro dimensione ridotta non altera la sensazione di rispetto che questo strano albero che sembra cresciuto “al contrario”, con le radici che svettano al posto dei rami, sa ispirare. Facciamo una sosta a una piccola grotta sotterranea dall’acqua limpida a vedere i famosi pesci ciechi (che quindi stanno qui e non nel lago, come sembra alludere la Lonely Planet). Ulteriore tappa a un cenote, una profonda spaccatura nel terreno piena di acqua azzurrina, circondato da una lussureggiante vegetazione e popolato da una quantità di uccelli, che la nostra guida pazientemente di segnala (tra cui il famoso pappagallo grigio del Madagascar). Chiediamo se ci siano lemuri in zona e ci spiega che ci sono ma vengono qui ad abbeverarsi solo alla mattina presto o al tramonto: i lemuri sono ormai diventati una fissazione, per noi e Franciscus ci suggerisce di andare a mangiare qualcosa in un ristorante vicino all’ingresso del parco in cui, ci dice, ci sono alcuni lemuri in cattività.

L’idea ci piace e torniamo alla macchina a convincere gli autisti a farci a fare una sosta fuori programma a Le Domaine de Ambola: del resto ormai la caciotta è finita e anche loro sono sempre sensibili all’argomento rancio.  

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Il posto è incantevole: sabbia abbagliante, una grande laguna azzurra in cui emergono piccoli tratti di barriera corallina, una struttura di poche camere nuova di zecca immersa in un giardino popolato di tartarughe e oche; l’atmosfera da cartolina è completata dal passaggio di piroghe e piccole imbarcazioni a vela. E poi arrivano loro: i lemuri. Sono tre, sono cuccioli di catta: con una simpatica lunga coda che non ha ancora raggiunto lo splendore degli esemplari adulti e sembra un enorme scovolino da pipa per juventini; il pelo non è la morbida pelliccia che abbiamo ammirato a Nahampoana ma sembra un peluche infeltrito per cui si è sbagliato il lavaggio. Sono simpatici, sempre in movimento, saltano da un punto all’altro della grande tettoia della zona ristorante e la loro prima mossa per fare la nostra conoscenza consiste nell’infilare la testolina nei bicchieri che sono stati preparati per il nostro pranzo. Per niente intimoriti, vengono a controllare il contenuto delle nostre borse e ci toccano, ci saltano in braccio, ci leccano: sono esserini stupendi, leggerissimi, con manine perfette e sguardo intenso. Il pranzo non è ancora pronto quando diamo alla notizia agli autisti: invece di continuare fino ad Anakao come pattuito, noi ci fermiamo qui. Ecco il bello di viaggiare senza grossi vincoli di prenotazione e un’organizzazione ferrea delle tappe.

Per 25 euro a stanza, ci appropriamo di due nuove camerette in tinta pastello con enormi zanzariere e la promessa di secchi di acqua calda per la doccia della sera (qui l’acqua corrente c’è ma non calda). Ci rallegriamo ulteriormente a pranzo quando scopriamo che il cuoco è un virtuoso dei fornelli. Un posto di cui mi innamoro e che so già che ricorderò per sempre.

Dopo pranzo, salutiamo gli autisti che nel bene e nel male, ci hanno fatto fare tutto quello che volevamo, ci hanno intrattenuto coi loro litigi e ci hanno anche raccontato un po’ di Madagascar dal loro punto di vista.

Trascorriamo le ultime ore di luce sulla spiaggia, ad osservare il passaggio dei pescatori di telline che per ore camminano a pochi metri dalla riva, sulla barriera; piccole imbarcazioni approdano alla nostra spiaggia per proporre il risultato di una giornata di lavoro al nostro cuoco; un paio di zebù passano a pochi metri dai nostri teli rientrando da non si sa quale pascolo; le oche si avvicinano minacciose, disturbate dalla presenza di noi, estranei, sulla loro spiaggia; e ci godiamo infine brevi incursioni dei nostri nuovi amici che si uniscono definitivamente a noi ad osservare un tramonto meraviglioso. Si ritirano a dormire solo dopo aver tentato più volte di rubare la nostra ottima cena.

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16/08/2007

La giornata inizia presto come al solito: ormai la sveglia suona automaticamente nella nostra testa prima delle sette ma invece di rimanere a poltrire a letto come la prima giornata di vacanza marina suggerirebbe, sentiamo del fermento all’esterno e ci affacciamo. Il direttore dell’hotel ci spiega così  che un gruppo di balene sta passando proprio di fronte alla nostra barriera e ci mettiamo per una mezz’ora in cima a un tetto del complesso ad osservare spruzzi d’acqua e movimenti di code. Ovviamente coadiuvati dai nostri amici lemuri, che ci raggiungono immediatamente e ci coinvolgono nei loro giochi. Sono simpatici e dolcissimi: magari questa dolcezza  è merito dello zucchero che a più riprese riescono a rubare sotto il nostro naso. Non appena abbassiamo la guardia, e la persona preposta a tenere lontano i lemuri durante i pasti si distrae o rincorre uno dei tre, immancabilmente troviamo un cucciolo col muso immerso nella zuccheriera o nella marmellata. Terminiamo la colazione, augurandoci che ogni giorno in cucina provvedano a una sostituzione completa di questi prodotti.

E’ inutile: sono completamente soggiogata. Mentre Ivo e Tiziana si preparano per piazzarsi in spiaggia, io scatto decine di foto e faccio filmati alle piccole pesti che imperversano in giardino. Si arrampicano sulle piante, strappano frutti e baccelli, portano alla bocca di tutto e masticano a bocca aperta, con gusto e concentrazione. Si rincorrono e si fanno dispetti ma hanno sempre l’occhio vigile verso la cucina in attesa che la porta lasciata inavvertitamente aperta dia la possibilità di una allegra scorribanda. Amano usarmi come pianta, e si arrampicano e mi saltano addosso a più riprese, per poi masticarmi a tratti i capelli o per ficcare la testa nella borsa. Le loro manine perfette mi incantano: i polpastrelli neri con i delicatissimi disegni delle impronte digitali, le piccole unghie arrotondate che sembrano appena uscite dalle mani di un’addetta alla manicure, la morbida peluria e le lunghe dita eleganti.

Raggiungo i miei “soci” sulla battigia, stesi al riparo di una piroga per via del vento che stamattina alza parecchia sabbia, ma disturbata dalle sabbiature involontarie, mi allontano per una passeggiata. Mentre verso nord si intuisce l’esistenza di un villaggio, verso sud la spiaggia continua ininterrotta per qualche centinaio di metri alternando sabbia a lastroni di roccia e zone di barriera affiorante: ritirandosi, la marea ha seminato qua e là una quantità di enormi conchiglie bianche, gusci di tridacne sbiancate dal sale e dal sole, che mi diverto a fotografare.

Al mio ritorno alla base, dopo un po’ di snorkeling, stanchi del peeling, ci spostiamo sul tetto della cucina, trovando riparo dal vento dietro ai bassi muretti. E dove diventiamo immediatamente rifugio per la femminuccia dei lemuri che desiderando sottrarsi alle eccessive attenzioni dei compagni, si rannicchia in braccio a Ivo o nell’incavo del braccio di Tizi cercando protezione e addormentandosi.

La giornata passa così: tra un gioco e l’altro, un pisolino, tante foto ai lemurini che ci hanno adottato, il sempre ottimo pranzo che ci fa sorridere al ricordo dei tanti pasti a base di formaggella.

Il sole c’è ma si capisce che qui è inverno: mai usata protezione superiore all’otto, coloriti ma mai scottati. Un anno di tregua per la pelle, insomma, dopo le tante vacanze ai tropici.   

Verso sera, poco prima del tramonto, assistiamo a uno stranissimo fenomeno atmosferico: un minaccioso fronte nuvoloso, di due-trecento metri di ampiezza, si muove rapidamente perpendicolare alla costa, il vento rinforza e i lemuri scappano a rintanarsi nella loro cuccia, sotto al tetto del ristorante e si abbracciano spaventati.

Piove per una decina di minuti ma noi ci stiamo già godendo il nostro secchio di acqua bollente e usciamo in tempo per un nuovo spettacolare tramonto: non c’è più traccia della minacciosa perturbazione e ci gustiamo la cena sulla terrazza sopra all’edificio principale, che è la più riparata, visto che il vento si fa ancora sentire.

17/08/07

Il vento non demorde, perciò passiamo la giornata in terrazza, sempre al riparo dei muretti. E’ un peccato non poter usufruire della splendida spiaggia, ma almeno così i lemuri stanno perennemente con noi (a quanto pare non amano troppo la vicinanza del mare): altre foto, filmati, giochi, coccole. Io sono già triste all’idea di dover lasciare questo piccolo angolo di paradiso ma tutto è organizzato: abbiamo trovato un addetto del parco che ci porta in fuoristrada ad Anakao, dove abbiamo prenotato tramite il direttore di Ambola per tre notti. E del resto qui, nel frattempo, è arrivata gente e le nostre camere servono per i nuovi arrivi. Ciononostante, lasciano le stanze a nostra disposizione fino alle 15.30, orario della nostra partenza, e noi ci godiamo Le Domaine d’Ambola fino all’ultimo minuto. Menzione d’onore per il personale dell’Hotel: gentilissimo, sempre pronto per ogni nostra esigenza e simpatico. Il cuoco me lo porterei a casa nello zaino: gli ingredienti a sua disposizione sono limitati ma tutti i giorni ci ha sfornato due completi menù con possibilità di varie scelte. Ci siamo proprio trovati bene qui. 

E l’ora dei saluti arriva: non mi vergogno a dire che salendo sul pick-up, piango.

Il nostro autista è molto simpatico e dopo un po’ riesce a distogliermi dal mio stato di depressione, e ancor più ci riesce il rischio di un frontale con un altro fuoristrada. Scampato il pericolo, grazie alla sua previdenza, ci racconta che qui gli incidenti sono all’ordine del giorno, soprattutto a causa degli stranieri che affittano i mezzi e affrontano le piste come se fossero il loro personale circuito in un videogioco: a manetta e senza curarsi eccessivamente delle conseguenze e dei rischi; che sono le sia pur rare vetture che arrivano nel senso opposto (la pista è unica per i due sensi di marcia) e passanti, animali e carretti vari che puoi ritrovarti dopo una curva, celati dalla vegetazione. Insomma, un bel rischio da non sottovalutare e il tizio che rischia di schiantarsi contro di noi è uno straniero, mentre il fuoristrada che a un certo punto ci supera a tutta velocità, rischia di investire un carretto trainato da zebù con sopra un’intera famiglia: un vero brivido di terrore per me, figurarsi per quei poveretti!

Arriviamo in poco più di un’ora a Anakao: lungo la strada che scorre nell’interno, si supera l’accesso ad alcuni resort o piccoli hotel. Tra questi un costosissimo resort proprietà di italiani, decisamente fuori budget per noi. All’arrivo al Prince Anakao, abbiamo purtroppo una brutta sorpresa: non c’è traccia della nostra prenotazione e sono al completo. Il direttore molto gentilmente acconsente a chiamare un altro resort ma anche lì non c’è posto. Il nostro autista si offre di accompagnarci allora al Safari Vezo, un piccolo resort che avevamo scartato per il desiderio di concederci per tre giorni delle docce calde e che non contemplassero l’uso del secchio. Fortunatamente qui troviamo posto e ci accomodiamo immediatamente in due bei bungalow direttamente sulla spiaggia, ampi, con veranda, un bel giardino di piante grasse, bagni enormi decorati con mosaici e sassi antiscivolo e… quattro secchi al giorno di acqua fredda a testa per le nostre abluzioni e i bucati.

La nostra prima doccia qui è un vero choc: i secchi erano già in camera e l’acqua era veramente ghiacciata. Per reazione, a cena mi presento bardata come per un inverno scandinavo.

18/08/07

La nostra prima giornata parte all’insegna dello shopping. Il Safari Vezo si trova proprio di fianco a uno dei due villaggi che costituiscono l’entità Anakao. Perciò dopo colazione, partiamo per un primo raid alle varie bancarelle e ai negozi di magliette del marchio Maki e Baobab. Incredibile quanti tipi di magliette il Madagascar riesca a produrre, e quasi tutte di buona qualità e con un design molto accattivante: soggetti principali sono lemuri, camaleonti, baobab a colori vivaci e con scritte simpatiche. Rientro dal mio tour, alleggerita di una buona quantità di Aryary e carica di un certo numero di regali. Fortunatamente la nostra scorta di valuta locale resiste, visto che anche qui non c’è banca né ufficio cambio. Mi pare di intuire che in caso di necessità, la proprietaria del nostro resort, una francese che mi ricorda in tono e piglio la mia insegnante francese delle superiori, possa effettuare qualche cambio… di favore, ma dubito che applichi tassi… di favore.

Abbiamo anche modo di osservare da vicino la vita del villaggio, nel bene e nel male: l’industrioso mercato e i vari prodotti in vendita, l’interno di qualche casa, la manutenzione delle piroghe, ma anche la sporcizia buttata in giro e la battigia usata come toilette. Fa impressione camminare tra splendide conchiglie candide e dover continuamente scansare piccoli cumuli dalla inconfondibile forma e consistenza. Del resto assistiamo anche in diretta al “deposito” da parte degli abitanti: proprio mentre osserviamo una piroga particolarmente colorata, una ragazzina si ferma a pochi metri da noi, si rimbocca il lungo abito e si accoccola tranquillamente a espletare le proprie funzioni corporali, come se niente fosse. Del resto è chiaro che qui fanno affidamento sulla marea che tra qualche ora salirà e ripulirà tutto, ma questa realtà influirà non poco sul mio desiderio di farmi il bagno. Fortunatamente i nostri bungalow sono molto lontani da tutto ciò e quando ci piazziamo in spiaggia, ci dimentichiamo praticamente di tutto.

Il Safari Vezo offre la possibilità di varie escursioni, tra le quali quella all’isola di Nosy Ve, proprio di fronte alla nostra spiaggia. Ma noi preferiamo accordarci con dei ragazzi del villaggio per una bella gita con piroga a vela per l’indomani.

Verso le 15 ci concediamo un panino al ristorante godendoci lo spettacolo di tutti i ragazzini della zona che fanno “volare” i loro modellini di piroga lungo l’ampio bagnasciuga che si è creato quando la bassa marea ha raggiunto il suo massimo. Ce ne sono di tutte le età e le loro imbarcazioni sono di varie dimensioni. Le appoggiano sull’acqua e attendono che il vento ne gonfi adeguatamente la vela per poi lasciarle libere di percorrere anche decine di metri, nel vento e nel sole. Loro le rincorrono da vicino e quando il vento “cede”, sono pronti a raccogliere i loro piccoli capolavori e a ritornare verso riva per una nuova corsa.  Uno spettacolo emozionante.  

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Torniamo ai nostri bungalow per prendere gli ultimi raggi di sole nel nostro giardino, più riparato dal vento, rispetto alla spiaggia. Abbiamo lasciato i secchi d’acqua sulla veranda per tutti il giorno, al sole, e sappiamo che ci aspetta una gradevole doccia tiepida, poco prima del solito acceso tramonto, che mi gusterò mentre faccio asciugare lentamente i capelli nella brezza.

19/08/2007

Rispetto alla gita in piroga a motore, quella con piroga a vela dura molto di più. Malgrado l’enorme vela su cui capeggia un bel musetto di lemure, lo scarso vento del mattino rende molto più lento il nostro avvicinarsi all’isola. Inoltre si parte molto più tardi perché di prima mattina, di vento non ce n’è proprio. Ce la facciamo, comunque: a quanto pare questo viaggio è all’insegna dello slow travel.

Prima di partire alla ricerca del nostro pranzo che sarà cucinato proprio qui sulla spiaggia, i nostri velisti ci accompagnano a un grosso cespuglio a vedere un cucciolo di “fetonte dalla coda rossa”, una specie che nidifica qui. Ci osserva con i occhietti timorosi che spiccano nella folta peluria, quasi già rassegnato alla curiosità umana. Anzi, mi viene il sospetto che la madre sia anche regolarmente stipendiata dall’ente del turismo.

Possiamo poi partire all’esplorazione dell’isola: la spiaggia che guarda verso la costa è una lunga striscia di spessa sabbia bianca, alle cui spalle si stende un basso manto di vegetazione verdeggiante. Ma appena “svoltato l’angolo” il mare assume una tonalità unica, che ancora non avevo visto, qui in Madagascar, un azzurrino delicato con vaste fasce di turchese inteso. L’altro versante dell’isola si affaccia infatti su un’ampia laguna disseminata di piccoli scogli sommersi, che si estende fino alla barriera corallina, a qualche centinaia di metri di distanza. Unico rimpianto di questa vacanza è di non essere mai riuscita ad osservare la fauna marina della barriera: anche in questa occasione mi accontento infatti di farmi trascinare dalla corrente per circa 300 metri, da uno scoglio all’altro, ad osservare piccoli e schivi pesci di barriera, spettacolari stelle marine e Nemo col suo babbo in vacanza in Madagascar, che mi osservano dall’immancabile anemone marino.

Ed è già ora di pranzo, che consumiamo su un’isola ormai pressoché deserta (chi arriva con le barche a motore, rientra prima): un pasto a base di piovra e pesce fresco cucinato su una griglia improvvisata e riso bollito.

Il rientro è all’insegna di grandi secchiate d’acqua, visto che ora il vento c’è ed è forte; il mare si è mosso e la marea abbassata, perciò osserviamo il nostro velista, in piedi sul bilanciere a fare da contrappeso, che segnala al timoniere la giusta via tra frammenti di barriera affioranti.

Ci fermiamo solo brevemente a prenotare la barca che domani ci porterà a Tuléar e facciamo ritorno al nostro bungalow a goderci le ultime ore di sole, con la prospettiva di una bella doccia calda, visto che oggi, oltre ad aver lasciato i secchi al sole, ho messo anche due bottiglie ad assorbire tutto il calore della giornata: risultato garantito.

20/08/2007

E anche il nostro soggiorno ad Anakao è terminato. Dopo colazione completiamo lo shopping con qualche altro ricordino ed è già tempo di chiudere i nostri riluttanti zaini. 

La M.S.V. Vedette (40.000 Ar a persona – 20 euro circa) è puntuale: scarica a terra un nutritissimo gruppo di Avventure nel Mondo e l’ingente quantitativo di bottiglie d’acqua che si sono portati (l’acqua qui è leggermente più costosa che altrove!) ed è pronta a ripartire, raccogliendo i vari clienti dai diversi resort lungo la costa. Il mare è calmo, i motori potenti e senza neanche rendercene conto siamo a Tuléar. Lo sbarco è forse una delle esperienze più insolite di questo viaggio. Ci avviciniamo alla costa, oltre il porto cittadino, e a circa 300 m. dalla riva, spegniamo i motori. Mentre ci domandiamo il perché di questa manovra, vediamo in distanza avanzare nell’acqua, bassa per via della marea, un paio di carrette trainate da poveri zebù di… evidente razza anfibia. I poveri animali, sotto le frustate di irritanti ragazzini, procedono affondando nella melma, con l’acqua che mano a mano sale a lambir loro il muso. Sono così dispiaciuta per loro che andrei a piedi… se non fosse per il colore poco invitante dell’acqua. Ma del resto, temo che questa sia la vita che gli è toccata in sorte: tutte le imbarcazioni che non attraccano in porto sono infatti qui, in questa ampia rada, e le operazioni di sbarco vengono svolte in questo modo bizzarro: con un paio di turni, noi e i bagagli ci ritroviamo sul piccolo molo dell’ufficio del Safari Vezo di Tuléar, dove ci attende il taxi che abbiamo prenotato per l’aeroporto. Della città non vediamo nulla se non che è una vera città: la prima, dal nostro arrivo in Madagascar. Ampi viali pressoché asfaltati a due carreggiate, vari edifici, una rotonda, un ampio mercato che non sembra un accampamento di profughi come quello di Fort Dauphin. Malgrado la vettura antidiluviana mal conservata che non supera i 30 km orari di velocità, arriviamo in aeroporto con un anticipo tale da concederci il piacere di una baguette al formaggio prima dell’imbarco, che avviene addirittura prima dell’orario stabilito.

Il volo è tranquillo, comodo e rapido con splendida vista sulla costa a nord di Tuléar e l’arido interno interamente disboscato in cui spicca isolato qua e là qualche baobab solitario. Non posso lamentarmi di Air Madagascar, se non per il pressappochismo degli orari. Ben diversa è la questione riconsegna bagagli: pur non trattandosi di un affare complesso come a Fort Dauphin, anche qui a Morondava non si scherza in fatto di tempi di attesa, soprattutto quando uno dei tuoi bagagli è esattamente l’ultimo ad essere riconsegnato. E finalmente possiamo raggiungere i due ragazzi con il cartello che reca il nostro nome, evidentemente mandati dalla agenzia di Tana.

Prima di farci portare a cercare un hotel, chiediamo di andare in un ufficio di cambio, che risulta inesistente a Morondava. Ci trovano però un bottegaio arabo interessato a mettere via un gruzzolo in euro a spese dei turisti, applicando tassi da strozzino: rifiutiamo e confidiamo in un cambio più equo, l’indomani, prima della partenza, in una banca.

Dovendoci passare una sola notte, accettiamo il  primo hotel che ci viene proposto, il Renala, a 84.000 Ar (40 euro circa) per il solo pernottamento in una camera per tre: si tratta di uno degli hotel migliori di Morondava, costituito da grandi bungalow in legno con ogni comfort, che hanno però visto tempi migliori,  collocati in un giardinetto curato, con alti palmizi, fronte spiaggia.

Il tipo di bungalow, la strada sabbiosa e qualche baretto intravisto lungo la strada mi ricordano molto la Ko Samui di qualche anno fa, come tipo di strutture e anche come clientela: oltre a qualche famiglia di orientali, tanti uomini soli o accompagnanti da giovani ragazze locali. Sapevo che il Madagascar è da anni meta del turismo sessuale ma nelle zone frequentate fino ad ora non avevo mai potuto toccare con mano il fenomeno.

Cena veloce e a nanna, che domani ci aspetta una giornata intera di viaggio.

 

21/08/2007

La giornata inizia con un cambio di programma. Mentre facciamo colazione veniamo infatti raggiunti da un giovane e garbato malgascio, Sergio Rajaobelina (sergio_rajaobelina@voila.fr), che ci informa che il nostro fuoristrada si è rotto e che perciò l’agenzia di Tana ci ha “subaffittati” alla sua agenzia. Scambio di telefonate con Tana e presentazione del nuovo autista che ci accompagnerà in questa nuova avventura - tra l’altro, con nostra somma soddisfazione, visto che i due giovani accompagnatori di ieri non ci erano piaciuti affatto.

Vin, - così lo chiamiamo noi perché il suo nome è impronunciabile e per la somiglianza con l’attore Vin Diesel - è serio, molto professionale, guida bene e conosce la regione alla perfezione: sotto le sue direttive facciamo la spesa e ci prepariamo per il viaggio. Sergio invece si offre di cambiarci gli euro allo stesso tasso della banca, quando allo sportello troviamo una coda interminabile che ci farebbe perdere almeno un’ora sulla tabella di marcia. Insomma, siamo molto soddisfatti di questo cambiamento di programma quando finalmente, dopo vari preparativi, partiamo.

La strada è per un tratto la solita tipica strada asfaltata malgascia: enormi crateri con qualche avanzo di asfalto che non ha mai conosciuto neanche un tentativo di manutenzione. Fortunatamente lasciamo presto il tormento di questo genere di strada per la nostra solita pista, sabbiosa, rossa, piena di continui saliscendi che Vin sa affrontare con i dovuti modi. La campagna nei dintorni di Morondava è spettacolare: la pista rossa si insinua in ampie distese verdi intervallate da piccoli canali d’acqua, dove la gente fa il bucato e si  lava. Uomini e zebù sono impegnati in varie attività in grandi risaie verdeggianti. A tratti i canali danno vita a contenute distese d’acqua e laghetti pieni di vegetazione verdeggiante in cui si specchiano i primi maestosi, sorprendenti, affascinanti baobab. Finalmente il Madagascar che mi immaginavo.

Superiamo il famoso Viale dei Baobab, dove vengono scattate il 90% delle foto dei tramonti malgasci - che programmiamo di visitare e ovviamente fotografare accuratamente al ritorno - per impegnarci nella lunga strada verso il Parco Nazionale degli Tsingy dove contiamo di arrivare in serata.

La strada diventa sempre più accidentata ma nell’insieme è scorrevole. La vegetazione si assiepa fitta ai bordi della pista, mentre superiamo il Parco di Kirindy, che per mancanza di tempo non visiteremo. Unico intoppo risultano essere due fuoristrada, targati Italia, i cui autisti non hanno ovviamente la maestria di Vin nell’affrontare il percorso.  Quando questi raggiungono il gruppone di moto in sosta sotto un enorme albero, è la nostra salvezza poterli superare visto che averli davanti alla chiatta che di lì a poco raggiungiamo per l’attraversamento del fiume Tsiribihina, avrebbe significato almeno un paio d’ore di ritardo sul viaggio.

E così, raggiungiamo il famoso fiume che tanti turisti discendono in piroga per tre/quattro giorni a partire da Miandrivazo e già immaginiamo altri futuri viaggi per poter approfondire la conoscenza del Madagascar. Attendendo la chiatta, ci rendiamo conto di quanto sia cambiata la temperatura rispetto al sud a cui eravamo abituati. In particolare il sole picchia in maniera ben diversa e cerchi una piccola zona d’ombra per sottrarti ai raggi implacabili. L’attesa dura circa 30 minuti, tempo che dedichiamo a cercare di capire come farà la vettura a scendere quei 5 metri di sponda che servono per raggiungere il livello dell’acqua. Nel frattempo veniamo raggiunti dal gruppo di motociclisti, che risultano appartenere all’organizzazione Avventure nel Mondo: anche loro, con le loro moto, si interrogano sulla fattibilità dell’impresa e, visto il loro numero, portano scompiglio al piccolo approdo, alle bancarelle di ristoro, tra la popolazione locale, che arriva, non si sa da dove, numerosa, ad assistere all’insolito spettacolo di una trentina di moto che devono imbarcarsi.

Finalmente la chiatta approda, scarica i passeggeri e le vetture per mezzo di solide scalette di ferro su cui le auto si avventurano con precisione per poi arrampicarsi sulla ripa scoscesa. Tocca poi a noi scendere: un fuoristrada che ci precedeva, poi i nostro, poi noi passeggeri a piedi e infine le moto: il primo, il solito esibizionista di ogni gruppo, scende a cavallo della propria moto, in velocità, e solo un violento scatto di reni gli permette di rimettersi in asse con la passerella giusto un istante prima che si schianti contro il bordo. A quel punto il capo gruppo intima agli altri di non osare seguire l’esempio del primo e la decina di moto che si imbarcano con noi vengono solidamente portate a mano, una per una: un’operazione lunga che ci fa perdere un sacco di tempo. In effetti nella mia esperienza di viaggiatrice indipendente, l’incontro con un gruppo di Avventure nel Mondo è sempre una scocciatura e questo incontro in particolare, visto il numero dei partecipanti e la complessità dell’operazione, ne è proprio un esempio limite.

Finalmente partiamo: sotto il sole dell’una, senza possibilità di godere di un filo d’ombra, discendiamo il fiume per circa 20 minuti e raggiungiamo Belo-sur-Tsiribihina, la cittadina sull’altro lato del fiume. Qui lo sbarco è più semplice, sia per i mezzi che per le persone, visto che la sponda del fiume è più bassa, e in un batter d’occhio siamo in centro al paese a concederci un sandwich e un paio di coke nel ristorante consigliato da Vin, il Mad Zebu. Vediamo sfilare piattini veramente invitanti per altri avventori ma noi ci accontentiamo di un panino, sia perché siamo consapevoli del ritardo accumulato, sia per non gravare lo stomaco di eccessivi pesi in prospettiva di altre ore impegnative di “giostra” sul fuoristrada. E così è: la strada gradualmente peggiora e per più di quattro ore subiamo un continuo saliscendi di buche. Il paesaggio diventa sempre più desolante: spariscono i baobab e resta solo sterpaglia, campi bruciati e enormi termitai. L’unica sosta è per regalare una bottiglia d’acqua a un paio di turiste che sono rimaste ferme col fuoristrada in mezzo al nulla: Vin le rassicura che appena l’altro fuoristrada che viaggiava con loro raggiungerà Belo, verrà organizzata una vettura di soccorso per venirle a prendere. A quanto pare l’autista del fuoristrada fa parte della stessa organizzazione di Vin.

Il viaggio sembra interminabile: scrutiamo la strada in attesa di vedere qualche segno della prossimità del parco ma si fa l’ora del tramonto senza aver visto altro che qualche villaggio e qualche camminatore solitario. Prima del buio, l’unica visione di vita che ho è di campi verdeggianti in distanza, un lago azzurro e gente che rientra dal lavoro. Dopo di che, il buio più fitto ci accompagna fino a una serie di fuochi e qualche luce velata: Vin ci annuncia che finalmente siamo al fiume Manambolo. In effetti avevo dimenticato che c’era un altro fiume da superare! La chiatta giace però senza vita sull’altra sponda e nessuno risponde ai nostri richiami. Sinceramente comincio a disperare di raggiungere un letto, e mi vedo a passare la notte su questa riva di fiume, infestata da tutte le zanzare che non ho visto nel corso dell’intero viaggio.

 

Vin però non è del mio stesso avviso, fortunatamente: si fa traghettare in canoa e presumibilmente va a tirare giù dal letto gli addetti alla chiatta. Veder comparire Vin sull’imbarcazione nel buio della notte è una di quelle immagini che si fissano indelebili sulla retina e il sollievo è tanto. Nel giro di mezz’ora, abbiamo già collocato i nostri bagagli in due bei bungalow nuovi di zecca al Orchidée Bemaraha, un resort in fase di ultimazione (25 euro al giorno a bungalow - piuttosto caro, in effetti, ma non siamo nella situazione ideale per contrattare o fare i difficili), e siamo pronti per andare a cena.  Vin ci porta nel vicino paese di Bekopaka dove ceniamo ottimamente nel ristorante di un algerino, La Terrasse,  a base di piatti fusion francesi, malgasci e maghrebini.

 

22/08/2007

Quando alle 6,30 lasciamo il nostro comodissimo letto a baldacchino, l’aria è frizzante e la campagna circostante è ancora avvolta in una suggestiva nebbia. Il sole filtra solo a tratti illuminando il paesaggio e rivelando la sua magia: laghi, rilievi, immense coltivazioni. Uno spettacolo. Per permetterci di godere appieno di questa unica giornata al Parco, ci presentiamo per primi all’ufficio Angap per pagare gli ingressi (25.000Ar a persona), ottenere le autorizzazioni e per prendere a bordo la guida (30.000Ar a gruppo), un giovane e competente ranger che ci accompagna a visitare il Grande Tsingy. La visita è infatti organizzata per circuiti: si scelgono i circuiti che interessano, si paga e si inizia. Non ho mai avuto la sensazione di essere in pericolo ma la vicinanza di Jacques è stata indispensabile per certi passaggi… “aerei”, oltre che preziosa per ricchezza di informazioni. Sosta a recuperare le imbracature necessarie per la salita allo Tsingy e poi Vin ci accompagna al punto di partenza del circuito che si trova a 20 km di distanza dall’ufficio delle guardie. In effetti, siamo così vicini a questo famoso Tsingy ma noi non lo abbiamo ancora visto!

La prima sosta è alla toilette, cioè un buco nel terreno di cui è seriamente consigliato  fare uso, visto che poi l’espletare le funzioni corporali è fady, cioè vietato dalla tradizione. Lo Tsingy è giustamente un luogo sacro.

Poi ci si inerpica su una collina per raggiungere un pianoro da cui si ha una prima vista minima delle gugliette dello Tsingy, e anche in distanza, oserei dire. Intanto il caldo comincia già a farsi sentire e aumenta nettamente quando si scende lungo il sentiero che si insinua nella folta vegetazione. La guida ci illustra la vita delle piante, ci mostra qualche uccellino microscopico, ci indica qualche farfalla, fino a che non passiamo sotto a un paio di lemuri che dalla cima di un albero, ci osservano coi loro occhioni incuriositi.

Continua la marcia fino a quando comincia la roccia: un vero muro di pietra su cui si arrampicano piante e rampicanti. La luce diminuisce notevolmente, la gola si stringe visibilmente ed ecco: ci siamo. Nel muro si apre un basso passaggio al di là del quale inizia l’arrampicata. Muniti delle nostre imbracature, ci tuteliamo infilando i moschettoni nelle funi d’acciaio di sicurezza, e cominciamo a salire: gradoni scavati nella roccia e altri punti di appoggio ben segnalati permettono facilmente l’ascesa di questa alta parete che ci porta immediatamente nel cuore dello Tsingy: si tratta di una formazione calcarea a guglie che si estendono su centinai di metri quadrati di superficie e che arrivano a diverse centinai di metri di altezza. A me immediatamente ricordano i giochi di bambina sulla spiaggia quando facevo colare dalla mano chiusa a pugno sabbia mista ad acqua, per creare le più fantasiose costruzioni e i pinnacoli più arditi. L’unica differenza è che questi sono taglienti come rasoi, appuntiti come lame, scolpiti in questa foggia da vento e acqua; se colpiti, emettono un suono metallico e risuonano come gigantesche casse di risonanza: uno spettacolo per cui non ci sono parole adeguate.  

Sotto l’occhio vigile di Jacques, raggiungiamo il primo belvedere: una scala a pioli ci permette di issarci su una piattaforma in legno che consente una vista a 360° sul panorama. Siamo circondati da una corona di Tsingy. Oltre alla struttura verticale, rimaniamo incantanti di fronte a enormi massi “appoggiati” in pauroso bilico, a creare una sorta di andamento orizzontale, qui in quota, come se strutture ancora più alte si fossero disgregate fino a far reclinare una parte di sé sulle cime di piani sottostanti: uno spettacolo oltremodo insolito. Continuiamo la nostra passeggiata, tra canaloni appena sotto le vette, per raggiungere il crinale successivo: qua e là, piccole zone di vegetazione, piante secche, sterpi, un piccolo cactus fiorito, manciate di conchiglie testimoni dell’epoca in cui qui c’era un mare. E infine, dietro a un muro in cui si apre una finestra frastagliata, ecco il ponte di corda, che collega questa zona con il crinale vicino: lungo una decina di metri, a cui fa seguito un secondo ponticello di un paio di metri, al nostro passaggio ci cullano su un profondo baratro pieno di punte e di vegetazione. Assolutamente sconsigliato a chi teme l’altezza e a chi soffre di vertigini. Jacques ci racconta che non è infrequente che alcune persone non riescano a superare il ponte e sia costretto a fermare il gruppo per riportare indietro una persona e poi tornare a prendere gli altri.

Approdiamo quindi a un secondo belvedere: qui mi concentro ad osservare come le piante siano riuscite ad attecchire in un ambiente così ostile. Da ogni crepaccio, in ogni pertugio, una pianta occhieggia sul panorama circostante. Ci viene lasciato tutto il tempo che desideriamo per goderci la vista, Siamo in pochi, questa mattina, sul Grande Tsingy, probabilmente perché al centro guide cercano di ripartire equamente la gente sui vari circuiti: c’è infatti un altro Grande Tsingy che si può percorrere e Jacques ce lo mostra da lontano.

Inizia la discesa: in una stretta gola, scendiamo lungo una serie di successive brevi scale a pioli che ci portano fino alla base dello Tsingy: qui, un po’ abbassandoci, un po’ strisciando a carponi, passiamo in un altro settore, dove Jacques ci invita a sederci e a guardare verso l’alto. Siamo nella “Cattedrale”, un ambiente che richiama le alte chiese gotiche europee: i lati della gola salgono stretti leggermente obliqui per almeno cento metri a simulare l’interno di una chiesa, fino a raggiungere uno spicchio di cielo azzurro. Anche l’atmosfera richiama una sorta di sacralità, di uno stupefatto raccoglimento di fronte ai miracoli della  natura. Qui veniamo brevemente intrattenuti con la storia del parco, sugli studi che sono stati fatti e sui risultati emersi, in particolare relativi alle antiche popolazioni che qui abitavano: ci viene raccontato che tsingy è una parola che richiama il modo di camminare in punta di piedi da una roccia a un’altra delle popolazioni vazimba che anticamente si stabilirono qui e di cui si trovano ancora alcune tracce.  

215  Tsingy di Bemaraha - la discesa.JPG (139999 byte)    208  Tsingy di Bemaraha - due passi sul ponte.JPG (105273 byte)    198  inizia l'arrampicata del Grande Tsingy.JPG (120994 byte)

Sinceramente mi dispiace lasciare questo posto: Jacques, lungo la strada del ritorno riesce a trovare una folta famiglia di lemuri sifaka selvatici da mostrarci, oltre ad altri animaletti vari, dimostrando non solo di conoscere bene la zona, ma di avere anche una gran vista.

Vin ci attende all’ombra con il nostro fuoristrada e la nostra riserva d’acqua, particolarmente preziosa dopo la camminata al sole, e ripartiamo subito per Bekopaka. Purtroppo alla Terrasse non servono il pranzo e ci accontentiamo di mangiare qualcosa in uno dei tanti ristorantini sul fiume. E’ già l’una.

Verso le due ci ripresentiamo all’ingresso del parco ad acquistare l’escursione al Piccolo Tsingy: questo si trova proprio alle spalle della biglietteria.

Dopo avere visitato il Grande Tsingy, qui sembra di essere a una riduzione in scala da parco giochi: le pareti non sono alte centinaia di metri ma solo 3/4 metri al suo massimo, eppure anche questo tour ci riserva delle soddisfazioni: ancora prima di entrare, incontriamo un nuovo folto gruppo di lemuri con tanto di cuccioli, che vegliano sull’ingresso, godendosi le poche brezze del fiume Menambolo che scorre lì accanto. Poi ci “infiliamo” nel labirinto che costituisce il circuito, passando per finestre naturali, strisciando tra pareti strettissime, salendo scalette a pioli che permettono una visione aerea; riscendiamo in mezzo alla vegetazione, dove Jacques ci mostra un piccolo lemure notturno, accecato dalla luce diurna, e una piccola civetta. Ci infiliamo nuovamente nel dedalo per raggiungere una nuova piattaforma panoramica, da dove vediamo anche dei cocci di vasi vazimba: insomma, uno tsingy simile ma completamente differente, degno anche lui di essere visitato. Il circuito si completa passando per una zona di campagna e una camminata  agreste tra campi, zebù e i bambini che li accompagnano al pascolo.

Non sazi di quanto visto oggi, chiediamo a Jacques se possiamo fare una passeggiata notturna per andare alla ricerca del famoso microcebus: appuntamento alle 18,30, quindi. Qualcosa mi dice che con lui come guida, questa volta qualcosa vedremo.

Ci ritiriamo in hotel per un breve relax: con nostro totale disappunto scopriamo che il nostro resort semidisabitato è diventato base d’appoggio per il gruppo di Avventure, nel frattempo giunto a destinazione. Uno di loro è caduto e hanno avuto un ritardo.  Convinciamo il ragazzo dell’hotel che per 25 euro dobbiamo anche godere dei benefici di una doccia calda e visto che la caldaia ancora non funziona, lo costringiamo a consegnarci a domicilio tre bei secchi di acqua bollente. Direi che è un’esperienza necessaria e più che meritata.

Dopo un paio d’ore siamo di nuovo in pista, armati di litri di autan, Jacques ci fa appostare in un boschetto a qualche minuto di marcia dall’hotel. Il buio sta calando e lui ci intima di stare immobili e in silenzio. Dopo neanche un paio di minuti, eccoli: non uno ma alcune creaturine cominciano a correre sui rami sopra la nostra testa. Intuiamo che vicino a noi, un microcebo sta esplorando un frutto: Jacques lo colpisce con la sua torcia e finalmente riusciamo a vederlo. Più simile a un topo dalle grandi orecchie che a un lemure, rimane bloccato per qualche istante nel fascio di luce e poi fugge. Dopo poco ne arriva un altro: scatto una foto e poi li lasciamo tranquilli alle loro perlustrazioni. Jacques ci spiega che per caso un suo collega ha scoperto che tutte le sere, al tramonto, c’è questo rapido passaggio di vari esemplari e così la curiosità dei turisti è sicuramente soddisfatta. Ci porta poi in un boschetto a qualche centinaio di metri di distanza, alla ricerca di camaleonti: anche qui il suo occhio infallibile non ci tradisce. Ne troviamo infatti vari esemplari, del tipo bianco, grande fino a 40 cm e verde, molto più piccolo che sembra appena uscito dal set dello spot dei sofficini. La loro immobilità in attesa del passaggio di una preda mi permette anche di scattare qualche foto soddisfacente.

Raggiungiamo Vin all’hotel e salutiamo Jacques, molto soddisfatti dei suoi servizi odierni dopodiché ci facciamo portare alla Terrasse dove risulta evidente da subito che questa sera non sarà facile come ieri cenare. Il parcheggio è pieno, i tavoli stracolmi, e mi riconfermo ancora una volta nell’idea che incrociare i gruppi di Avventure nel Mondo sia una disgrazia. Anche attendendo, il ristorante non ha scorte sufficienti per assicurarci una cena e ci tocca pertanto andare alla ricerca di un’alternativa. Dopo vario girovagare, arriviamo al ristorante in cui avevamo pranzato, dove ci avvertono che comunque hanno poco cibo e che ci dobbiamo accontentare di quello che c’è. Dopo una cena tra lo scarso e il pessimo, ce ne torniamo in hotel sperando che i compagni di resort almeno non facciano rumore rientrando.    

23/08/2007

Altra partenza antelucana, nella speranza di essere i primi alla chiatta. Purtroppo arriviamo terzi e abbiamo così tutto il tempo di goderci vari scorci di vita del fiume: scene da trasbordo di taxi-brousse stracarichi; toilette quotidiana, incluso lavaggio dei denti, da parte di parecchie persone; rientro dall’escursione sul fiume di vari turisti, mentre la foschia lentamente si dirada e lascia spazio a belle vedute; ma sicuramente lo spettacolo che più ci colpisce è la discesa al fiume di varie ragazze cariche di pentole che vengono diligentemente lavate nell’acqua non certo limpida e sfregate con la sola sabbia del fondale. Varie anatre e oche si avvicinano a spartirsi gli scarsi avanzi che galleggiano a seguito delle operazioni di pulitura. Ovviamente la nostra mente va ai pasti di ieri, consumati nel ristorante a poche decine di metri di distanza e con un certo ritardo, incrociamo le dita.

Finalmente è il nostro turno e ci distogliamo volentieri dal pensiero di quali condizioni igieniche abbiano accompagnato la preparazione dei nostri pasti: sarà suggestione ma più tardi, ci confessiamo vicendevolmente che oggi abbiamo la nausea. Ore e ore di macchina, sobbalzi e caldo non aiutano. Ci fermiamo soltanto per trainare fino a Belo il fuoristrada trovato in panne all’andata. L’autista è febbricitante ma nessuno ha potuto dargli alcun medicinale, vista la scarsità di zone abitate nei dintorni. Ci ringrazia molto per il blister di aspirina che scovo nel mio zaino. Malgrado il peso che ci portiamo dietro, che limita notevolmente la nostra velocità di crociera, arriviamo in paese in tempo per la  solita sosta al Mad Zebù: più nella speranza di calmare la nausea con un piatto di origine comprovata che per effettiva fame. Prendiamo al volo la prima chiatta disponibile e risaliamo il fiume per mezz’ora: questa volta il tragitto sembra interminabile. Ed in uno stato di torpore e intontimento arriviamo alla zona dei baobab: Vin si ferma per farci visitare i vari siti: il Baobab Sacré, il Baobab innamorato (un singolo baobab che si biforca in due tronchi che salgono al cielo attorcigliati in un abbraccio) e il Viale dei Baobab, che percorriamo a piedi. Sono le 17 circa e manca ancora del tempo al tramonto: fotografiamo questi magnifici esemplari da tutte le possibili prospettive, assistendo inoltre allo spettacolo messo in piedi da venditori e turisti in arrivo per ammirare il tramonto. Ma poi non ce la facciamo più: il malessere e la stanchezza hanno il sopravvento e chiediamo a Vin di portarci a Morondava dove speriamo che Sergio ci abbia prenotato una stanza nell’hotel migliore della città, il Baobab Cafè. Speranza vana: all’arrivo a Morondava, ci fermiamo a raccoglierlo e ci informa che purtroppo l’hotel è al completo, Proviamo al Renala, ma la camera è disponibile solo per questa sera, mentre noi abbiamo bisogno di passare qui due notti. Dopo qualche telefonata, ci accontentiamo del Philaos, sempre sulla spiaggia, anche se la camera risulta far parte di una zona vecchia dell’hotel, quindi vecchia e fatiscente. Non importa, comunque: io mi sento ormai veramente male perciò accettiamo la stanza e crollo sul letto da cui non mi muoverò neanche per andare in bagno per almeno 7 ore.

Mentre cerco di riprendermi nella stamberga, Ivo e Tiziana, che invece stanno meglio, vanno a cena nel prospiciente Baobab Cafè e rientrano con la bella notizia di aver trovato una camera per il giorno successivo. Sarà per via di questa idea consolatoria ma comincio a sentirmi meglio.  

 

24/08/2007

Sono passate da poco le sette quando sbaracchiamo dal Philaos e ci presentiamo al Baobab per fare colazione. La nostra camera non è ancora disponibile ma ne approfittiamo per mangiare con calma e per uscire, prima che faccia troppo caldo, per scoprire se è possibile fare un po’ di shopping a Morondava. Purtroppo c’è veramente poco: i rari negozi per turisti sono zeppi soltanto di magliette di cui ormai abbiamo già fatto il pieno nel corso del viaggio perciò ce ne torniamo sconsolate in hotel facendo giusto una breve visita al caratteristico mercato della città.  

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Inizia così la nostra ultima fase relax: decidiamo infatti di evitare le varie gite ed escursioni offerte dall’hotel per dedicarci esclusivamente al riposo. Il Baobab Cafè è una bella costruzione con ristorante su palafitta sul fiume che dà l’accesso al porto di Morondava. Di fianco al ristorante, di fronte alla nostra camera, c’è una piscinetta con qualche sdraio dove ci accampiamo per il resto della giornata, mangiando qualche manicaretto dell’ottimo ristorante, bevendo succo di mandarino, prendendo il sole e rinfrescandoci all’occorrenza. Non ci disturbano neanche le esalazioni poco piacevoli che a tratti provengono dal fiume che con la bassa marea è in secca. Serviti e riveriti, recuperiamo le forze e ci rilassiamo per tutta la giornata, salvo per la nota dolente dell’arrivo del solito gruppo di Avventure nel Mondo, con alcuni membri che fanno tappa proprio nel nostro hotel. Ci organizziamo per mangiare e ritirarci presto, per evitare ulteriori disguidi a causa loro, anche se attualmente sono un po’ allo sbando in quanto un partecipante si è rotto una spalla e stanno organizzando il suo rientro in Italia.

Aria condizionata e un letto comodo: come finir meglio un viaggio splendido?

 

25/08/07

Mattinata all’insegna del riposo in piscina: il volo sarà nel tardo pomeriggio perciò sfruttiamo l’hotel fino all’ultimo momento. Personale gentile, reception organizzata, buona struttura: questo hotel lo consiglio sicuramente.  

Ci procurano anche il taxi per raggiungere l’aeroporto in tempo per il nostro volo Morondava-Antananarivo dove ci aspetta in coincidenza il volo Tana-Mauritius da dove l’indomani mattina partiremo per Milano.

Si conclude così un viaggio splendido, all’insegna di panorami incredibili, persone gentili e simpatiche, una natura generosa, buona cucina, facilità nell’organizzazione. Ma soprattutto rimarrà in noi indelebile il ricordo delle simpatiche creature che ci hanno accompagnato in ogni tappa, che ci hanno letteralmente incantato a Ambola  e i cui musetti simpatici sono impressi in decine di foto oltre che nei nostri cuori: i nostri nuovi amici, i lemuri.

 

Bea

bebatrix67@yahoo.it   

 

 

 

 

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