100 Giorni d'Africa

Racconto di viaggio 2010

di Gianluca Bisbinto

 

 

 

 

Parte 1, Buongiorno Africa

 

Erano anni che volevo fare un viaggio nel continente nero e finalmente e’ arrivato il momento giusto, un click sul tasto sinistro del mouse ed il biglietto aereo e’ acquistato: saranno 100 giorni giusti giusti e pieni pieni d’Africa, quella vera; e con me ci sara’ anche Alba che ha avuto la pazza idea di seguirmi per l’intero viaggio (ammesso e concesso che resistera’).

Fatti un po’ di vaccini prima della partenza e messo nello zaino tutto cio’ che c’e’ di piu’ vecchio nel mio guardaroba, non ho neanche il tempo di rendermene conto che, dopo uno scalo a El Cairo, atterriamo a Johannesburg. Non appena l’aereo tocca il suolo un passeggero di ritorno a casa, seduto sul sedile accanto, mi dira’: benvenuto in Sud Africa, qui i leoni mangiano gli umani. SPETTACOLO!!! Gia’ mi sento l’adrenalina addosso.

C’è subito un problema d’affrontare, il visto: con il passaporto italiano ci danno 3 mesi, ma noi ripartiremo con qualche giorno in piu’ sulle spalle; l’ambasciata a Roma mi aveva consigliato di chiamare l’ufficio degli Affari Interni non appena sarei atterrato e richiedere un prolungamento del visto al costo di un centinaio di dollari; al nostro arrivo anche il poliziotto in dogana mi ha subito consigliato la stessa cosa. Ma io non sono proprio convinto e decido di aspettare: abbiamo intenzione di uscire dal Sudafrica tra pochi giorni e non rientrare prima di Dicembre, mi pare un po’ superfluo regalare sti soldi al governo sudafricano già da subito, mi prendero’ qualche giorno in piu’ per informarmi meglio su come funzioni veramente la faccenda.

Prima ancora di atterrare si ponevano già i primi dubbi: inizieremo il viaggio verso est oppure verso ovest? L’idea di base e’ quella di fare un cerchio nella parte meridionale dell’Africa e alla fine si deciderà di cominciare verso oriente: mi sembra la decisione piu’ saggia visto che tra un mesotto le piogge arriveranno prima e più forti ad est (e con esse anche il caldo umido e la malaria), quindi proveremo ad anticiparle e man mano che proseguiremo verso ovest tenere le nuvole alle spalle il piu’ possibile.

Il secondo dubbio e’ stato: Kruger si o Kruger no? Troppo commerciale o e’ comunque un bel parco? La risposta e’ stata Kruger si: se il parco e’ cosi’ famoso ci sara’ pure un motivo, lo prenderemo come un buon antipasto per i safari che faremo piu’ avanti quando ci addentreremo nell’Africa più profonda.

La prima sfiga non si fara’ attendere molto: al carrello dei bagagli manca lo zaino di Alba, la quale va subito in tilt; ci tocchera’ fare la denuncia di smarrimento ed attendere. Preleviamo un po’ di contanti al bancomat, ci sediamo a fare colazione e proviamo a respirare un po’ prima di lasciare l’aeroporto.

Il taxi pare sia l’unico mezzo per raggiungere la città di Johannesburg (o almeno cosi’ ci fanno credere) e non e’ proprio a buon mercato; optiamo quindi per l’affitto di un’auto economica che possiamo lasciare dopo qualche giorno direttamente a Nelspruit, città non troppo lontana dal Kruger Park; perciò decidiamo di partire direttamente in quella direzione, semmai avremo del tempo, Johannesburg la visiteremo alla fine del viaggio, prima del volo di ritorno, tanto non e’ proprio in cima alla lista dei luoghi che intendiamo vedere in Africa.

Pronti, partenza, via! Si parte. Volante sulla mano destra e cambio sulla sinistra, era da qualche anno che non guidavo al contrario, proprio come in Inghilterra, ma ci mettero’ poco a riabituarmi. Abbiamo un po’ di paranoia iniziale per quanto riguarda la sicurezza, visto che Jo’burg pare essere una citta’ veramente pericolosa. Finestrini alzati e sicure abbassate, specie ai semafori, in pochi minuti siamo già sull’autostrada e fa molto caldo (ed io che pensavo che da queste parti a Settembre facesse freddino!!!). A parte il paesaggio arido e poco abitato, il tutto sembra organizzato come in Occidente: strade perfette, poliziotti che rilevano la velocita’ con l’autovelox e zone di sosta tipo Stati Uniti, con ristorante, supermercato e bagni pulitissimi. Percorriamo circa 350 chilometri ed intravediamo uno stadio utilizzato nei mondiali di calcio appena terminati; e’ proprio quello dove ha giocato l’Italia!!! Siamo a Nelspruit, chiediamo qualche informazione per orientarci, poi parcheggio un attimo per vedere meglio la cartina ed ecco arrivare la seconda sfiga del primo giorno di viaggio: crash, urto la macchina parcheggiata davanti alla mia con tanto di famiglia sudafricana all’interno dell’auto. La stanchezza si comincia ad avvertire, non abbiamo riposato tanto durante il volo, ma il danno non sembra un granche’, solo un piccolo graffio. Scambio veloce di nominativo, prendiamo i dati per l’assicurazione e via, dritti verso l’ufficio del turismo che sta per chiudere: prendiamo un po’  di depliants, chiediamo dove possiamo dormire per la notte ed il modo migliore per visitare il Kruger Park, ma le informazioni che ci danno sembrano molto devianti, “gli alberghi sono quasi tutti pieni, ma ce n’e’ uno vuoto che vi consigliamo, al parco e’ meglio prenotare subito pagando qualcosina extra in quanto e’ pieno” eccetera eccetera. Non mi fido: ci dirigiamo verso un’ostello consigliato sulla mia guida che la signorina mi aveva dato per tutto esaurito ed ecco trovare un dormitorio da 10 letti tutto per noi (in nottata si aggiungera’ solo un’altra coppia) ed altre stanze completamente vuote. Abbiamo capito che non bisogna fidarsi dell’ufficio informazioni turistiche.

Ci sistemiamo, il posto sembra ben tenuto e pulito, incontriamo i primi viaggiatori ed intanto la manager dell’ostello, dopo aver provato a vendermi un safari nel Kruger Park, mi rassicura un po’ per quanto riguarda il nostro visto di soli 3 mesi sul passaporto; pare ci sia molta gente che esce e rientra in Sudafrica dopo qualche giorno con il semplice scopo di rinnovare il visto turistico, quindi mi consiglia di non chiamare nessun ufficio o ministero e risparmiare i nostri dollari in quanto lei pensa che uscendo dal paese non avremo alcun problema di scadenza. La prendo per buona, archivio la pratica e non ci penso piu’.

In serata ci rechiamo in citta’ per cercare qualcosa da mangiare e finiamo in un festival musicale abbastanza grande e strapieno di gente: sono tutti bianchi, palchi per concerti grandi e ben organizzati, la musica sembra tedesca e si mangiano salsiccie a volonta’; ed io mi chiedo come sia possibile non vedere una persona di colore in mezzo a questa confusione. Saremo mica in Nord Europa? Dopo qualche giorno iniziero’ a capire come, nonostante l’apartheid sia finita piu’ di 15 anni fa, da queste parti i bianchi se ne stanno con i bianchi ed i neri con i neri, l’integrazione tra le diverse razze in Sudafrica e’ ancora un obiettivo lontanissimo da raggiungere; il festival era una festa afrikaans e percio’ bianchi e salsiccie a volonta’. Andiamo a nanna stanchi, per essere solo il primo giorno in Africa mi sembra che abbiamo dato abbastanza.

Ogni viaggio e’ diverso dall’altro, ma questo si presenta già come un’avventura a parte, piu’ estrema e piu’ complicata (oltre che piu’ cara! Eh gia’... la beffa e’ che proprio l’Africa pare non sia il posto piu’ economico al mondo in cui viaggiare). Non c’e’ stato molto tempo per documentarmi, ma mi sono affidato ad un po’ di esperienza, oltre che ad una guida (eh si... per il secondo anno di seguito viaggio con una guida nello zaino, stiamo proprio diventando vecchi), questa volta ho scelto la onnipresente Lonely Planet.

 

Mattina seguente, sveglia, colazione e si riparte: Nelspruit sembra quasi una cittadina americana, ben organizzata e strade sicuramente migliori di quelle delle citta’ italiane. Sosta al centro commerciale per qualche acquisto utile, visto che dello zaino di Alba difficilmente si avra’ notizia prima di qualche giorno, e si va in direzione Kruger. Arrivati ad un cancello di entrata ci fanno aspettare almeno un’ora, il parco e’ troppo pieno, siamo nel bel mezzo delle vacanze scolastiche sudafricane, che qui e’ come il mese di Agosto da noi; forse l’ufficio informazioni del giorno prima aveva detto qualche verita’ e probabilmente saremo costretti a lasciare il parco in giornata in quanto non ci sono posti disponibili per dormire.

Ma eccoci tra le strade del parco, vediamo i primi animali, cerchiamo le pozze d’acqua per avere piu’ possibilita’ di avvistamento, viste panoramiche, paesaggi aridi ed arriva subito il primo pomeriggio: dopo vari tentativi in un paio di reception dei vari camp pare proprio che non ci siano cancellazioni e quindi niente posto per restare la notte a dormire; dobbiamo lasciare il parco in giornata stessa. Gioco l’ultima carta: telefono ad una guida di un safari organizzato dall’ostello di Nelspruit e alla fine riusciamo ad infilarci in una delle loro tende organizzate con 2 bei letti comodi e per 10 Euro a testa. Sarà la nostra prima notte all’interno di un parco, servizi ben puliti ed organizzati, cena a buffet al ristorante del campo e si dorme con il rumore degli animali che si sentono non troppo lontani dalla recinzione.

 

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Parte 2, Kruger Park e Maputo

 

Sveglia presto e siamo di nuovo in giro con la macchina affittata a fare un safari in completa autonomia: avvisteremo le prime giraffe, facoceri, impala, uccelli, gli elefanti e i babbuini che ci attraversano la strada, la macchina fotografica inizia a lavorare duro. Unica pecca, il Kruger è un po’ troppo affollato ed ecco in agguato la terza sfiga del viaggio: una fila di macchine nei pressi di un fiume, pare ci sia un felino, forse lo vedo anche, ci sporgiamo fuori dal finestrino per cercare di avvistarlo ed ecco arrivare il ranger che ci consegna una multa di circa 150 Euro. Bisogna stare all’interno dell’auto, e’ la regola, una questione di sicurezza. Tutto mi aspettavo, tranne che prendere una multa per cercare di avvistare un leone, mi rode un po’, il ranger mi consiglia di andare subito in reception a pagare, io gli dico che sarei andato il giorno dopo e mi chiedo cosa mai possa succedermi se non pago una multa in Sudafrica per essermi seduto fuori dal finestrino con la macchina in sosta? In serata dormiremo nella stessa tenda della notte precedente ed un avvocato incontrato per caso nel minimarket del campo mi chiarira’ le idee sulla multa che mi hanno dato qualche ora prima; si mettera’ anche a ridere ed io mi convinco che questa multa non s’a da paga’... ed eccoci entrare nel pieno dell’illegalita’: visto sul passaporto in scadenza dopo 3 mesi ed io che non pagando la multa verro’ in automatico convocato in un tribunale sudafricano alla fine di Novembre.

Per la mattina seguente acquistiamo un’escursione all’alba: camminata a piedi nel parco. Levataccia alle 5, ma sara’ interessante camminare con 2 guide armate sullo stesso terreno che calpestano i grandi animali della savana, ne avvisteremo qualcuno, ma la natura e’ completamente bruciata: la scorsa notte c’e’ stato un mega incendio che ha colpito alcune zone del parco, quindi molti animali sono scappati; pare che il Kruger sia battuto ogni tanto dai piromani e noi eravamo li’ proprio il giorno meno adatto. Continueremo la giornata in giro con la nostra auto, avvisteremo ancora animali, zebre, tartarughe eccetera, ma ancora tanti terreni bruciati e la temperatura è molto calda, quindi decidiamo di lasciare il parco. Mostreremo ad un cancello il permesso di uscita che mi ha dato la guida del camp e alla fine per qualche strana magia finiremo per aver pagato solo un giorno di permesso; abbiamo capito che da queste parti i controlli vengono fatti un po’ alla buona, noi impariamo subito.

La visita al Kruger Park e’ stato un ottimo inizio, ma era un po’ troppo affollato, sembrava quasi di essere allo zoo; strade asfaltate, vegetazione alta (quindi poca visibilita’), tutto ben segnalato da indicazioni e cartelli stradali, addirittura il primo giorno poco dopo l’ingresso avevamo visto uomini in divisa che in strada rilevavano la velocità delle auto; ne abbiamo visitato solo una piccola parte, a sud (la superficie del parco Kruger e’ grande quanto l’intero Galles), ma non mi sento ancora nella vera Africa, c’e’ voglia di cercare terre piu’ vere. Ritorniamo a Nelspruit, stesso ostello, stessa manager: le chiedo qualche consiglio rinfrescante sulla multa presa all’interno del parco e, come aveva fatto qualche giorno fa per il nostro visto in scadenza prima del necessario, lei mi tranquillizza e mi dice di non preoccuparmi, nessuno mi aspettera’ in frontiera al mio ritorno in Sudafrica a Dicembre, quella multa segue una legislazione interna del Kruger Park e non aveva niente a che vedere con il governo del Sudafrica. Naturalmente prendo per buona anche questa indicazione e ci prepariamo a lasciare il paese all’indomani. Alba stavolta si occupera’ di preparare la cena ed ecco che arriva anche il suo zaino smarrito qualche giorno prima; forse la sfiga si sta allontanando.

 

Ci siamo, e’ arrivato il momento di metterci gli zaini in spalla, la mattina seguente lascio la macchina all’aeroporto di Nelspruit e montiamo su un bus diretto a Maputo, capitale del Mozambico. E’ arrivato il momento di vivere la vera Africa. Appena arrivati in frontiera siamo subito assaliti dagli scambisti che cambiano i soldi in nero. Ne avvicino uno, contratto un po’ il tasso di cambio e con molta attenzione decido di cambiare lo stretto necessario per pagare il visto di entrata: lui conta i suoi soldi velocemente nelle sue mani e mi chiede i dollari; all’istante siamo circondati da 5 o 6 mozambicani, fanno molta confusione; chiedo a tutti di allontanarsi e resto con lo scambista scelto, lo blocco, rallento i ritmi della transazione, prendo i suoi soldi e li riconto: ovviamente c’era qualche banconota in meno, mi faccio aggiungere i metical mancanti e solo dopo aver intascato i suoi, gli consegno i miei dollari. Ma la sfiga e’ ancora presente nel nostro viaggio: scopriamo subito che i previsti 25 dollari per entrare in Mozambico si sono triplicati, recentemente il prezzo è salito a 78 verdoni grazie al turismo di massa portato dai mondiali di calcio da poco terminati, quindi i soldi che avevamo cambiato non bastano più; si puo’ pagare in dollari al cambio che dicono loro oppure cambiare ancora al mercato nero. Io opto per la seconda e per non perdere il bus che ormai aspettava solo noi, ho la felice idea di chiedere ad Alba di cercare uno scambista mentre io proseguivo con le pratiche doganali; lei che non ha mai cambiato al mercato nero si e’ fidata troppo, come se fosse in una normale banca. Morale della favola: la sfiga non ci ha ancora mollato ed alla fine ci hanno fregato una cinquantina di Euro. Bella lezione, saranno pure favorevoli i tassi di cambio in strada, ma non sai mai come ti viene; eppure è da una vita che cambio i soldi alle frontiere durante i miei viaggi. Ma l’Africa non è come gli altri posti.

Ad ogni modo ce l’abbiamo fatta, siamo entrati in Mozambico e dopo un breve tragitto eccoci a Maputo: un gran bel caos, la capitale e’ affollatissima e noi abbiamo ancora un po’ di paranoia per quanto riguarda la nostra sicurezza in Africa. Lasciamo il garage dove terminava la corsa del bus e seguendo la cartina ci avviamo a piedi verso un ostello segnalato nella guida, sempre guardandoci le spalle, a destra e a sinistra. Ma l’ostello è pieno ed alla fine troveremo una stanza in un vecchio albergo dall’arredamento antico e porte rotte al costo di 40 Euro a notte, rapporto qualità-prezzo pessimo. C’e’ un vento fortissimo fuori e la non esperienza d’Africa ci tiene un attimo sull’attenti: si sentono rumori come se fossimo in un film horror che vengono sia da fuori (causa il vento), che dall’interno dell’edificio (porte che cigolano e sbattono). Mangiamo in un ristorantino vicino e alla fine la notte passera’ tranquilla. All’Hotel-Escola Andalucia lavorano molti studenti ed a colazione abbiamo il primo incontro con cameriere pigrissime, che devono essere pregate per portarti ogni singolo piatto o pietanza. Siamo davvero al limite dell’assurdo, i messicani a confronto me li ricordo come efficientissimi, qualsiasi cosa chiediamo ci viene sempre detto che non c’è, ma alla fine con un po’ d’insistenza arrivano le portate richieste; e non stiamo parlando di grandi piatti, ma di una singola arancia oppure una fetta di pane o un tovagliolo, tra l’altro tutto incluso nel prezzo della stanza. Mi ricorda un po’ la situazione di Cuba, dove i camerieri arraffano dove possono e quindi chi lavora in cucina cerca di servire meno cibo possibile così da portarsi un po’ di mangiare a casa; è evidente che i paesi comunisti hanno anche queste cose in comune.

Facciamo il primo giro a piedi in citta’, troviamo non senza difficoltà una cassa per prelevare i contanti, spostiamo gli zaini nell’ostello che intanto si è liberato e poi di nuovo in giro tra le strade affollate di Maputo. C’e’ molto movimento, tanti venditori in strada, il 90% dei balconi hanno delle antiestetiche inferriate antifurto: il bello e’ che ce l’hanno anche gli appartamenti al decimo piano su un palazzo liscio e piatto di 20; posso immaginare che qui i ladri siano abili come l’uomo ragno.

Alla fine abbiamo trascorso 3 notti nella capitale mozambicana, passeggiando per le vie, la prima mangiata di pesce in un ristorante famoso in spiaggia a Costa do Sol, il primo viaggio in chapa (che sono gli affollatissimi minibus locali), le foto a qualche monumento, la stazione ferroviaria, i mercati, i palazzi del periodo coloniale, la visita ai musei d’arte; detto così sembra tutto molto interessante, ma se lo scopo di un viaggio da queste parti è per apprezzarne l’architettura o l’arte, non si resta molto soddisfatti: luoghi come il Museo d’Arte Nazionale si visitano in 10 minuti, il tutto si limita ad un paio di stanze con un po’ di quadri sparsi qua e là di artisti mozambicani, tra l’altro la maggior parte in vendita; e i monumenti o palazzi di spicco corrispondono ad un qualunque edificio europeo contemporaneo in quanto ad architettura. Quello che invece colpisce molto è l’arte povera e ciò che si riesce a creare con poco o niente. E per fortuna che Maputo è una delle capitali più attrattive d’Africa!!! Non oso immaginare le altre!!! Eppure ogni cosa ha il suo fascino: qui si è travolti dal caos più totale che regna in questa città, gente cha va e viene, clacson che suonano, i ragazzi dei chapa alla ricerca di clienti gridando in strada dal finestrino del bus, per le strade si vende di tutto. Gli edifici della città testimoniano un passato non troppo felice, pare che la guerra civile sia finita una settimana fa e non a metà degli anni ’90 come c’è scritto nei libri di storia.

 

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Parte 3, In spiaggia a Tofo e l’illusione di fare beneficienza

 

Le serate a Maputo siamo usciti giusto per cenare nei ristorantini sulla via principale vicino al nostro alloggio e poi a nanna; non siamo molto attratti ad andarcene in giro di notte ed abbiamo ancora quel poco di fobia che però pian piano stiamo allontanando. E poi, meglio non perdere il ritmo, visto che la partenza verso la spiaggia di Tofo è prevista per le 5 del mattino.

E’ ancora buio ed una specie di furgoncino tutto scassato ci viene a prendere dall’ostello per accompagnarci alla stazione dei bus. Arrivati qui ci trasferiamo su un minibus che pian piano si inizia a riempire di persone e merci. Quando il mezzo è strapieno all’inverosimile finalmente si parte in direzione nord-est. Durante il viaggio scambieremo due chiacchere con uno studente universitario simpatico che stranamente conosce l’inglese: si parla un po’ della povertà e della situazione in generale del suo paese. Pare che l’aspirazione più grande di un giovane mozambicano sia quella di trovare lavoro presso un’Organizzazione Non Governativa, gestita da stranieri e che quindi offre paghe più alte rispetto ad una qualsiasi azienda nazionale. Lui mi mostra il suo telefonino: fin dal primo giorno a Maputo ero rimasto sorpreso dalla diffusione dei cellulari; la povertà è dilagante, ma i telefonini sono diffusissimi e i giovani vendono ricariche ad ogni angolo della strada, segno che la globalizzazione è arrivata anche qui.

Dopo un viaggio stancante ed un po’ pericoloso (vista la velocità e pazzia con cui guidano gli autisti dei chapa) eccoci arrivare a Tofo: troveremo alloggio in una semplice capanna con letto matrimoniale molto carina e rumore delle onde che ci fa compagnia mentre dormiamo. Tofo è un posticino tranquillo, poche costruzioni, qualche alloggio per turisti, alcuni venditori di beni di prima necessità sulla via principale ed uno spiaggione lungo chilometri praticamente deserto;  mi ricorda un po’ le spiagge del nord-est brasiliano. Però qui siamo sull’Oceano Indiano, è un po’ agitato, ma comunque piacevole per fare il bagno; resteremo a Tofo per 3 giorni, relax e dolce far niente.

Da questo punto del viaggio in poi decido di iniziare con la pillola della malaria, Alba ha già cominciato un paio di settimane fa dall’Italia; si intravedono le prime zanzare e quindi si va a dormire coperti dalla zanzariera. C’è sempre un grosso dubbio sul fatto di fare o no la profilassi antimalarica quando si visitano queste zone, alcuni decidono di vaccinarsi, altri rischiano un po’ di più pur di non subirne gli effetti collaterali e sono pronti a curarsi nel caso di malattia.

A Tofo ci sono molti giovani sudafricani bianchi in vacanza, ne conoscerò uno di Durban, ci chiacchiero un po’, voglio capire meglio come funziona la storia del razzismo e se l’apartheid in Sudafrica sia finita davvero oppure no; lui mi spiega che le razze sono molto distanti culturalmente e che forse l’apartheid finita agli inizi degli anni ’90 non era così sbagliata: la sensazione che ho avuto sin dal primo giorno sulla mancanza d’integrazione tra le diverse razze inizia a prendere consistenza.

 

Tra gli altri conosceremo 2 volontari italiani che avevano appena terminato un progetto di 6 mesi presso una scuola del Mozambico e si stavano godendo qualche giorno al mare prima di rientrare in Italia: ci racconteranno storie raccapriccianti non tanto per le condizioni di miseria da loro viste e vissute, ma soprattutto ci spiegheranno di come la maggior parte delle organizzazioni di volontariato siano poco o quasi per nulla efficienti quando si tratta di mettersi all’opera negli aiuti alle popolazioni più disagiate. Loro stessi erano stati mandati in Mozambico da un’organizzazione internazionale con sede in Danimarca, la quale gli ha fatto dapprima raccogliere soldi nelle strade di Copenaghen per 3 o 4 mesi (5000 Euro, somma raccolta a scopo benefico) e successivamente, dopo aver pagato il loro volo aereo con parte di quei fondi, l’organizzazione ha spedito i nostri amici in Mozambico sostenendo che la differenza restante sarebbe servita per il loro vitto e alloggio nei 6 mesi di permanenza; in sostanza quei fondi sono spariti, visto che Marina e Daniele hanno dormito in sistemazioni mooolto basiche e vissuto con la comunità del posto (mangiando cibo locale da queste parti si spende circa 1 Euro al giorno). Addirittura pare che il capo di questa grande ONG sia latitante nell’America Latina… E per una volta il furbo di turno non è Italiano, bensì un Danese… E VAAAAAAIIIIIIIIIIIIII!!!!!!!!!!!!!!!!

Molte volte le organizzazioni umanitarie hanno dei costi notevoli per essere mantenute e quindi spesso va a finire che i soldi dati in beneficienza vengano spesi più per pagare il personale che ci lavora dentro, le strutture, gli ingegneri e gli operai impiegati nelle opere da realizzare, che non per un aiuto concreto alla popolazione stessa. Dietro la beneficienza c’è una vera e propria scienza che studia il modo migliore per far incrementare le donazioni; e anche queste ricerche vengono pagate naturalmente con i fondi delle donazioni stesse. Il principio intorno al quale ruota il tutto si basa sul fatto che il motivo principale per cui noi occidentali doniamo è quello di ripulirci la coscienza, ci sentiamo fortunati a nascere in un paese ricco a differenza dei più sfortunati nati nella miseria; e il senso di colpa viene incrementato ancor di più mostrandoci in continuazione immagini di bambini che muoiono di fame, catastrofi naturali eccetera eccetera.

Eppure questa scienza mi andrebbe ancora bene se solo i soldi finissero nel posto giusto. Ma molto spesso succedono storie del tipo che un governo decida per esempio di stanziare tot soldi per la costruzione di 50 latrine in tale villaggio dell’Africa (con i soldi dei contribuenti ovviamente); allora si fa una gara d’appalto alla quale partecipano le varie organizzazioni non governative (i preventivi e gli ingegneri vengono pagati dai fondi raccolti con la beneficienza ovviamente); la ONG di turno che vince l’appalto va in Africa a costruire le 50 latrine (con stipendi da capogiro pagati sempre dalla cassa creata grazie ai vari donatori tra cui il governo stesso, ovviamente); in molti casi le latrine non vengono terminate perché i fondi finiscono prima del tempo (ovviamente, proprio come succede per le opere pubbliche in Italia); nei pochi casi in cui le 50 latrine vengono terminate probabilmente ci si accorge che il villaggio è talmente piccolo che ne sarebbero bastate 20 di latrine (e quindi ennesimo spreco di risorse, ovviamente). Tutto funziona un po’ così, è un circolo vizioso che comunque fa girare l’economia, ma lascia poco o niente per i poveretti laggiù e prende in giro chi pensa di aver fatto un’opera buona verso il prossimo.

Fa un po’ ridere il solo pensiero che un volontario serio impegnato in una zona poverissima del mondo debba sprecare del tempo prezioso per fare la foto ai vari bambini, così da poterla spedire allo stupido di turno che comodamente seduto sul divano di casa è convinto di aver adottato un bambino a distanza. Certo che siamo proprio tonti noi occidentali! Secondo quale criterio si sceglie di adottare un bimbo anziché un altro? E quanti di quei bambini restano in una missione pochi mesi e poi per qualche motivo scappano o vengono spostati dagli stessi genitori in un altro villaggio? Immaginate il volontario di turno che cerca di ritrovare quel bambino scappato pur di continuare a fotografarlo così da tener contento il donatore il quale continuerà ad inviare l’assegno mensile necessario al fabbisogno di quella comunità o scuola che sia. Bisogna venire qui e vedere con i propri occhi per rendersene conto. I criteri ed i parametri di giudizio, cosa sia giusto o sbagliato, sono concetti molto diversi in Occidente e in Africa. E se beneficienza si vuole fare meglio prendere un aereo e trascorrere un mesetto da queste parti per dare un piccolo aiuto concreto con la propria presenza e perché no, anche disponibilità economica, piuttosto che donare Euro alla ceca che probabilmente si perderanno tra un passaggio e l’altro (e qui arriveranno pochi spiccioli). La beneficienza è una cosa seria e delicata; e i bambini è meglio adottarli per davvero, anziché a distanza, sempre che sia giusto adottarli (ma questa è un argomento a sé).

Tra un bagno e le prime abbronzature, tra una discussione e qualche spuntino di pesce, passeranno i 3 giorni a Tofo in compagnia dei nostri amici Italiani e due ragazzi dall’Estonia e le Canarie pronti a dare loro il cambio come volontari nei prossimi 6 mesi, ma già notevolmente abbattuti dall’esperienze di Daniele e Marina. Quest’ultima ci racconterà tra l’altro di come il ruolo di maestra d’inglese per il quale era stata mandata in Mozambico sia stato totalmente inadeguato visto che la maggior parte dei suoi alunni aveva bisogno di imparare prima il portoghese (che è la lingua ufficiale del Mozambico). Inoltre Marina ci ha raccontato di giornate intere passate a ripulire i piedi dei bambini infetti da uno strano virus che si forma sotto pelle (in quanto camminavano sempre scalzi) e di come sia stato molto più utile investire i pochi risparmi raccolti tra i suoi familiari per comprare scarpe e fare lezioni sull’igiene anziché insegnare l’inglese.

 

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Parte 4, Vilankulo e l’arcipelago Bazaruto

 

Un pomeriggio andremo con un chapa alla vicina cittadina di Inhambane, tanto per cambiare area, fare un giro al mercato e prendere informazioni per la partenza verso la nostra prossima destinazione. Niente di speciale: una chiesa, 2 moschee, una piccola stazione ferrovia, i ragazzi sul lungomare con gli stereo della macchina a tutto volume ed i telefonini in mano (come già visto a Maputo). Il supermercato in cui faremo la spesa è gestito da cinesi: sono arrivati anche qui ed insieme agli Indiani gestiscono i grossi business del Mozambico; è incredibile come i cinesi riescano a trarre profitto anche da un paese così povero.

A Tofo abbiamo trascorso un paio di serate in un bar non lontano dalla nostra capanna, il cui proprietario era stato un certo Dino, che a quanto pare è il Bob Marley del Mozambico, ma che è morto l’anno scorso credo. Saranno le nostre prime serate fuori. Al Dino’s Beach Bar ci concediamo anche una pizza e balliamo un po’ nella mischia con i sudafricani (quasi tutti bianchi) venuti per le vacanze scolastiche; si rivede anche qui la scena vista e rivista negli anni passati in altri angoli del mondo: l’uomo occidentale bianco e adulto insieme alla ragazzina nera locale e giovane, anche se finora in percentuale molto minore rispetto a ciò che ho visto in passato in altri paesi poveri (mica sono stupidi, qui le puttane saranno pure a buon mercato, ma l’AIDS non guarda in faccia a nessuno); il tutto si svolge sotto l’occhio vigile del mega poster del grande Dino.

 

Si riparte, sveglia al mattino presto che ormai è diventata un’abitudine, andiamo sulla via principale ad aspettare un chapa, saliamo a bordo e quando è strapieno si parte. Un piccolo tragitto fino ad Inhambane, dov’eravamo stati in visita il pomeriggio precedente. Da qui prenderemo un traghetto per la cittadina di Maxixe, con la speranza di trovare una coincidenza verso il nord. Cerchiamo qualche informazione utile, ormai abbiamo capito che non ci sono cartelli, né indicazioni precise; alcuni ragazzi si accostano a noi con la pretesa di aiutarci, io ci metto poco a liquidarli non appena diventano troppo insistenti o maleducati. Aspettiamo un po’ davanti alla stazione di benzina, ci hanno detto che qui tra non molto arriva un bus gran turismo proveniente da Maputo e diretto a nord. E in effetti dopo un po’ arriva davvero, finalmente un autobus vero, la gente si ammassa, chi prova ad entrare, chi prova a vendere snack, lattine, frutta e di tutto di più, è il solito caos più totale; alla fine niente, non riusciamo a trovare un posto libero a bordo, ci tocca andare a qualche isolato più in là dove a quanto pare stazionano i minibus che vanno a nord. Arrivati in zona parte il solito assalto verso i 2 unici bianchi (ma ormai non lo racconto neanche più, sta diventando cosa normale), troviamo il minibus che ci interessa e quando si riempie si va.

Sarà un altro bel viaggio traumatico, tutti ammassati come le sardine, è quasi impossibile muovere un singolo arto durante il tragitto, quindi è importantissimo trovare la giusta posizione nel momento in cui si prende posto, in modo da mantenerla per tutto il tempo. Questa volta a bordo abbiamo anche 2 tipi che si ubriacano bevendo tranquillamente alcool di bassa qualità durante il viaggio; e siccome il minibus balla molto a causa delle condizioni della strada nazionale non propriamente asfaltata, ecco che il vino ogni tanto salta dal bicchiere verso i passeggeri vicini, qualcuno protesta, ma la maggior parte della gente resta in silenzio, la sopportazione e l’abbattimento di questo popolo sono infiniti. Accanto ai 2 simpatici alcolizzati c’è una mamma con il suo neonato: la signora in questione aveva il piccolo aggrappato dietro la schiena e mentre prendeva posto lo ha schiacciato completamente senza preoccuparsi più di tanto; questi bambini prendono certe botte incredibili, quando il minibus si ferma e la signora cerca di scendere, ancora una volta il piccolo urta contro il tetto del mezzo la sua testolina già piena di lividi. Sembra un caos più totale, ma la scena più bella avviene quando ci fermiamo per la pausa bagno e la mamma in questione chiede ai 2 ubriachi di mantenerle il bebè: io ero rimasto sul bus e i 2 davanti a me che provavano a calmare il pianto del piccolo muovendolo su e giù e dicendo più volte la parola “mamma”; ma dico, con tutte le persone che c’erano a bordo, proprio a quei 2 doveva lasciare il bambino? La sensazione è che la vita da queste parti abbia un valore inferiore rispetto a come siamo abituati a considerarla noi occidentali, si fanno tante azioni senza pensarci troppo. E naturalmente quando prima ho parlato di pausa bagno, intendevo dire una fermata nel mezzo del niente (chiamarla campagna sarebbe un complimento), gli uomini vanno da un lato della strada, le donne dall’altro (se sono fortunate dietro un albero) e poi si riparte. L’unica cosa divertente di questi tragitti è che i minibus in questione ogni volta che passano tra i villaggi si fermano e vengono assaliti da venditori di ogni cosa che si fanno concorrenza spietata tra di loro, mettendoci i prodotti fin all’interno del veicolo attraverso il finestrino.

 

Tra un’avventura e l’altra eccoci arrivati a Vilankulo, cittadina costiera e punto di partenza per l’arcipelago Bazaruto. Solito giretto per cercare l’alloggio che più fa per noi e scegliamo una casetta di legno economica che si affaccia sulla spiaggia e facente parte di una struttura per viaggiatori zaino in spalla, tipo ostello. E’ domenica, la popolazione locale pare sia numerosa e in molti si riversano in spiaggia, musica che suona dalle poche macchine presenti e odore di carne arrosto che proviene dai barbecue; qualche ora prima mentre entravamo in città con il minibus avevamo anche notato tanta gente al campo di calcio, è uno sport amatissimo da queste parti. Una strada di terra costeggia la spiaggia centrale non così speciale, noi avevamo preferito quella di Tofo; la percorriamo in lungo e in largo e, come già successo a Maputo, qualcuno pare infastidito se noi lo fotografiamo. La cosa bella è l’incredibile differenza tra alta e bassa marea: quando quest’ultima è al minimo si possono fare camminate interminabili e la gente si riversa a raccogliere molluschi e quant’altro, oltre alle barche che emergono completamente dall’oceano sembrando dei veri e propri relitti (erano cose che avevo già notato in spiaggia a Maputo).

Anche a Vilankulo resteremo per 3 notti, le ultime 2 ci sposteremo in una capanna più interna per via delle zanzare; e che notti!!! I pochi fortunati ad avere il generatore di corrente hanno qualche lampadina accesa, per il resto di sera è tutto buio, avere la torcia è un aiuto in più per camminare in strada e anche al tavolo nel ristorantino locale è meglio tenerla accesa per avere una migliore idea di cosa si sta mangiando.

Il terzo giorno, dopo varie trattative, acquistiamo un giro in barca verso l’arcipelago di Bazaruto e precisamente alle isole di Magaruque e Benguera. In barca con noi ci sono 2 ragazze canadesi. La barca scelta non è delle più sicure, ma d’altronde trovare il giusto operatore per organizzare l’escursione è un po’ come giocare a mosca cieca. Eravamo partiti da poco che già c’erano dei delfini accanto alla nostra barca. E alla fine le isole risulteranno molto belle, sabbia bianca ed acqua cristallina: a Magaruque farò un po’ di snorkeling e ci fermiamo per un pranzettino a base di pesce; a Benguera breve sosta pomeridiana che purtroppo non sarà sufficiente visto la grandezza dell’isola: una distesa di sabbia interminabile e isolamento completo, SPETTACOLO!!! Ci avrei trascorso volentieri la notte. Piccolo aneddoto: durante lo snorkeling i 2 barcaioli che ci accompagnavano hanno avuto la felice idea di frugare nella borsa delle 2 ragazze canadesi e di rubare qualche contante; solita tecnica, ne prendono una parte e lasciano il resto così da non insospettire le vittime, a me era già successo l’anno scorso a Cuba. Ma le 2 non si fanno fregare e con qualche gioco psicologico e un tantino di ricatto riescono ad avere i loro meticals indietro con tanto di scuse da parte dei giovani barcaioli, che faranno la figura da stupidi ed ingenui, oltre a pregarle di non dire niente al loro capo. In Africa si vive e si pensa così, alla giornata, e si costruisce poco o niente; quindi meglio guadagnare tanto e rischiare di non lavorare più, anziché mantenere nel tempo un lavoro.

Al ritorno sulla terra ferma, ci dirigiamo subito verso il mercato locale, punto di partenza dei minibus, dobbiamo comprare i biglietti per la partenza del giorno dopo. Prenotiamo 2 posti, il tipo che vende i biglietti insiste sul fatto che dobbiamo pagare un piccolo extra per lo zaino, come già successo in altre circostanze, io lotto un po’ contro questa pratica che si usa solo ed esclusivamente nei confronti dei turisti bianchi, alla fine vince lui, parlo e parlo ma sembra di parlare con un muro.

Facciamo finta di credere che si paga anche la “PASTA” (bagaglio), ma l’amico tenta pure di darmi meno resto, io gli faccio capire che non sono proprio deficiente e lui si giustificherà con un semplice “Distracao”: e allora crediamo anche a questa distrazione, ci facciamo una risata e prendo il mio resto, tanto ormai abbiamo capito che ci provano sempre e comunque. All’indomani sarà di nuovo un’alzataccia, alle 3 di mattina, sta diventando un incubo, ormai di sera difficilmente riusciamo a resistere in piedi oltre le 9.

 

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Parte 5, Mozambico da sud verso nord

 

Chiediamo alla guardia del nostro alloggio di scortarci fino alla fermata del bus in quanto è buio e il tragitto tra le capanne e baracche non è piacevolissimo. Arriviamo al bus poco prima delle 4, fortunatamente i biglietti erano stati venduti tutti il pomeriggio precedente e quindi saremmo anche pronti per partire se non fosse per l’ennesima inculata: sono stati venduti 4 biglietti per ogni fila del minibus, tranne che per l’ultima dove hanno deciso di ammassare gli unici 5 bianchi (inclusi noi 2) tutti insieme, tanto i turisti non hanno il coraggio di lamentarsi; proprio bastardi sti mozambicani, questa volta non me la faccio scendere e combino un casino: bloccheremo il bus per mezz’ora ed occupiamo un posto extra che ci spettava di diritto, ma alla fine non c’è stato niente da fare e si parte lo stesso, hanno vinto di nuovo loro, hanno la testa durissima e non si poteva lasciare una persona a caso a terra per darci un posto in più; e noi rifiutiamo il rimborso che ci viene offerto, anche perché il prossimo mezzo parte il giorno seguente e non abbiamo molta voglia di svegliarci di nuovo in piena notte fonda.

Sono le 4 e mezza del mattino, finalmente si parte, si prevede un altro viaggio della speranza, ogni tragitto in Mozambico sembra il peggiore di tutti: come al solito il minibus è mezzo scassato e talmente pieno di persone e cose che si fa fatica a respirare. La solita ed unica strada nazionale che copre il paese da sud a nord, in molti tratti è sterrata, quindi entra tantissima terra dai finestrini; e il bello è che quest’ultimi non si possono chiudere in quanto l’aria condizionata è ancora un’utopia da queste parti e la puzza di sudore e sporco all’interno del veicolo, uniti al caldo, sono talmente pesanti che è meglio tenere aperto e far entrare terra; e quando decidiamo di chiudere per un attimo solo il finestrino dal nostro lato, ci viene detto di riaprire perché la terra che entra da una parte deve pur uscire dall’altra, altrimenti resta all’interno del minibus. Ma che bella teoria!!! Insomma per l’ennesima volta ci combineremo a merda, ci vorranno giorni per ripulirci, in queste condizioni una semplice doccia non basta. Durante il viaggio ci sarà la solita fermata bagno in mezzo alla strada ed il passaggio nei vari villaggi sarà sempre più colorito dai venditori ambulanti assatanati in cerca d’affari, da persone in cerca di un posto a sedere e dai passeggeri che, nonostante non ci sia posto neanche per respirare, comprano di tutto lungo il cammino; incontreremo veramente poche macchine in strada, si contano sulle dita delle mani, e intorno alle 11 di mattina arriviamo all’affollato incrocio di Inchope.

L’idea è quella di prendere immediatamente un altro mezzo che va ancora più a nord, verso Quelimane, ma qualcuno in strada ci dice che è troppo tardi e bisogna riprovare il giorno seguente nelle prime ore del mattino. Attendiamo ancora un po’ dando credito a chi invece ci aveva consigliato di aspettare, ma niente da fare, non passa niente. Decidiamo quindi di attraversare la strada e cercare un mezzo che ci porti a ovest verso Chimoio, cittadina vicina dove è più facile trovare un posto per dormire, così all’indomani saremmo tornati allo stesso incrocio di mattina presto con la speranza di salire su un veicolo diretto a nord; ma un signore seduto davanti alla porta di casa ci consiglia di andare a est, verso Beira, è una città più grande, ci dice, e da lì partono i bus gran turismo, quelli veri e comodi, che non si fermano agli incroci, e vanno anche verso nord. Il tipo in questione non aveva la faccia proprio affidabile, ma la tentazione di viaggiare comodi è forte, quindi decidiamo di seguire il suo consiglio, riattraversiamo la strada in direzione opposta e cerchiamo un chapa che ci porti a Beira; e pensare che il minibus nel quale avevamo trascorso la mattinata era proprio diretto a Beira, se avessimo deciso prima ci saremmo risparmiati inutili attese sotto il sole.

Con il solito modo arrogante vengo approcciato dall’autista del chapa di turno parcheggiato, il mezzo è ancora vuoto ed io ho imparato il sistema: gli dico che viaggeremo con lui, ma che lo avrei pagato dopo e tantomeno non salgo subito a bordo, così da non aspettare ore inutili finché si riempia e garantirmi la speranza che qualche suo concorrente parta prima. Mentre aspettiamo seduti su 2 sedie in una specie di balcone mezzo demolito che qualcuno prova a chiamare ristorante, arriva un bus, di quelli grandi, lunghi, non proprio gran turismo, ma comunque qualcosa che assomiglia ad un bus vero, qualcosa paragonabile ad un vecchio autobus ancora in uso nei paesi più poveri dell’Europa dell’est, qualcosa che qui chiamano machibombo. Non credo ai miei occhi, allora esistono!!! Lo fermo, parlo con il conducente in uniforme, c’è anche un controllore, mi dicono che sono diretti a Beira ed il biglietto ha lo stesso prezzo del chapa. Sembra un sogno!!! Ma qui inizia una bella scenetta: nasce un litigio acceso tra gli uomini in divisa e i 2 ragazzi che gestivano il chapa ed ai quali avevamo detto di viaggiare con loro. Quest’ultimi sostengono che noi siamo passeggeri loro e che il bus non può caricarci lì davanti; dall’altro canto i 2 in uniforme spiegano con molta tranquillità che si tratta di un autobus pubblico e che quindi può prendere passeggeri in qualsiasi posto. La discussione si fa talmente accesa che i ragazzi si impongono con forza davanti all’entrata del bus e ci impediscono materialmente di salire a bordo. Non basta il viaggio asfissiante per arrivare fino qui, adesso ci si mettono pure questi 2 bastardi che vogliono impormi il loro abuso!!! Sono stanco e incazzato a tal punto che prendo di forza il primo dei 2 e lo scaravento da un lato, prendo il secondo e lo scaravento dall’altro, prendo Alba e la spingo di prepotenza all’interno del bus; a quel punto mi giro velocemente verso i 2 con l’atteggiamento pronto di chi si aspetta una qualche reazione aggressiva e loro cosa fanno? Ridono e se ne vanno via; io salgo sul bus e finalmente si parte. Incomincio a realizzare che la nostra paura nel relazionarci con le situazioni di strada in Africa probabilmente è infondata o almeno quasi sempre è così; questo non è il primo episodio in cui ho pensato che forse molti mozambicani non hanno le palle, ho la vaga sensazione di quel tutto fumo e niente arrosto che forse è un’altra delle tante conseguenze causate da un lungo dominio straniero nel passato.

 

Ad ogni modo siamo in viaggio su un autobus grande e scassato, ma per carità, molto comodo rispetto agli standard a cui eravamo abituati, “solo” 5 sedili per ogni fila e tanti posti vuoti. In circa 2 ore arriviamo a Beira, ci facciamo lasciare davanti al garage della compagnia TCO che gestisce i bus gran turismo e chiediamo informazioni per raggiungere quanto prima Nampula. Ci viene detto che il prossimo bus ci sarà dopodomani, ma c’è solo un posto libero, quindi dobbiamo aspettare 5 giorni. 5 giorni!!! Gioco la carta dell’attesa, aspettiamo lì seduti per una buona mezz’ora, io ogni tanto chiedo all’impiegata di trovare una soluzione alternativa ed alla fine un’altra magia si avvera: salta fuori un altro posto e compriamo 2 biglietti per la partenza più vicina!!! Il prezzo non sarà dei più economici, ma chi se ne frega: finalmente un bus comodo sul quale viaggiare. Ora non ci resta che cercare un albergo dove trascorrere le prossime 2 notti; e lo troviamo nel bel mezzo del centro città. La partenza naturalmente è prevista la mattina presto, ma almeno la prima notte possiamo dormire tranquilli. Tranquilli? Lo avremmo fatto volentieri se solo non ci fosse una pseudo discoteca che in piena notte sparava musica a tutto volume proprio sotto la nostra finestra!!!

Trascorreremo i 2 giorni in giro per la città senza troppe pretese ed approfitteremo dell’internet point per comunicare un attimino con il mondo esterno. Beira è la seconda città del Mozambico, sembra molto simile a Maputo, i palazzi diroccati con i balconi coperti da inferriate antifurto, una moderna stazione dei treni semivuota, il mercato strettissimo con le bancarelle che vendono di tutto, la spiaggia vicino la città. Non ci facciamo mancare il giro con un chapa locale. L’unica differenza è che si inizia a vedere maggiormente la presenza dei musulmani, che però sono moderati e si integrano perfettamente con i cristiani. E dopo una lunga ricerca troverò anche una lavanderia, sarà la prima del viaggio, la mia roba ormai è sporca a tal punto che anche la lavatrice si rifiuterebbe a lavarla. Ma la scena che inizio a notare sempre più spesso sono queste file lunghissime di persone fuori dai negozi di telefonini: pare sia da poco diventata obbligatoria la registrazione di un documento da associare alla scheda sim; e i possessori di telefonini sono davvero tanti.

 

Si riparte, questa volta comodi su un bel bus gran turismo, inclusi nel prezzo anche snack, acqua, pranzo a base di pollo e il bagno a bordo, la differenza si sente e come, riusciamo anche ad addormentarci diverse volte; se penso ai viaggi fatti qualche giorno prima!!! Stranamente ci sono anche dei posti vuoti, nonostante la signorina qualche giorno prima ci aveva fatto credere che era tutto pieno; chissà perché, c’è sempre una tendenza a rendere il tutto ancora più complicato di quanto già non lo sia, hanno un sistema ancora più complesso della nostra cara burocrazia italiana.

Per la prima volta possiamo ammirare il panorama comodamente dal finestrino. Oltrepassato il fiume Zambezi sembra cambiare tutto: si ha l’impressione che ci sia ancora più povertà, ma le capanne sono più carine e la gente diversa, forse più dignitosa; anche il paesaggio sembra differente. Durante il viaggio faremo una sosta brevissima nella città di Quelimane e in serata arriviamo a Nampula.

 

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Parte 6, Isola di Mozambico

 

E’ stata una giornata di viaggio intera, ma siamo contenti di aver percorso un tratto lungo tutto d’un tiro, e soprattutto con un autobus comodo. Che dire di Nampula: è semplicemente un’altra città, niente di speciale, l’hotel in cui capitiamo tanto per cambiare è orrendo, ma la scelta non è stata molto ampia e ci dobbiamo accontentare, se si vuole far esperienza della vera Africa bisognerà pure adattarsi all’acqua che non funziona o a farsi la doccia con l’aiuto dei secchi e quant’altro. In compenso troviamo nello Sporting Club un posticino niente male per mangiare; e per fortuna, visto che la scelta si limitava ai soliti 2 o 3 fast food già visti e rivisti. La sera non c’è molto da fare, quindi a nanna presto e sveglia altrettanto. Passiamo velocemente dalla stazione dei treni per avere qualche informazione riguardo la nostra partenza per il Malawi nei prossimi giorni ed eccoci nuovamente ad un capolinea dei chapa per il nostro prossimo tragitto che ci porterà verso l’isola di Mozambico. Solito caos, i vari autisti in cerca di clienti ci chiamano gridando, i nostri 2 zaini non sono proprio invisibili e sembra che noi interessiamo e veniamo notati proprio da tutti; per un attimo siamo circondati da una decina di ragazzi in cerca di facili opportunità, ma ancora una volta mi basterà un semplice sguardo per far loro capire che se mi danno un solo problema io glie ne restituisco due; si calmeranno tutti all’istante e faccio pure amicizia, ormai mi sono quasi convinto che tutti fanno tanto casino, ma alla fine nessuno ha le palle per agire; è il loro modo di fare arrogante unito all’estrema povertà che ti mette in guardia, ma in fin dei conti non mi sembra ci siano pericoli peggiori di altri posti visitati in passato.

Non credevo che potesse accadere di viaggiare ancora più stretti di quanto non abbiamo fatto nei giorni scorsi, ma ripeto, ogni tragitto in Mozambico sembra il peggiore di tutti: la prima fila del chapa dove eravamo seduti ha un poco di spazio in più davanti; noi la scegliamo pensando di stare più larghi, invece hanno appoggiato un cuscino di fronte e fatto sedere altre 4 persone: ancora più ammassati del solito; per fortuna che condivideremo lo spazio limitatissimo con 2 simpatiche ragazze universitarie di ritorno a casa. Roba da non credere: in un veicolo da 12 posti si viaggiava in 19 (più neonati in braccio naturalmente, che non contano), oltre a tutta la mercanzia posizionata in ogni buco disponibile. Meno male che il tragitto durerà solo 3 ore.

 

L’isola di Mozambico si raggiunge tramite un vecchio ponte a senso alterno, una fila interminabile di donne e bambini si riversano verso l’Oceano per raccogliere i molluschi, approfittando della bassa marea. E’ un vero e proprio SPETTACOLO. Il posto ci piace fin da subito e finalmente alloggeremo in una bella casa coloniale di proprietà di un architetto milanese, tra l’altro più economica di altri alberghi decadenti utilizzati in passato. Bene, finalmente si dorme tranquilli, pensiamo. Macché!!! In Mozambico più si va verso nord, più aumenta l’influenza araba e proprio di fronte al nostro alloggio ci è capitata una bella moschea… bella… peccato che ogni mattina alle 4 l’imam inizia a predicare con l’altoparlante a tutto volume, che si aggiunge ai bambini che canticchiano mentre lavorano prima ancora del sorgere del sole!!! Ormai resterà un sogno quello di dormire qualche ora in più, ci rassegniamo all’idea di adattarci ai loro ritmi e orari.

Ma l’isola di Mozambico è un paradiso, un piccolo gioiello nel bel mezzo del niente africano, il posto più bello che ho visto dall’inizio del viaggio: vecchia capitale della colonia portoghese conserva tutti i palazzi dell’epoca, anche se per la maggior parte abbandonati; finalmente anche l’architettura da vedere ha qualcosa d’interessante, specialmente la fortezza posta alla punta nord. L’isola è sovrappopolata, un mix di etnie e religioni e la gente del posto sembra leggermente più abituata ai turisti, anche se non ne incontreremo tanti. I bambini chiedono di essere fotografati solo per il gusto di rivedere il loro ritratto nella fotocamera; sono molto disponibili, si divertono, sono sempre sorridenti e cercano il tuo saluto, giocano nei palazzi abbandonati e si inventano di tutto riciclando materiali vecchi: in Africa è frequente vedere i maschi che fanno la corsa con un bastone infilato in un vecchio pneumatico oppure giocare con delle macchinine assurde costruite con il fil di ferro. Ma a guardarli, sembrano tutti felicissimi. Alcune donne e bambini si coprono il viso con una speciale argilla ed è’ molto piacevole il semplice osservare o camminare per le vie coloniali, infiltrarsi nei palazzi abbandonati, vedere le vecchie insegne dei bar di una volta, la sede dell’onnipresente partito comunista Frelimo oppure quella degli oppositori un po’ meno evidenti Renamo, le donne che raccolgono i molluschi e i ragazzi che si fanno la doccia prendendo l’acqua da un vecchio pozzo situato all’interno di una ex isola-bastione, raggiungibile solo con la bassa marea.

Finalmente Alba riesce a trovare anche un ufficio postale che venda francobolli, così può imbucare le sue cartoline, finora tutte le poste ne erano state sprovviste. Peccato però che i francobolli disponibili sono solo da 5 metical e per inviare una cartolina in Europa ce ne vogliono 92. Bastano 6 francobolli per occupare l’intero retro della cartolina, il che arriviamo a soli 30 metical e non abbiamo un millimetro libero neanche per scrivere l’indirizzo. E’ incredibile, in Mozambico non c’è proprio niente. La signora dell’ufficio ci consiglia di comprare una busta grande quanto un foglio A4, inserire la cartolina all’interno e quindi riempirla con tutti i francobolli necessari. Alla fine Alba neanche questa volta riuscirà a spedire le sue cartoline.

E’ curioso notare come in un palazzo sia cresciuto un albero completamente a cavallo del muro esterno e molti edifici siano senza finestre, come il tribunale per esempio; neanche l’ospedale ancora in uso ce l’ha e sulle sue mura sono disegnati i simboli della lotta all’AIDS, un problema enorme da queste parti. Sull’isola di Mozambico mangeremo anche una buona pizza, ma soprattutto ci divoreremo la migliore aragosta che io probabilmente abbia mai assaggiato in tutta la mia vita, servita con un bel contorno abbondante su un terrazzino arredato niente male. SPETTACOLO!!!

Nel nostro alloggio abbiamo conosciuto una coppia di francesi che viaggiano in Africa tutti gli anni, un po’ per vacanza e un po’ per fare business: cercano e acquistano materiale raro nei villaggi più sperduti ed importano il tutto in Europa per rivenderlo. Un giorno ci inviteranno per un giro in dhow (barca a vela tipica costruita con mezzi di fortuna) con relativi skipper locali: andremo in spiaggia a Chocas, bellissima e bagnasciuga pieno zeppo di granchi in movimento. E qui vedremo finalmente i primi baobab spogli così come si vedono nelle più classiche fotografie d’Africa.

 

In partenza dall’isola approfittiamo della disponibilità dei nostri amici francesi in macchina per un passaggio verso il vicino incrocio di Namialo; loro continueranno a sud verso Nampula, noi invece vogliamo andare ancora più a nord verso l’arcipelago delle Quirimbas. Non ricordo di essere mai stato così felice per il solo motivo di aver trovato un passaggio in auto: i viaggi in chapa ci hanno spezzati e immagino ancora ci spezzeranno; per ogni destinazione raggiunta abbiamo bisogno di un giorno intero solo per riposare e riprenderci dallo stress del viaggio. In strada notiamo verso l’orizzonte un’enorme cattedrale nel bel mezzo del niente, cosa più unica che rara; incuriositi ci avviciniamo, sembra davvero una cattedrale nel deserto, costruzione imponente e di fronte la scuola, qualche edificio e poi il solito niente che caratterizza l’Africa. Conosceremo un’anziana suora bergamasca che vive qui da più di 40 anni e porta avanti progetti di volontariato collegati con la Chiesa. E’ piacevole parlare con lei, ci spiegherà come era difficile vivere durante il colonialismo o ancora peggio quando c’è stata la lunga guerra civile; e invece di questi tempi in Mozambico si sta decisamente meglio, ci dice. E per fortuna, penso dentro di me; non oso immaginare come si possa vivere peggio di così.

Arriviamo a Namialo che sono le 8 e mezza del mattino, è già un po’ tardi visto il lungo tragitto che ci attende, salutiamo i nostri amici francesi e cerchiamo di capire quale sia il modo per arrivare alla città di Pemba, nostra prossima destinazione. In Africa gli incroci tra 2 strade importanti sono sempre affollati di gente, quando passa un bus o una macchina (molto raramente) i ragazzi escono correndo dalle capanne trasportando la mercanzia che a volte si limita anche ad una sola bottiglia d’acqua, qualsiasi cosa è buona per essere venduta, regnano caos ed anarchia più totali. Ci viene detto che in qualche momento dopo le 11 passerà un bus che arriva da Nampula ed è diretto a Pemba. Attendiamo sotto il sole, fa caldissimo e siamo osservati da tutti, io cerco anche qualche passaggio chiedendo alle rarissime macchine che vanno in quella direzione, ma è molto difficile. Ad ogni modo riusciremo a raggiungere Pemba quando sarà già buio ed in 3 tappe: 2 autostop, uno nel retro di una camionetta e l’altro dietro ad un pick-up, ed 1 bus vero (machibombo) che scopriremo arrivava proprio dallo stesso incrocio in cui avevamo aspettato per tutta la mattinata; insomma ci saremmo potuti risparmiare la fatica dei vari cambi. Ci sistemiamo in un alberghetto vicino al mare e ci concediamo un’altra mangiatina di pesce per cena.

 

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Parte 7, Pemba ed arcipelago Quirimbas

 

Il giorno seguente ce ne stiamo un po’ in spiaggia e nel pomeriggio andiamo a trovare Manuela, volontaria di Como conosciuta via internet tramite un amico e che vive in una struttura gestita da suore italiane ormai da 2 anni. Il bello è che le suore sono tutte in borghese e le troviamo molto sveglie e realiste, anche quando faccio qualche domanda piccante sul come vengono gestiti i soldi che arrivano dalla beneficienza e sull’effettivo aiuto che molte organizzazioni umanitarie non danno. Una di loro in particolare mi spiega le varie difficoltà, di come sia complicato insegnare ai mozambicani bisognosi a crearsi un proprio futuro, di qualche progetto da queste inventato per incentivare le piccole attività private con dei prestiti; si arrabbia un po’ quando dubito del lavoro che la Chiesa fa in queste zone, lei mi sottolinea di come le missioni siano state determinanti nell’aiuto alle popolazioni povere, proprio tosta sta suora. Questa struttura in pratica è un ritrovo per bambini e noi capitiamo il giorno in cui un dottore cubano è a disposizione per le varie visite e vaccini per chiunque ne abbia bisogno all’interno della comunità. Eh già, è proprio cubano il dottore e non è difficile immaginarlo, visto che il Mozambico è un paese comunista; ricordo che mi era stato detto che anche i sommozzatori venuti a recuperare dei reperti storici in mare nei pressi dell’isola di Mozambico erano cubani, a quanto pare Fidel non si lascia sfuggire nessuna occasione per tenere stretti i rapporti con i paesi amici.

Con Manuela facciamo un giro in macchina per accompagnare il dottore in città e lei ci mostra come Pemba stia crescendo a dismisura, l’ammasso di capanne abusive nei vari quartieri è talmente denso da non lasciare alcuna uscita di emergenza o strada per permettere ai mezzi di soccorso di entrare. Come al solito è un gran caos e ci sono zone intere trasformate in discariche a cielo aperto di spazzatura che quotidianamente viene bruciata. La cultura della raccolta differenziata e del riciclo naturalmente non esiste e anche durante i tragitti percorsi in chapa nei giorni passati ricordo che tutto veniva gettato fuori dal finestrino (lattine, bottiglie, carte etc.); di notte più volte ho notato i focolari qua e là che bruciavano la spazzatura dei villaggi.

La nostra amica tra le tante storie ci racconterà di come diventi ancora più complessa la situazione durante la stagione delle piogge che sta per arrivare (solitamente tra Novembre e Febbraio): i raccolti scarseggiano e nella mente del mozambicano medio non esiste la cultura di conservare il raccolto invernale anche per il fabbisogno estivo; no, qui si consuma tutto all’istante, non c’è organizzazione mentale e perciò d’estate ci sono più persone che muoiono di fame. Per non parlare della malaria e le altre malattie che subentrano. E poi c’è sempre quel senso di inferiorità dell’africano medio, il quale pensa che il bianco abbia la soluzione a tutto, nella maggior parte dei casi non ha voglia di sbattersi per i propri interessi e anche se gli si offre un lavoro interessante da fare, continuerà comunque a chiederti l’elemosina perché è la via più facile e comoda. Ricordo che Daniele, il volontario italiano conosciuto a Tofo, mi aveva raccontato di aver fatto un accordo con un ragazzo mozambicano per produrre quante più collanine possibile nell’arco di un mese da acquistare al prezzo stabilito dal giovane stesso, così da portarle in Italia e rivenderle per tirare su altri fondi da destinare ad aiuti per il Mozambico; pare che il tipo dopo 30 giorni si sia presentato con solo 6 o 7 collanine e dopo essere stato pagato per il lavoro svolto gli abbia chiesto di regalargli qualcosa.

 

La partenza per raggiungere l’arcipelago delle Quirimbas è prevista più o meno per le 4 del mattino dal centro città, si prevede un'altra giornata da incubo: il taxi prenotato la notte prima neanche si presenterà e fortunatamente troveremo un passaggio con una macchina che passava da quelle parti e per la prima volta non ci viene richiesta né accettata alcuna ricompensa in denaro per il servizio offertoci. Arrivati all’incrocio giusto imbarchiamo subito su un camioncino che gira e rigira più volte la città alla ricerca di clienti; in pratica avremmo potuto svegliarci un’ora dopo visto che alle 5  eravamo di nuovo al punto di partenza, quando finalmente il camion si è riempito abbastanza da poter partire verso il porto di Tandanhangue.

Il viaggio naturalmente è molto stressante e stavolta il mezzo è completamente aperto quindi arriva anche il vento abbastanza freddo (il sole deve ancora sorgere); comunque mi sto rendendo conto che le cose più interessanti da raccontare e che probabilmente mi resteranno più impresse sono proprio questi tragitti percorsi in camion, chapa o con i mezzi più disparati: qui si mette in scena uno spaccato di vita quotidiana che mai avremmo potuto vivere viaggiando comodamente in auto privata o mezzi da turismo. E proprio in questo tragitto verso le isole il passaggio attraverso i diversi villaggi sarà più colorito che mai: i venditori ambulanti salgono fin sopra il camion in corsa e scendono al volo pur di venderti un casco di banane o un qualsiasi frutto tropicale che sia; tutti comprano di tutto durante il tragitto e finalmente ne comprendiamo in pieno il motivo: il costo per trasportare le merci è molto elevato ed anche fare la spesa al mercato cittadino diventa caro, mentre così si compra la merce direttamente nei villaggi di raccolta o produzione. Ed ecco che le fermate sono spesso monotematiche: in una zona si vende solo un tipo di frutto, in un’altra l’alcool, più avanti ancora il riso; e la gente in viaggio man mano si riempie di scorte di roba. E’ talmente conveniente che Alba acquisterà 3 grandi papaye al costo di 20 centesimi di Euro. SPETTACOLO!!!

Arrivati al porto, che consiste in una piccola baia ed e un po’ di vegetazione, riusciamo appena in tempo a prendere l’ultima barca per l’isola di Ibo, la marea si sta abbassando e con qualche minuto di ritardo avremmo dovuto attendere fino a dopo il tramonto per partire; la barca è stracolma, per raggiungerla dobbiamo camminare con l’acqua oltre le ginocchia e durante il tragitto ci bagniamo continuamente con gli schizzi, sembra di dover affondare da un momento all’altro.

Ibo è l’isola principale dell’arcipelago delle Quirimbas e si presenterà ai nostri occhi un po’ come l’isola di Mozambico in versione molto più grande, meno popolata, di gran lunga meno organizzata e messa peggio in quanto a mantenimento dei vecchi edifici. Qui l’elettricità non esiste, perciò tranne che per qualche struttura che possiede il gruppo elettrogeno, la sera si cammina completamente al buio e la nostra torcia si rivelerà sempre più utile. Ma non è solo la luce a mancare: anche per mangiare bisogna organizzarsi molte ore prima e concordare la cena già dalla mattina con la signora che gestiva il nostro alloggio oppure ordinare presso l’unico albergo aperto in tutta l’isola; per fortuna la seconda opzione si rivelerà un’ottima scelta e l’aragosta e i buffet che ci hanno preparato, per la modica cifra di 6 Euro tutto incluso, difficilmente li dimenticheremo; anche perché a pranzo non avevamo molta scelta oltre ad un negozietto che proponeva il piatto del giorno e varie opzioni di chamusas (triangolini fritti ripieni di carne, pesce o verdure). C’è da dire che almeno ad Ibo non si muore di sete, ogni tanto si incontrano delle fontane che prelevano acqua dolce direttamente dal sottosuolo e spesso si vedono i bambini che si lavano in strada.

Durante la nostra permanenza non mancheremo di fare visita allo storico dell’isola, tale Senhor Joao Baptista, un simpatico anziano che a suo dire aveva avuto un ruolo istituzionale importante durante il periodo del colonialismo portoghese e che ci mostrerà diverse riviste internazionali che parlano di lui, oltre a rispolverare qualche aneddoto di vita vissuta a quei tempi.

Più viaggiamo verso nord e più ci stiamo rendendo conto di quanto il niente africano possa diventare affascinante. Un giorno faremo una bella camminata sotto il sole per il solo gusto di vedere un aereo decollare dall’aeroporto visitato 2 giorni prima (con la scusa di salutare un amico in partenza conosciuto all’isola di Mozambico): che dire, anche l’edificio aeroportuale è fatiscente, si limita ad una stanzetta senza porta né finestra, c’è il tetto per ripararsi dal forte sole, qualche panchina e la scritta “Ibo” in alto; la pista naturalmente non è asfaltata, ma di erbaccia secca ed un altro viaggiatore ci ha raccontato come qualche minuto prima una persona sia andata a correre dietro alle capre che occupavano la pista, in modo da cacciarle e permettere l’atterraggio di un velivolo; aeroplani piccoli e privati che portano turisti spesso facoltosi nei resort delle varie isole, naturalmente! Che SPETTACOLO!!! Nella stessa giornata abbiamo continuato a camminare per ore sotto il sole fino a perderci nell’interno di Ibo e poi finire sul lato opposto dell’isola, assetati e con poche zone d’ombra; fa proprio tanto caldo, ormai siamo nell’Africa più profonda, non troppo lontani dalla Tanzania.

Un giorno ci siamo organizzati con un barcaiolo e altri 2 turisti per un’escursione in dhow all’isola di Matemo, bella e soprattutto deserta, e al banco di sabbia, che si forma solo in alcune ore della giornata grazie alla bassa marea, creando così una minuscola isola sperduta nel bel mezzo dell’Oceano Indiano. Con un ragazzo australiano l’ultima sera andremo a curiosare in una discoteca locale dove pare fosse ospite un famoso dj di Nampula: cosa posso aggiungere, una baracca, musica ad alto volume, alcuni venditori ambulanti e tanti giovani, nient’altro.

 

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Parte 8, In treno verso il Malawi

 

Ad Ibo abbiamo visto i bambini mandati in giro a distribuire bandierine e semplici gadget sponsorizzati dal partito comunista Frelimo, che praticamente impone la sua leadership, un po’ come avviene nella maggior parte dei paesi di questo continente. Ad Ibo faremo una chiacchierata con i primi veri viaggiatori cinesi che io abbia mai incontrato negli anni (li avevamo conosciuti qualche giorno prima a Nampula e poi ci siamo ritrovati sull’isola di Mozambico e quindi alle Quirimbas): una coppia che ha viaggiato dalla Cina fin qui via terra, di cui lui pare se ne starà in giro per il mondo per un totale di 3 anni, dormendo sempre in tenda; mi racconterà di aver lavorato in borsa e che in un anno e mezzo ha guadagnato tanti soldi cavalcando il boom economico cinese, quindi ha mollato tutto ed è partito; tanto di cappello!

 

La direzione del nostro viaggio inizia ad andare verso l’interno, ad ovest, vogliamo entrare nelle viscere di questo continente ed attraversare Malawi, Zambia e, se le notizie sulla stabilità politica non saranno troppo preoccupanti, fare anche un giretto in Zimbabwe, prima di raggiungere le cascate Vittoria. Ma non vogliamo perderci per nessun motivo un viaggio in treno, che a detta di molti è interessantissimo, quindi ci toccherà tornare indietro fino a Nampula, dove passa la ferrovia. Riprendiamo la barca stracolma ed ancora un altro viaggio estremo in camion, ci vorranno “solo” 5 ore per percorrere i 100 chilometri che separano il villaggio di Quissanga, nei pressi del porto, da Pemba; questa volta il tutto sarà condito da un grande sacco di cemento posto sotto i nostri piedi che si romperà spolverando praticamente tutti i passeggeri di grigio.

Una cosa di cui non si può far finta di niente quando si viaggia in Africa è la diffusione dell’AIDS: da queste parti il 20-25% della popolazione è sieropositiva e fa un po’ impressione pensare che nel camion siamo una trentina di persone e probabilmente 7-8 sono infette da questa malattia. Il ragazzo mozambicano conosciuto nel primo viaggio in chapa verso Tofo ne dava la colpa ai giovani che a suo dire non usano il preservativo pur di provare più piacere. Qui se uno supera i 30 anni viene considerato vecchio e perciò sano ed intelligente per non aver contratto il virus; l’aspettativa media di vita in Mozambico si ferma ai 35-40 anni. Quest’Africa è proprio un mondo completamente diverso da quello in cui siamo abituati a vivere noi.

Alloggeremo in un albergo centrale a Pemba, così da essere vicini alla fermata del bus per il giorno seguente. Oggi è domenica e questa volta non voglio farmi sfuggire la partita di campionato della massima serie mozambicana Pemba contro Vilankulo; vincerà la seconda e noi riusciremo ad infilarci in tribuna per gli ultimi 15 minuti, iper osservati da tutti naturalmente, a volte in Africa mi sento quasi un extraterrestre. Lo stadio non è un granché, ma è abbastanza pieno e alle nostre spalle ci sono i giornalisti che commentano e conducono le interviste del dopo partita.

Alle 5 del mattino del giorno seguente siamo già in viaggio e questa volta troveremo un machibombo, bus scassato per carità, ma almeno è un bus grande che ci sembra quasi un lusso rispetto ai viaggi fatti negli ultimi giorni. A Nampula ci rilassiamo un attimo, internet, passeggiata al mercato, poi addirittura un supermarket, ma l’alloggio farà sempre schifo (nonostante ne abbiamo scelto uno differente rispetto all’ultima volta).

 

E finalmente siamo giunti ad un altro perno importante del nostro viaggio: il tragitto in treno che ci porterà tra i villaggi e le montagne nell’interno del Mozambico. Abbiamo molte aspettative da questa giornata e alla fine non resteremo per niente delusi; il fatto che in Africa non ci sia niente rende anche un semplice viaggio sulle rotaie qualcosa di molto particolare e interessante e qui la parola SPETTACOLO sarà azzeccatissima!!!

Dunque si parte puntuali alle 5, questa volta non ci sarà da attendere che il treno sia pieno zeppo, primo perché non funziona come i chapa, secondo perché effettivamente è comunque stracolmo. Noi abbiamo prenotato il giorno precedente 2 posti nell’unica carrozza di seconda classe, disponibile solo 3 volte a settimana insieme ad uno pseudo vagone ristorante; per il resto si viaggia in classe economica, un vero massacro. Il treno sembra degli anni ’60, l’atmosfera a cui eravamo abituati nei viaggi su 4 ruote, dove ad ogni sosta ci si ritrovava in un vero e proprio mercato ambulante, qui viene moltiplicata abbondantemente durante le fermate nelle pseudo stazioni ferroviarie. E’ incredibile: ad ogni villaggio le carrozze vengono letteralmente assalite, i passeggeri si affacciano dai finestrini oppure scendono per fare gli acquisti, i venditori salgono a bordo e poi saltano via al volo con il treno in cammino; anche noi faremo la nostra parte, in questo villaggio compriamo i cetrioli, nel prossimo le carote, dopo i pomodori e così via, spesso ci propongono anche le galline vive. E poi sul treno stesso molti passeggeri hanno le proprie mercanzie da vendere, è tutto un commercio.

Questa volta ancora maggiormente viviamo uno spaccato di vita locale: la gente chiacchiera, discute dei problemi del paese, poi ci si scambia di posto e di compartimento, si conosce nuova gente; si ha proprio la sensazione di stare in un paese comunista, anche se con parametri lontanissimi dalla nostra immaginazione. Molti si portano il pasto da consumare che quasi sempre consiste in una porzione di xima (il piatto nazionale, una specie di mais bianco pressato che si mangia con le mani) accompagnato da verdura cotta o pollo, cibo economico e che riempie lo stomaco, in vero stile africano.

Dopo aver attraversato villaggi, stazioni e paesaggi montani giungiamo in una decina di ore alla stazione di Cuamba. Siamo un poco stanchi, ma invece di fermarci e cercare alloggio, ne approfittiamo di un chapa in partenza verso il confine malawiano, così da bruciare i tempi ed essere pronti ad attraversare la frontiera la mattina seguente. Sarà l’ultimo viaggio massacrante in Mozambico e tra le varie lamentele dei passeggeri, uno in particolare mi ha fatto sorridere, sostenendo che in queste condizioni saremmo giunti a destinazione mutilati; e non aveva tutti i torti. E’ buio ormai e durante il viaggio si vedono i focolai della spazzatura che brucia. Qualche chilometro prima di giungere a destinazione il chapa si ferma nel bel mezzo del niente e l’autista ci fa scendere tutti per raccogliere i soldi del biglietto; credo abbia avuto paura che una volta arrivati qualcuno scappasse via senza pagare.

A Mandimba prendiamo una stanza per dormire, ceniamo e facciamo un giretto per le stradine (con la torcia accesa naturalmente, la luce tornerà solo in tarda serata). All’alba del giorno seguente 3 bici-taxi ci porteranno fino in frontiera, qualche chilometro più in là; con noi c’è anche Ashley, un tipo australiano abbastanza timido e tranquillo che ormai percorre il nostro stesso itinerario da diversi giorni. Devo ammettere che questi ragazzi fanno un po’ pena a vederli pedalare, noi siamo seduti dietro con i nostri zainoni enormi e loro si affaticano notevolmente per portarci a destinazione.

Sbrigate le pratiche doganali, attraversiamo a piedi i 1500 metri di terra di nessuno e stampiamo il visto di entrata in Malawi (questa volta è gratuito). Cambiare i contanti in strada sembra convenientissimo a tal punto che ripetiamo l’operazione 2 volte in poco tempo; solo successivamente ne comprenderò il motivo: il cambio ufficiale del kwacha applicato a livello internazionale, e quindi anche dalle carte di credito, è fisso, ma non rispecchia il valore reale del biglietto verde nelle strade, che viene valutato circa il 20% in più.

 

Viaggiamo verso Mangochi sul retro di un camion nel quale quanto meno abbiamo lo spazio per muovere i piedi. Qui pochi giorni fa si è svolto un grande festival musicale di livello internazionale al quale purtroppo non abbiamo fatto in tempo ad assistere. Facciamo un prelievo di contante extra, in quanto siamo diretti al lago e abbiamo paura di non trovare più banche; già in Mozambico ci era capitato diverse volte di aver avuto difficoltà nel prelevare. Ci dirigiamo quindi verso Monkey Bay con il trasporto pubblico che funziona più o meno come in Mozambico, ma stavolta ognuno ha il suo posto a sedere. Addirittura!!! Nonostante percorriamo il tragitto con un minibus messo veramente male, abbiamo quasi la sensazione di viaggiare comodi e i massacri mozambicani sembrano già un lontano ricordo. Sembrano!!! Scendiamo 5 km prima di Monkey Bay, ad un incrocio è parcheggiata una camionetta pronta a partire verso Cape Maclear, nostra destinazione finale: a questo giro viaggeremo di nuovo appiccicati e sotto un sole cuocente (siamo nelle ore più calde della giornata); l’unica fortuna è che il tragitto è breve, quindi verso le 14 siamo già sul lago.

Ci ritroviamo in un gran bel posto: si sta tranquilli, l’alloggio scelto è a ridosso della spiaggia e l’atmosfera molto rilassante. Sul bagnasciuga si svolgono tutte le attività quotidiane: la gente si lava, gli uomini pescano, le donne fanno il bucato e sciacquano piatti e padelle. Naturalmente la sera si va in giro sempre con una torcia in mano, in quanto l’elettricità è un’utopia. I malawiani sembrano molto disponibili e socievoli, passeggiando in spiaggia non si smette mai di salutare i bambini che chiedono continuamente di essere fotografati.

A Cape Maclear incontreremo molti turisti, gli alloggi sono quasi tutti sulla spiaggia, addirittura molti non hanno stanze disponibili e non è difficile capirne il perché: il Malawi viene spesso definito l’Africa per principianti, in quanto è un paese relativamente tranquillo e piccolo, la gente è amichevole e viaggiare non è difficilissimo, quindi si fermano tutti qui.

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Parte 9, Lago Malawi

 

Un pomeriggio abbiamo preso un kayak e fatto un po’ di sport pagaiando nel parco nazionale e intorno ad un’isola vicina. Incontriamo anche una coppia di San Marino, lui si è appena trasferito in Zambia per un breve periodo ed è alla ricerca di un’organizzazione non governativa per fare del volontariato; si riaprono quindi le discussioni sul sistema beneficienza e su quanto sia difficile farla funzionare come si deve. Mi ritornano in mente i discorsi affrontati in Mozambico con gli altri volontari e di come le donazioni siano gestite in maniera inefficiente e con tanti sprechi. La colpa naturalmente non è solo delle organizzazioni stesse, ma anche dei singoli donatori, che siano essi governi, aziende private, singoli individui o turisti stessi. L’avevo sempre immaginato ed in questo viaggio me ne sto rendendo conto sempre maggiormente di quanto aiutare il prossimo sia una cosa seria e mooolto difficile da realizzare:

- il turista arriva qui, si dispiace del bambino povero che chiede l’elemosina e regala pochi centesimi pur di accontentarlo – quel bambino probabilmente deciderà di chiedere l’elemosina tutta la vita, tanto sarà sempre meglio che andare a lavorare per guadagnare 50 Euro al mese (questa era la paga media in Mozambico);

- una nazione europea decide di fare una bell’azione, regalando 200000 zanzariere con l’intento di aiutare la lotta alla malaria – peccato che con questo regalo ha mandato in fallimento 3 aziende locali che producono zanzariere;

- e ancora il turista si riempe la valigia di penne e materiale scolastico (maledette penne!!!) – probabilmente ha causato la chiusura della cartolibreria locale drogando l’economia del posto, oltre al fatto che se i regali vengono donati direttamente ai bambini, probabilmente quest’ultimi se li vendono per comprarsi gomme da masticare o patatine.

Potrei continuare all’infinito: se si vuole aiutare bisogna venire qui ed insegnare a questa gente come si coltiva la terra, come si costruiscono le scuole, l’importanza dell’istruzione, le tecniche migliori per produrre. Ma è troppo faticoso. Più facile donare e basta, i bambini sono così teneri, poveri ed hanno bisogno di aiuto, nessuno si pone il problema di come gli aiuti facili distruggano ancora di più questo continente. Naturalmente ci sono delle eccezioni e sicuramente avere delle medicine in un luogo dove altrimenti non arriverebbero mai, probabilmente salva qualche vita. Ma la regola generale purtroppo non è questa e le grandi multinazionali che sfruttano le risorse ed il sottosuolo delle zone povere del mondo lo sanno benissimo: meglio addolcire le popolazioni locali con un po’ di carità qua e là, anziché sviluppare l’intelletto di un popolo che alla fine si potrebbe riappropriare della sua terra e della vera indipendenza. E’ una storia che va avanti da secoli e chi sa quanti altri secoli ci vorranno per raggiungere la vera uguaglianza, il colonialismo è finito solo ufficialmente, ma questo angolo del mondo continua ad essere sottomesso dai più potenti.

A Cape Maclear restiamo solo 2 giorni, si stava bene e saremmo rimasti volentieri qualche giorno in più; fino alla sera prima siamo stati a lungo indecisi se partire o no, ma l’unico traghetto in funzione parte solo una volta a settimana ed è un’esperienza che non vogliamo perdere; pare sia una vecchia nave tedesca smontata e ricostruita all’interno del lago.

 

Andiamo con una macchina al porto di Monkey Bay e, come consigliato dalla guida, compriamo i biglietti di prima classe. Saliti a bordo ci accorgiamo che questi tagliandi non ci danno altro che l’accesso al ponte più alto completamente all’aperto. Bene, allora la curiosità mi porta a vedere come sia ridotta la classe economica: si trova un piano più giù, qualche salone comune al chiuso ed il resto all’aperto; dopo qualche fermata si riempirà all’inverosimile, praticamente il traghetto è diventato come un chapa, ma di dimensioni più grandi, e durante il viaggio la classe economica si è trasformata in un mercato a cielo aperto nel quale i passeggeri comprano e vendono di tutto. Siamo quindi felici della nostra scelta di viaggiare completamente all’aperto, dormiremo su una scialuppa di salvataggio rovesciata avvolti nel nostro sacco a pelo, ma quanto meno abbiamo spazio per camminare e non ci manca l’aria da respirare; e poco importa se dai rumorosi motori volano residui di carbone che pian piano dipingono di nero le nostre facce e vestiti. Questo traghetto è proprio messo male, sembra che possa affondare da un momento all’altro. Ad ogni fermata le scialuppe vengono calate in acqua ed i passeggeri scendono e salgono a bordo in massa; faremo anche una fermata sulla costa mozambicana del lago, che è il terzo più grande d’Africa (la nave impiega quasi 3 giorni per navigarlo da sud verso nord ed è sempre in ritardo di molte ore), ed all’isola di Likoma, che vedremo solo come una grande ombra in quanto è sera e tanto per cambiare non ha elettricità.

Arriviamo a Nkhata Bay dopo 2 giorni di viaggio e ci sistemiamo in una specie di resort economico. Il posto è carino, anche qui incontriamo molti viaggiatori e la presenza di rasta africani è notevole. Il nostro bungalow non è male, è situato in posizione alta e con una bella vista sul lago. Facciamo una passeggiata prima in spiaggia e poi al centro abitato e si ha quasi la sensazione di essere sull’isola di Santa Lucia, ai caraibi: l’acqua da un lato, le colline dall’altro e tanto verde intorno.

Tra gli altri conoscerò un ragazzo sudafricano (bianco naturalmente) che vive in Malawi e con il quale avrò modo di chiacchierare a lungo sul suo paese di origine: ancora una volta ne viene fuori un quadro angosciante, i bianchi e i neri vivono, lavorano e si divertono in modo separato, proprio come all’epoca dell’apartheid. Addirittura mi racconterà di come ogni volta che una pattuglia lo ferma in strada, lui telefona alla centrale e comunica il numero del distintivo del poliziotto in questione prima ancora di abbassare il finestrino ed esibire i documenti; questo perché non si fida dei neri ed ha paura degli agenti corrotti. Il ragazzo in questione mi sconsiglia assolutamente di andare a visitare le township sudafricane e si raccomanda con me di stare attento quando andrò in viaggio nel suo paese. E’ molto giovane ed ha proprio la faccia da bravo ragazzo, prima mi offre un po’ di stuzzichini sudafricani, poi mi invita a giocare a carambola. Mi dirà addirittura che preferisce vivere e lavorare in Malawi, dove la gente è più buona, anziché in Sudafrica. Eppure io ancora non ci credo che possa essere così terribile.

A Nkhata Bay conosceremo anche un italiano nato e residente in Malawi. Pare che la sua famiglia sia emigrata qui molti decenni fa e lui ha tutta l’aria di essere benestante: fa il pilota di piccoli aerei privati trasportando business man in giro per l’Africa e ci racconta un po’ d’avventure di volo; la più simpatica è quella che prima di atterrare a volte è costretto a volare a bassa quota per mettere in fuga gli elefanti dalle piste di terra battuta per poi fare il giro largo e quindi toccare il suolo. SPETTACOLO! Ha l’aria da sfigatello sto ragazzo, ma è di buona compagnia e, quando ci offre un passaggio in macchina verso la capitale per il giorno seguente, non ce la siamo proprio sentita di rifiutare. Il punto è che gli spostamenti in Africa ci hanno massacrano talmente tanto che percorrerli seduti e comodi in macchina diventa una possibilità da sfruttare al volo. Peccato però che per non perdere la partenza settimanale del traghetto e ora questo passaggio in auto non abbiamo dedicato abbastanza giorni al relax in riva al lago.

Quindi restiamo a Nkhata Bay solo una notte e ripartiamo all’indomani, ma non prima d’aver fatto un bagno in acqua dolce: potrebbe essere davvero l’ultimo finché non arriviamo a Città del Capo, meglio approfittarne. Siamo in 5, con noi viaggeranno 2 ragazze svizzere ed appena arrivati alla stazione di benzina l’italiano ci chiede a tutti di dividere le spese: sto figlio di p……!!!! Per carità, è una cosa giusta, ma almeno a dirlo prima, invece di fare l’amico che si offre a portarci con lui. Ma forse è proprio l’Africa che funziona così, tranne per qualche eccezione finora avevamo sempre pagato facendo l’autostop.

Spesso ho notato che in Africa gli automobilisti hanno un modo tutto loro di utilizzare gli indicatori luminosi ed è facile confondere un autista che mette la freccia a destra per dirti che puoi sorpassare con uno che usa la stessa freccia per avvisarti che deve girare a destra; la cosa migliore da fare probabilmente è ignorare qualsiasi avviso ed usare il proprio buon senso.

Ad ogni modo arriviamo a Lilongwe comodi e rapidi, con colazione in spiaggia a metà strada. La capitale del Malawi non è grandissima né tantomeno interessante e noi approfittiamo dei supermercati presenti per comprare qualche provvista e riprenderci un attimino. L’alloggio stavolta sarà all’interno di una parrocchia ed in serata il nostro amico italiano ci verrà a prendere per bere qualcosa a casa sua dove vive con i genitori: gran bella abitazione e i soliti fili elettrici sui muri perimetrali per garantirsi la sicurezza.

Ci informiamo sugli orari dei minibus in partenza il giorno seguente nei pressi del mercato e non manchiamo una visita in farmacia per controllare il nostro peso ed acquistare la giusta quantità di pillole contro la bilharziosi, malattia presente nel lago Malawi, della quale è molto facile venirne infettati anche dopo un semplice bagno, e che causa l’infezione da parte di alcuni parassiti che riproducono le proprie uova nel corpo umano, creando infezioni e dando vita ad un ciclo che si può ripetere all’infinito. A me toccheranno 5 compresse da prendere tra 6 settimane, sia che venga infettato oppure no. Meglio prevenire che curare.

 

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Parte 10, Safari nel parco South Luangwa

 

Il Malawi è il paese più povero di questa parte del mondo, ma ad esser sincero il Mozambico mi è sembrato molto peggio. E’ arrivato il momento dei saluti, breve e concisa la nostra visita, non abbiamo neanche avuto il tempo di provare a pagaiare su una tipica canoa dugout senza perdere l’equilibrio e cadere in acqua, pare sia abbastanza difficile come impresa; basta con mari e laghi, è tempo di fare qualche bel safari prima che arrivino le piogge. Lasciamo Lilongwe, ma solo dopo una breve visita in una classe di bambini lasciata senza insegnante e con il solo bidello a fare da guardia. Si trova proprio accanto al nostro alloggio ed Alba vestirà quindi il ruolo di maestra intrattenendo per un poco i piccoli.

Viaggio in minibus e poi in taxi, in poche ore arriviamo al confine; questa volta dobbiamo pagare 50 dollari americani a testa per il visto d’entrata. Io avevo un mazzetto di 50 banconote tutte da un dollaro e a quanto pare le taglie piccole non venivano accettate in frontiera; ci siamo andati molto vicini a farla franca, se solo un doganiere un po’ invidioso non fosse intervenuto nel mio tentativo di addolcimento della signora ufficiale che lavorava allo sportello; In Africa anche le tasse governative più serie sono completamente trattabili.

Con una macchina percorriamo gli ultimi 30 km che ci separano da Chipata, siamo in Zambia, preleviamo i nuovi contanti e con un po’ di fatica troviamo un alloggio. Noto un cartellone pubblicitario che annuncia la presenza in città del presidente della Repubblica per il 26 Ottobre. E oggi che giorno è? Ma il 26 Ottobre, naturalmente, è un avvenimento che non possiamo perdere!!! Troviamo un passaggio con un paio di signori abbastanza distinti, uno di loro aveva proprio l’aria del politico importante; e non lo penso solo perché non ha voluto soldi per il passaggio che ci ha dato, ma anche perché per raggiungere la zona dove il presidente doveva tenere il suo discorso, abbiamo fatto un giro molto largo per vedere come procedevano le opere di edilizia e costruzione di strade nella città: ad ogni cantiere, ad ogni strada in costruzione, lui si girava verso di noi e diceva: “avete visto, sta migliorando, il paese sta migliorando!”. E dentro di me pensavo: si certo, sta migliorando, se ritorno in Zambia tra 10 anni probabilmente troverò ancora lo stesso cantiere e le stesse impalcature. La politica in queste zone del mondo vive di sogni e promesse, funziona ancora peggio che in Italia; quasi quasi mi ritengo fortunato.

Giungiamo nella zona della manifestazione, parlano i vari ospiti, intervallati da balletti locali, e nel tardo pomeriggio prende il microfono il presidente in persona: parla bene, fa anche un paio di battute, proprio simpatico sto presidente, si trova qui per la grande inaugurazione dei nuovi alloggi per la polizia appena costruiti (ma che grande opera!!!); gli hanno messo a disposizione un palchetto minuscolo e la gente lo ascolta da uno spiazzo di terra battuta. Peccato però che a Chipata un paio di giorni prima c’è stato un black out elettrico che nessuno ha pensato di riparare: il presidente dello Zambia ha quindi pronunciato la parte finale del discorso quasi al buio completo. SPETTACOLO!!! Questa è Africa.

Approfittiamo del comunissimo supermercato Shoprite per fare un po’ di spesa per i prossimi giorni, domani si parte verso il parco South Luangwa, che a detta di molti è uno dei migliori d’Africa. Ultimamente abbiamo meno problemi a trovare supermercati forniti (almeno nelle grandi città) e, nonostante stiamo ancora viaggiando in paesi molto poveri, gli incubi del Mozambico sembrano ormai lontani, anche come qualità dei trasporti.

A cena conosceremo una simpatica coppia di israeliani in viaggio per 8 mesi dal Sud Africa fino in Ethiopia. Avevano comprato un auto da rivendere alla fine del giro e da qualche giorno si era unito a loro anche un ragazzo belga diretto in Malawi. Ci avrebbero dato volentieri un passaggio fino al parco se solo non lo avessero offerto ad un'altra viaggiatrice qualche ora prima. Per la prima volta quest’anno non sto incontrando molti ebrei in giro che, per il loro solito viaggio di fine servizio di leva, si concentrano maggiormente su mete più facili come l’America Latina oppure l’Asia e l’India.

 

Di mattina presto siamo di nuovo in strada a cercare di capire come raggiungere il South Luangwa che è distante più di 100 km da Chipata, ci posizioniamo sotto una pensilina ad un incrocio strategico ed attendiamo che passi il primo mezzo diretto al villaggio di Mfuwe, vicino al parco. Dopo varie trattative di tira e molla troviamo un passaggio con una macchina, con il quale proprietario nascerà una discussione accesa quando mi chiederà i soldi per fare benzina prima ancora di lasciare la città; è inutile, senso dell’organizzazione zero e per noi occidentali è difficile accettare questo sistema: mi viene in mente l’amico italiano conosciuto a Tofo che un giorno mi raccontò di quando si sedeva al ristorante per ordinare un hamburger e capitava che il mozambicano di turno gli chiedeva i soldi in anticipo per andarlo a comprare nel negozio accanto e poi cucinarlo.

Viaggiamo 4 o 5 ore su strada sterrata e con lavori in corso perenni; la macchina durante il tragitto si riempe all’inverosimile, alla fine saremo in 7 o 8 all’interno di un’auto scassata. Ci facciamo accompagnare dal conducente fino al Flatdogs Camp, un campeggio/villaggio sul fiume Luangwa ed arrivati alla reception saluto il nostro autista e gli pago la metà che non gli avevo ancora dato al distributore di benzina.

Allo svincolo per il camp un cartello recitava: “niente campeggiatori fino all’1 Novembre”. Ma che bell’assist!!! Gioco la carta dell’indecisione, il manager inglese ci viene incontro, io gli spiego che avevamo appena scoperto, leggendo quel cartello, di non poter montare la nostra tenda e lui ci offre una delle loro tende safari già montate con il 30% di sconto. Accettiamo. E pensare che noi l’attrezzatura da campeggio non ce l’abbiamo mai avuta ed era comunque nostra intenzione dormire in una delle loro tende!!!

Sarà che i posti raggiunti con fatica sembrano ancora più belli, ma questo camp è un vero e proprio SPETTACOLO!!! Già nell’ultimo chilometro, prima di raggiungere la reception, c’erano gli elefanti a spasso completamente liberi, le tende non sono molte e la nostra è situata proprio davanti al fiume: all’interno 2 letti singoli comodi e puliti, asciugamani, comodino e luce; all’esterno bagno privato con doccia ed acqua calda, completamente all’aperto, ma racchiuso da un recinto e collegato direttamente alla tenda stessa. Sul tetto le scimmie che corrono alla ricerca di cibo, di notte si sentono i suoni emessi dagli animali della savana e gli ippopotami che escono dal fiume e se ne stanno in giro a pochi passi da noi. Il tutto per una cinquantina di dollari per notte in due. SPETTACOLO!!!

Ormai siamo nell’Africa più profonda, alba e tramonto sono velocissimi, fa davvero molto caldo già nelle prime ore del mattino e fino a tardo pomeriggio; passiamo la giornata in piscina a rilassarci e ci facciamo accompagnare nel vicino villaggio per comprare qualche provvista, abbiamo deciso di cucinarci da soli. Passeggiando nel camp è facile incontrare giraffe, elefanti, scimmie ed in riva al fiume si vedono gli ippopotami. La sera basta fare un cenno con la propria torcia alla guardia più vicina e questa ci scorterà nei tragitti dalla tenda alla zona comune oppure alla cucina e viceversa, per via degli animali selvaggi che è facile incontrare lungo il cammino; e pensare che non siamo ancora entrati nel parco, che è a qualche chilometro da qui. Altro che Kruger Park, ora si che ci sentiamo nell’Africa vera.

Il manager del camp spinge continuamente per vendere i suoi safari ed il secondo giorno, dopo tanto dolce far niente, glie ne acquisteremo uno serale accompagnati da guide locali, che si dice siano le migliori di tutto lo Zambia. Finalmente entriamo all’interno del tanto atteso parco South Luangwa: ottima visibilità, distese immense e varie specie di animali, tra i quali una grossa mandria di bufali. Ma il bello arriva dopo il tramonto: quando è buio completo, gli occhi degli animali spiccano fosforescenti tra la natura e con un faro potente cerchiamo di avvistare il più possibile dalla nostra macchina; andiamo verso una zona nella quale la sera prima era stato visto un leopardo che mangiava la sua preda su un albero, solitamente ci impiegano un paio di giorni a finire il pasto. E infatti quando arriviamo eccolo ancora lì: che emozione, gli puntiamo il faro addosso, lui continua tranquillo a sgranocchiarsi il suo impala come se niente fosse, fa impressione, si sente anche il rumore delle ossa tra i denti, è la natura che si esprime in tutta la sua crudezza.

Al Flatdogs Camp c’erano ospiti 3 signore venete che la mattina seguente ci inviteranno per un safari all’alba con il loro pick up. Peccato però che si fanno accompagnare da una guida locale ed una volta varcati i cancelli del parco, per non stare troppo stretti, a turno ci siamo accomodati sul retro dell’auto completamente aperta ed a contatto con la natura più selvaggia. Se al Kruger Park ci avevano fatto una multa salata (e mai pagata) per esserci sporti fuori dal finestrino, qui siamo praticamente fuori dalla macchina e nessuno ci dice niente; probabilmente in Sudafrica ci avrebbero arrestato per aver fatto un safari sul retro di un pick up. Ad ogni modo le primi leonesse in Africa le avvisteremo proprio così, faccia a faccia, una di loro gira lentamente intorno alla macchina e noi siamo in 3 sul retro completamente aperto e senza alcuna difesa: devo ammettere che ci siamo cagati un po’ addosso, sarebbe bastato un piccolo salto per azzannarci. Da quel momento in poi l’adrenalina è rimasta alta per tutta la mattinata.

 

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Parte 11, Zambia

 

Visitare il South Luangwa è stata una gran bella esperienza, i paesaggi all’interno del parco cambiano velocemente e finalmente ora posso dire di aver visto tutti i Big 5 durante il mio viaggio in Africa. Il primo leone visto da un pick up aperto ed un leopardo che mangia la sua preda di notte sull’albero hanno dato una bella spinta emotiva per il proseguimento del nostro viaggio. Siamo stati anche graziati dal tempo, pare che alle Cascate Vittoria siano già cominciate le prime piogge e da un momento all’altro arriveranno anche qui. E poi abbiamo dormito in una signora tenda in un signor camp con pochi turisti e tanto spazio: un paio di volte al tramonto avevamo provato piacere semplicemente nel restare seduti su 2 sedie completamente isolate in mezzo alla natura e nient’altro intorno. Veramente SPETTACOLARE!!!

E’ il momento di ripartire, approfittiamo di un passaggio in macchina con le nostre amiche venete con le quali abbiamo cenato insieme l’ultima sera e ci facciamo lasciare alla stazione dei bus di Chipata: vogliamo arrivare a Lusaka in giornata stessa. Anche loro vanno verso la capitale, ma a quanto pare non vogliono viaggiare strette in macchina per un tragitto così lungo, quindi ringraziamo e salutiamo; ci lasciano il nome del campeggio dove avrebbero alloggiato per la notte, così se faremo in tempo a raggiungerle potremo usufruire il giorno seguente di un altro passaggio verso il parco Lower Zambezi, meta che interessa anche a noi.

Ma non andrà così: acquistiamo i biglietti per il bus, sono circa le 12 e ci garantiscono che saremmo partiti per le 2 di pomeriggio. Facciamo un giro al mercato, mangiamo qualcosa, torniamo sul posto ed attendiamo. Attendiamo. Ed ancora attendiamo. Sono le 3 passate quando con gli altri passeggeri veniamo convocati a bordo dell’autobus per sentirci dire che non si parte più ed avremmo dovuto aspettare fino all’indomani alle 5. Purtroppo non erano stati venduti abbastanza biglietti da coprirne la spese di benzina. Io lo avevo immaginato, in Africa non si viaggia ad orario, ma solo quando si è pieni e per essere sicuri di partire è meglio presentarsi all’alba. Mi incazzo inutilmente con il boss di turno e mi faccio rimborsare le quote; se solo avessi ascoltato la gente del posto che mi diceva di ritornare direttamente il giorno dopo, ci saremmo risparmiati un’inutile attesa.

Ci ritroviamo a girovagare a Chipata alla ricerca di un posto dove dormire. Non vogliamo allontanarci troppo in quanto domani mattina ci toccherà presentarci al bus alle 5 per essere sicuri di partire. Troviamo una stanza in una specie di alberghetto, facciamo una passeggiata in città, Alba si inventa per cena una spaghettata con quello che era rimasto e facciamo assaggiare un po’ di cucina italiana ai proprietari dell’alloggio che sono stati disponibili con noi. Sono una coppia distinta ed il marito in particolare pare molto acculturato: chiacchieriamo tanto di politica, della disastrosa situazione nel vicino Zimbabwe e di come le cose funzionino male in questa parte del mondo. Lui mi spiegherà che l’Africa sta pagando ancora le conseguenze del colonialismo, i confini africani non sono reali e dividono popoli appartenenti ad una stessa discendenza; le nazioni rappresentano una semplice spartizione dei territori messa in atto dagli europei senza rispettare alcun criterio. In Zambia per esempio convivono 73 gruppi tribali diversi che molte volte tra di loro non si comprendono in quanto non parlano la stessa lingua. Inoltre alcune di queste tribù sono appunto divise dai confini degli stati, quindi succede che alcune persone abbiano dei familiari che non possono vedere aldilà della frontiera, in Mozambico per esempio, oppure in Malawi (un po’ tipo il muro di Berlino. A fine cena il tipo ci saluterà con una battuta: “quando tornate in Italia dite a Berlusconi di farsi un bel viaggio in Zambia che qui è pieno di ragazzine carine”. Non ci posso credere!!! Anche in Africa sono al corrente delle cazzate che fa!!!

E’ sabato, tarda serata, mi avventuro alla ricerca di qualche bottiglia d’acqua e finisco nel bel mezzo della vita notturna di Chipata, stradine strette e baracche adibite a locali notturni con musica ad alto volume, alcool di scarsa qualità e facce poco raccomandabili.

Giorno seguente, prima ancora che il sole sorgesse eravamo già a bordo di un autobus, alle 5 in punto si aprono i cancelli della stazione e ne partono 3 nello stesso istante, tutti diretti a Lusaka. Suonano il clacson all’impazzata e fanno a gara per chi esce prima, corrono in strada a tutta velocità perché chi sta più avanti raccoglie più passeggeri che aspettano alle varie fermate sul tragitto. In circa 6 ore percorriamo più di 600 chilometri, un vero e proprio record, mai viaggiato così veloce in Africa; i mezzi sono abbastanza scassati e sempre pieni, ma quantomeno non siamo più ai livelli assurdi del Mozambico ed i bus sono di grandi dimensioni.

 

Lusaka è una grande città e come tutte le capitali africane non offre granché. Per lo più è domenica e tutto sembra abbastanza morto. Vorrei assistere ad una partita di calcio per intero allo stadio, ma non riesco ad organizzarmi. Facciamo un giro al mercato, ci spingiamo un po’ troppo all’interno e ad un certo punto non ci sentiamo più al sicuro, troppo caos e troppe attenzioni nei nostri confronti (siamo gli unici bianchi naturalmente), quindi andiamo via. Finiremo per passare il tempo in un mega centro commerciale che non vedevo da più di un mese oramai; ma è proprio fatto bene, struttura modernissima, tante facce occidentali ed un’ampia scelta di ristoranti internazionali: ne approfittiamo, ordino un piatto asiatico e ne verrà fuori una cena veramente squisita.

I pochi viaggiatori incontrati a Lusaka vengono da ovest, tutti non vedono l’ora di fermarsi in Malawi e qualcuno è diretto verso nord (Tanzania e Kenya); non sembrano molto entusiasti del loro viaggio. Per la maggior parte si lamentano delle difficoltà incontrate negli spostamenti ed i prezzi proibitivi per organizzare una qualsiasi attività, specie in Botswana. Ma si sa, l’Africa non è per tutti e se non si ha voglia di mettersi in discussione è meglio lasciar perdere.

Ripartiamo verso sud, dopo più di 3 settimane oggi ritroveremo il fiume Zambezi. Con i mezzi pubblici riusciamo a raggiungere Chirundu, la frontiera con lo Zimbabwe, da qui una macchina ci accompagna per una decina di chilometri fino al pontoon (una specie di ponte meccanico, mooolto specie, che permette di attraversare il fiume). Aspettiamo un po’, il pontoon viene azionato solo quando c’è da trasportare una macchina e a noi pedoni toccherà attendere l’arrivo di un auto. Una volta giunta l’altra sponda del fiume cerchiamo di capire come arrivare al camp scelto, che si trova ancora 10 chilometri più in là, qui i trasporti pubblici proprio non esistono. Le attese non sono mai abbastanza in Africa e ammazziamo il tempo chiacchierando con alcuni bambini del posto, il loro gioco preferito pare essere il solito pneumatico guidato da 2 bastoni messi a contrasto; sembra davvero di essere alla fine del mondo, non c’è proprio niente.

Finalmente troviamo un passaggio, è un signore bianco, molto gentile: inizia a raccontarci un po’ la sua storia, i suoi antenati erano arrivati in Africa nei tempi che furono e lui è nato in Zimbabwe, un paese molto benestante fino alla metà degli anni ’90, fin quando il dittatore Mugabe, tutt’ora in carica, ha deciso che i bianchi dovevano sparire dal paese, confiscando le loro proprietà e ridistribuendole alla gente di colore, decisione che ha sprofondato completamente l’economia dello Zimbabwe. Il bello è che lui è nato qui e non ha mai viaggiato fuori dall’Africa meridionale, quindi ad un certo punto si è ritrovato, come molti altri, a dover lasciare il suo paese e trovare altrove un posto per vivere. Come avevo già constatato da altri bianchi sudafricani, anche il nostro amico è assolutamente razzista: proprio non riesce a capire la mentalità del nero e sottolinea il fatto che ci sia distacco da ambedue le parti. “Voi in Europa parlate di uguaglianza perché non la vivete quotidianamente, ti basterebbe stare qui per un annetto e vedrai come cambi idea”, mi dirà. E poi ancora: “il razzismo parte da loro (riferito alle persone di colore), se un nero prende un passaggio da un nero deve pagare, se un bianco prende un passaggio da un nero deve pagare, ma se un nero prende un passaggio da un bianco, una volta giunto a destinazione scende e se ne va. E se gli chiedessi i soldi verrei additato come razzista. Dall’uomo bianco ci si aspetta le cose gratis, tutto è dovuto”. La situazione si è capovolta, non c’è niente da fare, è normale che ora noi stiamo pagando secoli di dominio e sfruttamento in terra africana da parte dei nostri cari antenati europei. Comunque una volta in Mozambico ci era capitato di non pagare per un passaggio preso da un nero ed anche a Chipata avevamo fatto lo stesso, a differenza di un bianco che si era rifiutato di farlo gratis; probabilmente dipende anche da quanto uno sia benestante.

E’ incredibile come questo tizio viva completamente isolato con il suo pezzo di terra (probabilmente enorme), la sua casa e nient’altro; mi dice che gli piace la natura e la solitudine, e non sopporta la confusione, la musica e quant’altro di rumoroso e affollato ci sia. E poco importa se una volta al mese deve attraversare il tanto caro pontoon e viaggiare ore per raggiungere Lusaka, dove sua moglie effettua dei controlli periodici presso un’ospedale privato e i 2 approfittano di fare qualche provvista. Mi dice di non aver paura di vivere qui isolati e che i neri fanno tanto fumo, ma poi non sono così pericolosi; a dir la verità questa è una cosa che ho notato anch’io. E conclude: “loro non si permettono a dare troppo fastidio, sanno che io ho le armi”.

 

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Parte 12, Il fiume Zambezi

 

Arriviamo al camp, non paghiamo per il passaggio (da bianchi a bianco), anzi il nostro amico ci offre pure da bere e ci comunica che sarebbe ripassato dal nostro alloggio dopo 2 giorni, la mattina presto, diretto verso Lusaka, così se ne avessimo avuto bisogno avremmo potuto approfittare di un altro passaggio fino alla frontiera; proprio gentile. Ci sistemiamo in una tenda, siamo gli unici ospiti, ormai sta iniziando la bassa stagione; poco più tardi arriverà una famiglia americana e nient’altro, siamo isolati in questo angolo d’Africa, di fronte a noi c’è il grande fiume Zambezi che poco più in là incrocia il Kafue.

I 2 giorni di soggiorno passeranno in relax: piscina, insegno ad Alba a giocare a scacchi, passeggiata ad un lussuoso resort accanto per andare a conoscere il manager italiano; arriva un altro temporale (anche a Lusaka avevamo incontrato pioggia), oramai è la stagione, i lampi sono così marcati nel cielo che fanno un po’ impressione.

La seconda sera c’erano degli ospiti locali al ristorante, ben vestiti e molto curati, una di loro pare sia il capo del villaggio vicino. Tra gli altri c’è il prete cattolico della comunità con cui facciamo amicizia: è zambiano, ma parla molto bene l’italiano, ci dice d’aver studiato in Vaticano per qualche anno. E allora io ne approfitto per punzecchiarlo un po’ sulla struttura stessa della Chiesa e ritorno sul mio argomento preferito: i soldi dati in beneficienza che non arrivano mai a destinazione. Il prete è molto sveglio e si difende benissimo dalle mie critiche, conferma molte delle mie perplessità, ma allo stesso tempo mi dirà che negli anni la Chiesa ha comunque fatto veramente tanto per l’Africa; ed io quasi quasi me ne sto convincendo. Quando gli diciamo di essere pugliesi subito ci suggerisce di andare a trovare a Lusaka l’ambasciatore del Vaticano in Zambia, pare sia di Ruvo. E pensare che anche i genitori del ragazzo italiano conosciuto in Malawi ci avevano detto la stessa cosa, forse la classe medio-alta in questi paesi è talmente ridotta a poche persone, che alla fine si conoscono un po’ tutti, anche tra nazioni diverse. Ad ogni modo noi a Lusaka non ci torneremo, quindi non conosceremo mai il nostro conterraneo in Zambia. Chiudo la chiaccherata con una frecciatina: “ma tu quando diventi vescovo? E quando papa?” E lui: “per fare carriera bisogna seguire alla regola tutto ciò che ti viene imposto, alcuni preti lo fanno, altri sono un po’ più dinamici, fanno di testa loro e non seguono la via proprio in modo retto, quindi io non diventerò mai vescovo”. Molto schietto sto prete, ho l’impressione che i cattolici in Africa sono molto diversi dai cattolici europei, badano molto al pratico e meno alla teoria.

Il parco Lower Zambezi si trova ad una cinquantina di chilometri di strada sterrata da qui, noi non ci arriveremo mai, senza macchina in Africa è veramente difficile. Ma in compenso facciamo una bella escursione in canoa nel grande fiume: siamo solo io, Alba e la guida locale. Prima di iniziare ci fanno firmare una bella liberatoria per lo scarico delle responsabilità in caso di morte: e infatti sarebbe stata una normale uscita in canoa se vicino a noi non ci fossero stati coccodrilli, ippopotami, elefanti e diverse specie di uccelli completamente liberi. Ma la guida ci tranquillizza: “l’importante è lasciare agli animali una via di fuga, loro non ti attaccano se non si sentono attaccati”. Sarà, ma pagaiare in quelle acque piene di animali selvaggi ha fatto alzare di un bel po’ il nostro livello di adrenalina.

Ripartiamo, direzione frontiera: in attesa al pontoon per riattraversare il fiume incontriamo il signore che ci aveva accompagnati 2 giorni prima e che stava portando sua moglie in ospedale a Lusaka; gli avevamo fatto sapere la sera prima che non avremmo avuto bisogno del suo passaggio per il ritorno in quanto ci stava accompagnando il manager del camp, anche lui in viaggio verso la capitale. Veniamo lasciati all’incrocio, ringraziamo e salutiamo; ma il manager del camp tentenna un po’ prima di ripartire con la sua auto: forse avremmo dovuto pagare per il passaggio offertoci? Oppure no? E’ che non sai mai come comportarti, essendo lui un tipo distinto e benestante ho dato per scontato che si era offerto per accompagnarci e basta, senza un secondo fine economico. O forse aveva ragione il nostro amico bianco dello Zimbabwe: “da bianco a nero si paga”. Io non ci capisco più niente!

Apro una parentesi per quanto riguarda il viaggio in autostop in Africa: qui i passaggi hanno un costo, circa lo stesso prezzo dei bus, lo sanno tutti. Nelle strade le persone aspettano i mezzi pubblici, ma se questi non passano si sale a bordo della prima macchina che si ferma e si paga al conducente la stessa quota che si avrebbe comunque pagato per quel tragitto. Avevamo fatto così anche in Mozambico e lo stesso sta accadendo in Zambia, inizialmente pensavamo che stessero approfittando di noi, ma successivamente abbiamo realizzato che funziona proprio così: in Africa autostop e trasporto pubblico si equivalgono e quindi sono diffusi alla stessa maniera. E’ molto comune vedere la gente ferma ai lati delle strade, non ci sono fermate stabilite, ci si ferma dappertutto. Però ci era già accaduto qualche volta che il conducente di turno non avesse accettato ricompense, ed è sempre successo con persone dall’aspetto benestante. Mi ricorda un po’ la Bolivia, quando una volta viaggiai nel bagagliaio di un auto pagando la stessa tariffa addebitata agli altri passeggeri seduti in macchina, simile al costo del bus che non passava mai.

 

Siamo a poche centinaia di metri dalla frontiera con lo Zimbabwe, è mattina presto e l’ufficio per il cambio valute è ancora chiuso; quindi mi rivolgo, tanto per cambiare, agli scambisti fermi in strada. Riesco ad ottenere un ottimo tasso, lo scambista prende la calcolatrice, moltiplica per i kwacha che voglio cambiare, ma il risultato non mi convince. Allora tiro fuori il mio telefonino, faccio la stessa moltiplicazione e il risultato è diverso. Beccato in pieno, lo scambista resta di stucco, la sua calcolatrice truccata con me non ha funzionato. Ennesima truffa sventata!!! Roba da Striscia la Notizia!!! Alla fine acquistiamo i dollari necessari all’ufficio cambi in frontiera stessa.

Ed eccoci, attraversiamo il grande fiume Zambezi a piedi su un ponte modernissimo; che emozione! Sbrighiamo le pratiche doganali, dobbiamo pagare 30 dollari a testa per entrare in Zimbabwe e il funzionario di turno si farà attendere una buona mezz’ora prima di portarci il resto (ci provano sempre, è inutile).

Lo Zimbabwe meriterebbe un capitolo a parte in questo racconto: un paese che fino ad una ventina di anni fa poteva essere definito lo Stato più ricco d’Africa, ora viene classificato come la seconda nazione più fallimentare al mondo dopo la Somalia. Mugabe, il dittatore al comando, tiene il paese sotto scacco ed ha mandato l’economia in malora da quando ha preso la popolare decisione di cacciare via i bianchi (uno lo avevamo appena conosciuto), confiscargli le terre e ridistribuirle ai neri; i contadini non riescono a gestirle, la produzione scarseggia e paradossalmente si rimpiangono i tempi in cui c’erano i bianchi. L’inflazione ha raggiunto livelli da record e la moneta più grossa dello Zimbabwe avrebbe potuto avere 25 zeri nel 2008, anno in cui l’economia è collassata e la nazione è divenuta multi valuta (cioè vengono accettate 4 monete diverse, sterline, pula, rand e dollari americani, quest’ultimi fino ad allora era un crimine utilizzarli). Le signore venete conosciute al parco South Luangwa c’erano state qualche anno fa e ci hanno raccontato di pompe di benzina senza carburante, supermercati vuoti e situazione mooooolto instabile. Qualcun’altro ci aveva anche detto che ad un certo punto il tasso d’inflazione si era moltiplicato giorno per giorno, tanto che per comprare anche una sola bottiglia d’acqua servivano mazzette di banconote.

Le guide definiscono lo Zimbabwe come un paese instabile e mettono in guardia i viaggiatori: durante le elezioni sistematicamente avvengono atti intimidatori da parte del governo e molte persone vengono uccise nei villaggi; inoltre il recente colera di 2 anni fa che ha portato alla morte 4000 persone è solo l’ultimo tassello di un paese in ginocchio. Paradossalmente l’inflazione esagerata e la dollarizzazione del paese hanno fatto si che non sia più una nazione conveniente per viaggiare ed i prezzi sono paragonabili a quelli occidentali. Un vero peccato per un posto che ha tante bellezze naturali ed un clima quasi perfetto tutto l’anno.

Fin dall’inizio siamo stati molto restii nell’includere lo Zimbabwe nel nostro itinerario, l’idea era quella di andare da Lusaka direttamente alle cascate Vittoria e poi continuare verso ovest. Tante persone conosciute in Africa ce lo hanno sconsigliato, ci mettevano in guardia sul fatto che possa essere pericoloso, i bancomat che non funzionano, i trasporti inaffidabili eccetera. Nell’ultimo mese avevo sempre cercato di reperire informazioni aggiornate sulla situazione all’interno del paese e man mano durante il nostro viaggio abbiamo conosciuto qualcuno più coraggioso diretto da quelle parti e qualcun’altro che ci era stato recentemente; le varie esperienze parlavano tutte la stessa lingua: ci sono tanti disservizi, ma la gente è buona ed il paese è bello da vedere; inoltre, tranne che per la zona delle cascate Vittoria, pare si faccia veramente fatica ad incontrare altri viaggiatori, turisti assolutamente zero. Insomma mi sono proprio convinto: lo Zimbabwe è il posto che fa per noi.

 

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Parte 13, Harare e la dittatura di Mugabe

 

Usciamo dal moderno ufficio di frontiera che sono ancora le 9 del mattino, ci incamminiamo lungo l’unica strada, c’è molta sporcizia e i babbuini gironzolano liberi svuotando le rimanenze dai cartoni di latte e dalle lattine di bibite buttate per strada; sono curiose e mi ricordano la scimmia di un film di Celentano. Alba si siede all’ombra, vicino ad un distributore di benzina e tiene a bada gli zaini, io faccio un giro per capire se qualcuno conosce l’orario in cui passa il bus diretto ad Harare e proveniente da Lusaka. Come al solito mi vengono date informazioni tra le più fantasiose, ma comunque la maggior parte della gente mi fa capire che passerà qualcosa nel primo pomeriggio; penso che sia troppo tempo per aspettare in mezzo al nulla.

Mi indicano un grande albero come il posto dove sia il bus che le macchine private e i tir si fermano per dare passaggi. Ci sono un bel po’ di persone in attesa, io mi avvicino, ma in quanto bianco vengo subito assalito da un gruppo di ragazzi che pretendono di aiutarmi a trovare una macchina; nonostante il mio rifiuto loro insistono, quindi mi allontano e provo a fare l’autostop un po’ più in là, da solo e sotto il sole cuocente. Dopo vari tentativi finalmente si ferma un’auto, ci sono 3 ragazzi ben vestiti a bordo e 2 posti sono liberi. Il conducente mi conferma di essere diretto verso la capitale, io gli chiedo quanto vuole per un passaggio, lui mi risponde 10 dollari a persona. Perfetto, è il prezzo giusto, tanto quanto il bus. Il tizio però aggiunge: “ti avviso che non sto andando direttamente verso la capitale, a metà strada devo fermarmi in un villaggio a fare visita a mia zia”. “E va bene – gli rispondo – vorrà dire che andremo a trovarla pure noi la zia”. Salgo in macchina e andiamo al benzinaio a prendere Alba.

All’inizio stiamo un po’ sull’attenti, paese nuovo e instabile, informazioni aggiornate poche e 3 sconosciuti in macchina con noi; quando Alba chiede di fermarsi un attimo per andare in bagno (dietro un albero naturalmente), io resto nell’auto per essere sicuro che questi non scappino via; il conducente intanto le consiglia di non allontanarsi troppo, in quanto siamo ancora vicini al grande fiume Zambezi e non è da escludere che anche nei pressi della strada principale possa spuntare qualche animale pericoloso.

La diffidenza pian piano passa e ci rilassiamo, abbiamo quasi 350 chilometri da percorrere; ci rendiamo conto che siamo stati proprio fortunati, viaggiamo in una macchina comoda, perfettamente funzionante, ma soprattutto siamo solo 5 persone per 5 posti. Arriviamo al villaggio della zia, ci sono i bambini, un marito e tante mogli; ci offrono qualcosa e visitiamo le capanne all’interno. Il capo villaggio mi spiega che l’area è circondata da un recinto di ferro spinato in quanto in passato è successo di ricevere la visita di un leone. SPETTACOLO!!! Le cose più interessanti di un viaggio capitano sempre quando meno te l’aspetti e io decido che forse è arrivato il momento di regalare la mia borsa di materiale scolastico che ormai mi porto dietro da più di un mese. La consegno al capo, lui ringrazia, io mi raccomando che il tutto venga utilizzato e distribuito equamente nella vicina scuola; chissà se andrà davvero a buon fine oppure finirà in vendita al mercato, ma d’altronde è molto difficile scegliere il destinatario del mio piccolo regalo.

Si riparte, intanto facciamo amicizia con il conducente, si chiama Angelbert, è giovane, simpatico e a quanto pare anche lui non conosce gli altri 2 tipi in macchina: loro sono molto silenziosi ed hanno preso il passaggio un po’ prima di noi. Ride alla nostra reazione interessata riguardo al villaggio appena visitato, ci racconta che la zia in questione fa parte di una setta religiosa che permette ad un uomo di avere diverse mogli e dove vengono rifiutate tutti i tipi di cure mediche anche in caso di malattie gravi; questo ha portato alla morte di molti dei suoi parenti, ma suo padre era l’unico della famiglia ad essersi dissociato da questa credenza e quindi il nostro amico è stato educato a scuola e la pensa diversamente. Sta venendo da Lusaka, dove si reca ogni settimana per vendere cd masterizzati. Il suo lavoro di agente immobiliare non sta avendo molto successo in questo periodo, lo Zimbabwe è un paese con forti crisi e tensioni, quindi bisogna inventarsi qualcos’altro per campare.

Arriviamo ad Harare ed attraversiamo la città per accompagnare i 2 tipi in macchina: non sembra così povera, a prima impressione pare di essere una città moderna e organizzata, grattacieli alti e case niente male. Angelbert ci accompagna fin sotto la porta di un alloggio da noi scelto tramite la Lonely Planet e si offre di portarci in giro all’indomani; noi ci siamo divertiti molto a visitare il villaggio della zia e quindi ci vuole portare con lui a trovare parenti e amici in cambio di un contributo per la benzina. Ha proprio l’aria del bravo ragazzo e mi sembra la soluzione perfetta per l’inizio del nostro piccolo tour in Zimbabwe.

Dormiamo in una specie di Bed & Breakfast, ma senza breakfast, una casa con piscina, pulita e curata, peccato che la sera si va avanti con un solo generatore di corrente, quindi doccia fredda e si cucina a gas. Nelle vicinanze un piccolo centro commerciale con qualche supermercato: i bancomat funzionano benissimo e danno dollari freschissimi, si trovano generi alimentari di tutti i tipi. A quanto pare il paese è in ripresa e gli scaffali vuoti e le banche senza contanti sono storie di qualche tempo fa; peccato però che le strade siano completamente al buio perché non funziona l’energia elettrica e mancano le monete: quando si fa la spesa nei supermercati bisogna calcolare bene che il totale sia senza centesimi, altrimenti ti riempiono di caramelle oppure ti danno un foglietto con scritto il resto di cui si ha il credito; e poi c’è la multi valuta, quindi si paga in dollari e si ricevono pula, si paga in pula e si ricevono metà rand e metà dollari e così via: è un gran casino.

 

Passeremo una giornata intera con Angelbert: il nostro amico ci porterà al mercato dove faremo qualche acquisto, una breve visita alle sue figlie a scuola, pausa in un ristorantino locale insieme ad una sua amica (pagheremo solo 1 dollaro a testa per il pranzo tipico che è lo stesso di tutti i paesi dell’Africa meridionale e consiste nel solito granoturco fatto a pappina, tipo purè di patate bianco, che qui si chiama sadza, accompagnato con carne e verdura), andremo a trovare parenti e amici nei villaggi di capanne pieni di bambini entusiasti di incontrarci (i bambini in Africa sembrano sempre i più felici al mondo), ma soprattutto parleremo di politica e della disastrosa situazione del suo paese. Verranno fuori un sacco di storie raccapriccianti, di come il regime di Mugabe stia distruggendo lo Zimbabwe, del controllo dei voti durante le elezioni e le intimidazioni ed esecuzioni che si verificano, della criminalità che aumenta e la forte emigrazione verso il vicino Sudafrica. La riforma della terra ha fatto si che i bianchi venissero cacciati via dal paese (per la maggior parte erano di origine inglese), quindi lo Zimbabwe ha completamente troncato i rapporti con il Regno Unito, il quale concede asilo politico ai disertori. Anche i fratelli di Angelbert vivono in Inghilterra in regime di asilo e lui ci racconterà come in passato il paese sia stato molto benestante e di come si potesse facilmente viaggiare in tutto il mondo. Ci spiegherà che siamo tutti controllati e che le persecuzioni avvengono per la maggior parte nei confronti della popolazione ignorante e non su persone educate come lui. Gli inglesi sono odiati dal governo, se noi fossimo stati britannici probabilmente ci avrebbero già fermato diverse volte. Qui è proibito parlare male di Mugabe, ma pian piano il nostro amico si aprirà e scopriremo che è il figlio di un parlamentare all’opposizione: incredibile!!! Io non ci crederò molto e successivamente andrò a controllare via internet se c’è qualche parlamentare con lo stesso cognome che Angelbert ha registrato sul suo account in Facebook. Ebbene si, c’è. Sarà vero? Non saprei, comunque il nostro amico ha l’aria di uno non proprio poveraccio ed è molto intelligente ed acculturato. E allora ci racconterà di come nel parlamento ci siano troppi ministri, in quanto Mugabe deve accontentare un po’ tutti, e di come solo un paio di anni fa l’inflazione saliva talmente velocemente che lo stipendio bastava solo per pagare la benzina del viaggio di andata a ritorno per andare a ritirarlo in città.

Nel tardo pomeriggio lasceremo Angelbert e la sua disponibilità, lo avevamo conosciuto per caso e si è rivelato l’incontro più vero che abbiamo fatto finora con una persona del posto; il suo Zimbabwe è un paese quasi in fase di transizione (tutti aspettano la morte di Mugabe) e i cambiamenti sono così veloci che una cosa detta oggi potrebbe non avere nessun valore domani.

Ad Harare siamo rimasti ancora un giorno a girovagare per il centro: la città è molto grande e bella, sembra la più ricca ed organizzata mai vista in questo viaggio, qualche museo, il parco, i centri commerciali, le persone ben vestite e per niente invadenti. Sembrerebbe quasi una città nordamericana se solo la sera non fossimo costretti a camminare al buio completo e con le torce accese. E’ difficile da immaginarlo: grattacieli alti e moderni, strade larghe e ben asfaltate, banche dappertutto, ma niente luce. Si vede proprio che qualche anno fa doveva essere un paese benestante questo Zimbabwe. Una sera in un mini teatro tenda assisteremo ad uno spettacolino interamente basato sull’attuale situazione politica del paese: con le dovute maniere e la dovuta censura naturalmente, ma che dimostra un buon movimento culturale presente nel sottosuolo di questo paese.

 

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Parte 14, Zimbabwe, viaggio verso le cascate Vittoria

 

In Africa ho notato diverse volte che non sono molto bravi in matematica: se qualche volta hanno provato a fregarci nel momento di pagare il conto, devo ammettere che in 2 o 3 occasioni si sono sbagliati a nostro favore; ed è successo anche quando abbiamo fatto il check out dall’alloggio di Harare. E’ che proprio funziona tutto un po’ così, senso dell’organizzazione zero.

E’ mattina presto, prendiamo un taxi che ci porta ad un grande albergo della città: oggi viaggeremo con un bus gran turismo coi fiocchi che collega i 2 hotel di Harare e Bulawayo. Finalmente uno spostamento comodissimo, ne avevamo proprio bisogno, in 6 ore raggiungiamo la seconda città dello Zimbabwe, dopo diverse soste ai numerosi posti di blocco che popolano il paese (è proprio una nazione sotto controllo questa).

A Bulawayo restiamo solo una notte, troviamo una stanza situata vicino ad un campo di cricket; vorremmo andare al Parco Nazionale Matobo per vedere le pietre in bilico, ma davvero non sappiamo come arrivarci, si trova ad una trentina di chilometri da qui ed è abbastanza grande da richiedere una macchina per girarlo.

La città è grande, ma molto più rilassata rispetto ad Harare, non vediamo turisti e nelle strade sono in corso i festeggiamenti per una partita di calcio; io intanto chiacchiero con un tizio, gli dico che sto cercando una macchina per il giorno seguente e lui si offre per accompagnarci al parco con la sua auto in cambio di un contributo benzina di 20 dollari: che dire, abbiamo fatto così con il nostro amico Angelbert e ci siamo trovati benissimo, quindi perché non riprovare? Si sta rivelando più facile del previsto viaggiare in Zimbabwe. Tra l’altro Masvinu (questo è il suo cognome) ci verrà a prendere anche in serata per uscire a bere qualcosa: finiremo in un piccolo bar pieno di gente e con qualche schermo tv, niente di speciale, ma mooolto locale; resterà comunque una delle pochissime serate in cui siamo usciti in Africa.

In mattinata lasciamo la stanza, ma anche gli zaini che verremo a riprendere più tardi, ci dirigiamo verso la stazione ferroviaria e, dopo una fila durata quasi un paio d’ore, riusciamo ad acquistare 2 biglietti per il treno notturno diretto alle cascate Vittoria; come già accaduto per il viaggio sul treno mozambicano i tagliandi non si possono acquistare con troppo anticipo, perciò si trascorre il tempo a fare le file.

Masvinu viene a prenderci con un regolare ritardo di una mezzoretta buona e ci dirigiamo subito ai Matopos. Porterà anche i suoi figli e, appena giunti all’entrata del parco, scopriamo che non può o non vuole pagare il biglietto, che è anche abbastanza caro: ha fatto il furbo l’amico, ha incontrato noi bianchi e si è portato con sé la famiglia per approfittarne un po’; in qualche modo ci metteremo d’accordo con la biglietteria per uno sconto e noi pagheremo la differenza. Stiamo in giro per il parco qualche ora, è grande, intorno a noi le famose rocce in equilibrio, scenari di granito e in alcune grotte le pitture del popolo San antiche più di 20000 anni. Il parco Matobo è considerato la casa spirituale dello Zimbabwe, ma noi non avremo il tempo necessario di apprezzarlo appieno: Masvinu non vuole perdere per nessun motivo la partita di calcio domenicale, quindi andiamo via.

Ritorniamo a Bulawayo, lasciamo Alba a passeggio in centro ed io e Masvinu andiamo prima a casa sua a mangiare il solito piatto tipico africano (la sadza) e prendere le bandiere da sventolare, poi dritti verso lo stadio di calcio; anch’io non voglio perdermi la partita!!! Lungo il tragitto diamo passaggi a molte persone, naturalmente Masvinu si fa pagare da tutti, ed arriviamo davanti allo stadio che mancano pochi minuti all’inizio del match: una grande confusione davanti al cancello, pare che l’impianto sia troppo pieno e non fanno entrare più nessuno; i sostenitori sono arrabbiati, spingono contro le forze dell’ordine e ad un certo punto sfondano il cancello di entrata. Io mi ritrovo nella mischia, sto con la bandiera della squadra ospite in mano, provo ad inserirmi nel gruppone ed entrare, ma appena la polizia con i cani inizia a caricare, non me la sento di continuare e quindi torno indietro; sono l’unico bianco, perciò facilmente individuabile, probabilmente sarei stato un arresto eccellente per loro. Ne saranno entrati due o trecento, incluso il mio amico Masvinu che ho perso di vista, è sorprendente come in una nazione così severa e sotto stretto controllo delle forze dell’ordine, la gente sfondi i cancelli di uno stadio con una certa facilità ed anche senza tanta cattiveria, tutti sorridono e sembra un gran bel divertimento: mi dà l’impressione di tanta spensieratezza e poco attaccamento alla vita, se va bene si entra, altrimenti t’arrestano, nessuno si pone veramente il problema,si vive alla giornata, questa è Africa.

Ad ogni modo approfitto del passaggio di un’auto dall’aria importante che sta per entrare nello stadio, chiedo ed ottengo di occupare l’unico posto vuoto sul sedile posteriore, ed eccomi passare regolarmente con tanto di biglietto da 3 dollari dagli stessi cancelli ripristinati e stavolta aperti solo per noi nella macchina (le altre persone resteranno fuori). Subito c’è il fischio d’inizio, lo stadio è pieno, ci saranno state 4-5000 persone, io cerco di starmene in un angolo tranquillo, ma presto ritrovo Masvinu, che mi porta in curva con lui e i suoi amici. Bella la partita, alla fine del primo tempo molti si voltano e pisciano all’aperto, noi facciamo il giro dello stadio per raggiungere l’altra curva e prendere posto dal lato in cui la squadra da noi supportata attaccherà nella ripresa: non ho visto un altro bianco per tutta la durata del match, ma non mi sono sentito per niente in pericolo, alcuni facevano battute, altri erano curiosi della mia macchina fotografica o del fatto che anch’io sventolassi la bandiera della Dinamo; direi che non potevo passare inosservato, tante attenzioni, ma niente pericoli. SPETTACOLO!!! Mi ha sorpreso un po’ l’assenza delle vuvuzela, le famose trombette che risuonano continuamente negli stadi africani, qualcuno mi ha spiegato che non vanno di moda in tutte le nazioni e sono molto più frequenti in Sudafrica. Alla fine il match lo abbiamo vinto noi, che insieme a quasi tutto lo stadio sostenevamo stranamente la squadra ospite seconda in classifica e proveniente dalla capitale Harare. Dopo la partita Masvinu mi riporta all’alloggio dove Alba mi sta aspettando, prendiamo gli zaini e ci accompagna in stazione per il saluto finale.

Attendiamo un bel po’, prepariamo qualche panino per cena e io chiedo ad un funzionario di passaggio a che ora il nostro treno sarebbe giunto alle cascate Vittoria; e la sua risposta qual è? “Non si può dire di preciso, dipende da quanti elefanti troveremo sui binari durante il tragitto”. SPETTACOLO!!! E’ sempre interessante fare un viaggio in treno, ma questa volta sarà in notturna ed in un paese non proprio dei più tranquilli in questo momento; in molti ce lo avevano sconsigliato. Che dire: avevamo prenotato il nostro scompartimento privato con 2 cuccette, il treno è partito puntuale, la notte ci siamo chiusi a chiave dentro, eravamo ancora una volta gli unici bianchi in tutto il convoglio, treno vecchio e abbastanza zozzo, non ci sarà luce per tutta la notte (addirittura dovrò prestare la mia torcia al controllore che altrimenti non sa come muoversi su e giù per i vagoni), ma nessun pericolo, tutto tranquillo.

Alla fine lo Zimbabwe che sembrava il posto più spaventoso da visitare si è rivelato il meno problematico, gente brava, molto disponibile e pochissimi altri viaggiatori incontrati.

 

Alle 9 di mattina giungiamo alla stazione di Victoria Falls, intorno a noi strade pulite, hotel di un certo livello, negozi di souvenir e tante scocciature da parte degli zimbabwani per strada che cercano di venderti l’impossibile. Siamo di nuovo vicino al fiume Zambezi, i facoceri camminano liberi per le strade, ma questo è il posto più turistico d’Africa e ci sono decine e decine di attività e tour organizzati in offerta, un bombardamento continuo. Siamo in Zimbabwe, ma non sembra lo Zimbabwe, le cascate Vittoria sono una realtà a se stante, una cosa a parte, addirittura troviamo anche un ufficio postale funzionante. Si nota comunque la crisi profonda del paese, è pieno di strutture ricettive, ma non c’è quel movimento che uno si aspetterebbe da un posto così; la maggior parte dei turisti ha paura di venire in Zimbabwe e perciò visita le cascate dall’altro lato del fiume, in Zambia.

Alloggiamo per 4 notti in un campeggio pulito e con piscina, all’interno di una tenda equipaggiata con lenzuola e materassi, finalmente niente sveglia la mattina presto, cazzeggiamo tanto, internet, assaggio la carne di coccodrillo, ma soprattutto entriamo nel parco a visitare le maestose cascate Vittoria il giorno del compleanno di Alba: SPETTACOLO!!! Camminiamo tra le varie stradine, una statua del grande Livingstone fa da guardia e le apprezziamo da diversi punti, talvolta bagnandoci con gli schizzi; nel pomeriggio si presenta anche un mini arcobaleno. La portata è al minimo e infatti per una buona metà dello strapiombo non c’è acqua, la stagione delle piogge è appena cominciata e ci vorranno 2 o 3 mesi affinché il fiume Zambezi inizi a riempirsi così tanto da bagnare completamente chi visita le cascate. Lo scenario è comunque impressionante.

Durante il nostro soggiorno andremo a visitare il famoso hotel Victoria Falls, mangeremo un hamburger ad un bar nei pressi del ponte che attraversa il fiume (osservando chi fa bungy jump, io stavolta non mi butterò), osserveremo chi fa lo swing da un lato all’altro di una gola dello Zambezi appeso ad una corda, qualche fast food di troppo e finalmente troveremo un po’ più in là un mercato non turistico, tanto per sentirci di nuovo in Africa.

 

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Parte 15, Rafting da paura e ripartenza verso Kasane e il Chobe National Park

 

Nonostante la località sia molto popolare e ben organizzata non rinunceremo ad una vista delle cascate Vittoria un po’ più alternativa: un pomeriggio ci uniamo ad una coppia di viaggiatori anglo-australiana in macchina e ci incamminiamo dall’altro lato della recinzione, saltando da una roccia all’altra sul fiume Zambezi, fino a raggiungere l’orlo della cascata più esterna. Sarà una bella emozione e tanta adrenalina, abbiamo un punto di vista privilegiato, sotto i nostri piedi l’acqua che si getta giù in caduta libera, restiamo lì fino a quasi buio; sottolineo che nel fiume ci possono essere coccodrilli ed ippopotami, anche se è un po’ raro trovarli in presenza di forti correnti.

Le cascate Vittoria sono uno di quei posti al mondo da vedere prima di morire e noi abbiamo deciso di provarci, dedicando una giornata intera alla più popolare delle attività, il rafting nel fiume Zambezi: a quanto pare muoiono “solo” 1 o 2 persone all’anno, quindi abbiamo buone possibilità di ritornare vivi, specialmente se pensiamo che è uno sport molto commerciale da queste parti. C’è una concorrenza spietata tra i vari operatori e noi riusciamo a trattare bene il prezzo, scegliamo uno che parla italiano e che per un periodo ha fatto rafting sul fiume Lao in Calabria, dove io ero stato qualche anno fa; lui mi aveva anche promesso di farmi provare la sua canoa singola per un tratto del fiume, ma le promesse in Africa, si sa, volano, quindi dovrò rimandare ad un’altra volta questo mio desiderio.

Il percorso consiste in 21 rapide, molte di quarto e quinto livello, a me basteranno le prime 3 per rompermi il naso; eppure avevo già fatto rafting diverse volte in passato, ma questa esperienza è stata la più bella, la corrente è molto forte, siamo finiti in acqua diverse volte ed all’inizio ho quasi avuto la sensazione di affogare. Inoltre nel fiume ci sono i coccodrilli, ma gli istruttori ci assicurano che vista la vicinanza con le cascate, sono presenti solo quelli di dimensioni piccole, in quanto sono gli unici a riuscire a nuotare con una corrente così forte, e quindi non pericolosi… bene, ora mi sento più tranquillo. Anche Alba non è stata un grande esempio di coraggio nel rafting: andavamo con 2 gommoni da 6 o 7 persone ciascuno, inizialmente lei si è voluta unire con me nell’imbarcazione destinata a prendere le correnti più difficili, dopo la seconda rapida è caduta in acqua ed ha subito chiesto di cambiare barca e andare in quella più facile.

Le cascate Vittoria sono state il giro di boa del nostro viaggio in Africa, sono passati 50 giorni dalla partenza e siamo esattamente a metà strada. Abbiamo deciso di fermarci qualche giorno in più per riprendere l’energia giusta e pianificare bene il resto dell’avventura. D’ora in poi la nostra Africa avrà un aspetto diverso, viaggeremo in paesi non più così poveri come quelli appena visitati, ma d’altro canto avremo molte più difficoltà negli spostamenti, in quanto sia il Botswana che la Namibia sono nazioni praticamente deserte: 1,6 milioni di abitanti la prima, poco più di 2 milioni la seconda, nonostante abbiano entrambe un territorio 2 e 3 volte più vasto rispetto all’Italia.

Siamo alla continua ricerca di informazioni utili e vorremmo trovare un fuoristrada a noleggio per muoverci, ma non sarà cosa facile. Abbiamo trascorso un paio di serate in un vicino ostello per scambiare 2 chiacchiere con altri viaggiatori (nessuna traccia di italiani naturalmente) e 2 ragazze svizzere ci hanno passato un paio di recapiti utili di compagnie namibiane che affittano fuoristrada a prezzi non proibitivi. Molti dei viaggiatori conosciuti stanno in giro diversi mesi e si condividono esperienze e consigli; una coppia di inglesini in particolare pare non essere stata proprio fortunata: hanno cominciato il viaggio nel corno d’Africa dove lui si è preso una brutta malaria (nonostante facesse la profilassi) e poi in Tanzania sono stati rapiti in un taxi autorizzato e portati in giro ai vari bancomat, costretti a prelevare i contatti dalle carte di credito in loro possesso; sembravano abbastanza scioccati, anche questa è Africa.

Ripartiamo da Vittoria Falls pronti ad affrontare la seconda parte del nostro viaggio, siamo di nuovo in forma, freschi, lavanderia appena ritirata; fino alle ultime ore i ragazzi per strada non ci mollano: ad ogni angolo c’è sempre qualcuno che ti ferma e prova a venderti qualcosa; l’articolo più diffuso sembrano essere le ormai vecchie banconote dello Zimbabwe in disuso, quelle con tanti zeri (ad Harare le avevamo trovate anche per terra al mercato). Lasceremo lo Zimbabwe senza aver provato l’esperienza tanto pubblicizzata di stare a contatto con i leoni ed accarezzarli: ci sono un paio di centri nel paese che pubblicizzano questo progetto di riabilitazione dei felini, ma a me sembra solo business in puro stile zoo, quindi niente gita coi leoni.

 

Prendiamo un passaggio con 3 ragazzi sudafricani di Città del Capo, conosciuti durante il rafting e ci dirigiamo verso Kasane, in Botswana. Anche loro si raccomandano con noi di non andare nei quartieri neri una volta giunti in Sudafrica, questa storia del razzismo ormai sta diventando un ossessione direi. In strada una specie di autovelox ci sorprende ad alta velocità ed uno dei nostri amici se la caverà con una mancetta da 10 dollari al poliziotto di turno. Alla frontiera ci fanno disinfettare piedi e macchina, non paghiamo niente per il visto e appena entrati in Botswana un cartellone pubblicitario ci dà il benvenuto sottolineando la lotta del governo verso qualsiasi forma di corruzione; e infatti il Botswana pare sia il paese meno corrotto d’Africa, siamo entrati in un’altra dimensione del nostro viaggio.

Arrivati a Kasane ci fiondiamo verso l’ufficio informazioni turistiche; credo che in tutti i viaggi fatti nella mia vita non abbia mai trovato un accoglienza così efficiente: i depliant promozionali che ci vengono offerti sono quasi dei book fotografici, alta la definizione delle immagini, ci sono un paio di computer a disposizione per la navigazione in internet e la signorina di turno si mette a completa disposizione per aiutarci a trovare un alloggio, l’agenzia giusta per fare un’escursione nel vicino parco Chobe, addirittura telefonerà per noi ad un paio di autonoleggi in Namibia, dei quali mi ero procurato i contatti; ma niente da fare, trovare una macchina che vada bene per i nostri gusti e tasche pare sia un’impresa.

Troviamo una stanza privata molto bella, ma anche la più cara di tutto il viaggio; lo sapevamo, fa parte delle scelte politiche del Botswana non rendere il turismo accessibile a tutti e riservare i grandi parchi ad una nicchia di clienti che abbiano soldi da spendere. Salutiamo i nostri amici sudafricani, ce ne stiamo un po’ in centro città per capire quale sarà il nostro destino a questo punto del viaggio, ci sono un paio di zone commerciali con supermercati in stile occidentale dove facciamo la spesa e alcune agenzie di viaggio che offrono escursioni nel vicino parco. Kasane è una cittadina piccola, ma offre molti servizi e si trova in una posizione strategica al confine tra 4 paesi: Zimbabwe, Zambia, Namibia e, appunto, Botswana.

Il giorno seguente siamo di nuovo all’ufficio informazioni, sempre molto gentili ed efficienti, in Italia ce li sogniamo uffici del turismo così; riprovo a contattare le compagnie di noleggio, ma niente, è difficile organizzarsi, quindi ci rassegniamo all’idea di dover appoggiarci ad un’agenzia per fare una semplice escursione pomeridiana al parco Chobe e provare il giorno seguente a prendere un paio di bus al mattino presto per raggiungere Maun, centro turistico principale del Botswana e punto di partenza per le escursioni nel famoso Delta dell’Okavango; non credo si possa visitare altro in questo paese se non si è ben organizzati, perciò il piano è di proseguire poi direttamente in Namibia con la speranza di riuscire a noleggiare una buona auto ed essere finalmente indipendenti.

Camminiamo sulla strada principale alla ricerca dell’operatore giusto per il nostro mini tour pomeridiano al Chobe National Park, entriamo in un’agenzia, poi in un’altra, siamo di nuovo stanchi, sentiamo che in Botswana non riusciremo a muoverci in completa libertà. Ma ecco che ad un certo punto una macchina si ferma dall’altro lato della strada; ci metto pochi secondi a focalizzare il tutto: sono le nostre amiche venete conosciute in Zambia!!! Non ci possiamo credere!!! Dopo 2 settimane e oltre 1000 chilometri di distanza!!! SPETTACOLO!!! Questa si che è una bella coincidenza. Sono in 2, Anna e Piera, la terza amica è ripartita per l’Italia qualche giorno fa. Ci invitano all’istante per un safari con il loro fuoristrada da poco affittato ed ecco che il nostro umore cambia completamente, non è neanche mezzogiorno che ci ritroviamo all’interno del Parco Nazionale Chobe con una macchina privata, completamente indipendenti, con le nostre amiche e senza nessuna guida che debba dirci quando, dove e perché. Fantastico!!!

Facciamo un safari costeggiando il fiume Chobe, il paesaggio è molto verde, la vista si perde all’orizzonte, vediamo tanti elefanti, buffali, antilopi, le tartarughe, i babbuini; c’è una carcassa di non so quale animale, speriamo di avvistare un felino… eccole: le leonesse. Ci fermiamo per più di mezz’ora a fotografarle in tutte le posizioni, dormono, poi sbadigliano, si appostano scrutando le possibili prede all’orizzonte. Siamo veramente soddisfatti di come sia andata la giornata, ma il tempo inizia a perturbarsi ed è meglio iniziare a rientrare. In serata un’ottima cena in 4 al ristorante del nostro alloggio, con tanto di acquazzone e appuntamento per l’indomani con le nostre amiche: abbiamo deciso di proseguire insieme fino a Maun attraversando il parco Chobe da un estremo all’altro e pernottando all’interno.

 

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Parte 16, Esplorando i grandi parchi del Botswana

 

Ci godiamo il lettone comodo e sveglia con calma, anche perché Anna non è proprio una mattutina.

E poi meglio approfittare in pieno della bella stanza che abbiamo, non si sa se e quando ci ricapiterà; abbiamo focalizzato come il Botswana punti decisamente su un turismo diverso rispetto a quanto visto finora: ieri a cena c’erano persone vestite per bene e famiglie con bambini, tutti in vacanza programmata e safari ben organizzati.

Anna e Piera passano a prenderci, ci fermiamo al supermercato per acquistare le provviste necessarie, cambiamo la macchina, il pieno di benzina e a metà mattina siamo di nuovo all’interno del Chobe. Ripercorriamo il lungofiume: tra gli altri avvistiamo 2 leonesse che proteggono sotto un albero la testa di un buffalo (probabilmente ucciso la sera prima), ma ormai non diamo più la stessa importanza delle prime volte; le due venete vorrebbero vedere un leopardo o il rinoceronte, animali ben più difficili da avvistare (noi per fortuna li abbiamo già incontrati nelle settimane passate in Zambia e Sudafrica). Vediamo anche il kudu, il coccodrillo, tante specie di uccelli, paesaggi mozzafiato eccetera. La strada ci porta ad uscire dal parco e rientrare un po’ più a sud, incontriamo pochissime auto e qualche lavoro in corso perenne; è incredibile come la gente possa vivere e lavorare qui, nel bel mezzo del niente.

Arriviamo a Savuti, area centrale del parco e zona dove pernotteremo, mostriamo alla reception il pagamento effettuato in mattinata all’ingresso del parco e incontriamo altri turisti, tutti ben organizzati e in sicurezza, con il fuoco acceso e le tende sul tetto della propria auto; noi 4 invece, avevamo pensato bene di dormire in macchina. Devo dire che a primo impatto le due “tardone” (scherzosamente si definiscono così) sembravano turiste ben organizzate; e sicuramente lo sono, ma non disdegnano le avventure un attimino più estreme: dormire in 4 in un’auto con gli animali della savana che ti gironzolano tranquillamente intorno non sarà proprio il massimo della vita!!! E per fortuna non andrà così: intorno a noi ci sono delle mega tende in costruzione, pare proprio un campo safari che sta per nascere, non ci pensiamo molto, utilizziamo il bagno pubblico prima che sia buio e parcheggiamo l’auto proprio davanti alla tenda che abbiamo deciso di prendere in prestito; portiamo gli zaini, le torce e i sacchi a pelo, le provviste alimentari e ci chiudiamo dentro: cena, cruciverba di Anna e a nanna, io dormirò divinamente, le signorine un po’ meno, svegliate da qualche animale a caccia che gironzolava intorno alla nostra dimora improvvisata.

In mattinata spariamo, pare non si sia accorto nessuno del nostro movimento, continuiamo il nostro safari in completa autonomia, sul nostro cammino le zebre, gli elefanti… giungiamo all’uscita del Chobe e dopo un po’ di strada ci ritroviamo all’interno di un’altro parco: la riserva Moremi, parte dell’immenso delta dell’Okavango; prima di entrare acquistiamo degli snack ad un chioschetto costruito nel bel mezzo del niente!!! Ma non esploreremo la riserva come meriterebbe, Piera ed Alba sono abbastanza stanche e inoltre arriveremo di fronte ad un fiume che Anna proprio non se la sentirà di attraversare: non ci fidiamo della profondità e per paura di restare incastrati con l’auto ritorniamo per la stessa strada e usciamo dal parco; vedremo ippopotami, vari tipi di fiori, uccelli, scoiattoli… ma la visita alla Moremi non sarà completa e dovremo rimandarla per un’altra volta; quanto meno siamo riusciti a non pagare l’ingresso.

 

Anna e Piera si fermano di strada ad un negozio di souvenir/artigianato e alla fine giungiamo a Maun, principale città turistica del Botswana. Piccolo giro tecnico per visionare alcuni alloggi ed alla fine ne scegliamo uno che ci offre tende con letti molto comodi, biancheria e bagni puliti, piccola piscina e mega colazione inclusa a prezzi non esageratissimi per queste zone. La squadra ormai è rodata e le tardone ci chiedono di rimanere insieme ancora qualche giorno per esplorare i parchi vicini; il team pare funzionare proprio bene: Anna il pilota, Alba la cuoca, io il navigatore, Piera la scovatrice di animali (ma anche con l’aiuto mio e di Alba direi).

Alla fine resteremo a Maun per ben 6 notti, due giorni saranno di completo relax (dolce far niente in piscina, internet e giro in città). Già in Zambia e Zimbabwe avevamo cominciato a cucinarci da soli, ma ora è diventata proprio un’abitudine; inoltre con i supermercati ben forniti che il Botswana offre ed Alba nelle vesti di cuoca è ancora più facile. Ne avevamo proprio bisogno, un posto dove stare fermi, safari comodi con partenza di mattina e ritorno entro la sera stessa; e niente più sveglie proibitive, gli incubi del Mozambico sembrano lontanissimi ormai.

A Maun una sera abbiamo beccato di nuovo un forte temporale, era già successo anche in Zambia, in Zimbabwe e a Kasane; ma è sempre un evento incredibile, da queste parti i lampi si vedono marcatissimi nel cielo. Mi ricordo che un giorno ad Harare, di ritorno in macchina con Angelbert, durante un acquazzone si distinguevano benissimo le luci bianche dei lampi tra le nuvole. Mai visti così prima d’ora. SPETTACOLO!!! Il manager del camp di Maun mi ha raccontato di quando ha visto un lampo scaricarsi proprio a pochi metri da lui, dice che è normale e le probabilità di essere colpiti sono davvero minime, da non preoccuparsi insomma; incoraggiante, questa è Africa.

Il camp dove alloggiamo è abbastanza grande e c’è un viavai di turisti e non: vicino a noi una tenda piccolissima, all’interno un viaggiatore inglese che sta risalendo tutta l’Africa da solo e se ne sta in giro per il mondo per 2 anni. Un po’ più in là un gruppo di ragazzi giovani sudafricani in cerca di lavoro come pilota d’aereo: qui sono diffusissimi i piccoli aerei privati che portano i turisti nel bel mezzo del Delta, ma a quanto pare bisogna sbattersi per alcuni mesi prima di ottenere un contratto di lavoro; il sogno di questi giovani piloti è quello di completare le ore di volo necessarie per poi poter accedere alle grandi compagnie ed ottenere un contratto oneroso per pilotare gli aerei di linea. Una sera mi hanno mostrato un video, fatto con il telefonino il pomeriggio stesso, di un volo sopra il delta dell’Okavango: quando l’aereo è atterrato sulla piccola striscia di pista nel bel mezzo della natura, c’erano sull’asfalto dei leoni che mangiavano tranquillamente la propria preda, non curandosi minimamente del velivolo; anche questa è Africa. SPETTACOLO!!!

Una mattina stavamo tranquilli in piscina quando vediamo il solito manager del camp sparare con un fucile, io mi avvicino un po’ troppo alla zona interessata ed egli mi dice di stare alla larga. Dopo un po’ mi fa vedere il serpente velenoso che aveva appena ucciso; e questa non è forse Africa?

Ad ogni modo con base a Maun effettueremo 3 escursioni interessanti: due con il fuoristrada di Anna e Piera ed in completa autonomia, una organizzata in mokoro, tipica imbarcazione per navigare i canali del delta. Per la prima uscita indipendente dedichiamo una giornata intera all’esplorazione della Makgadikgadi Pans Game Reserve, riserva poco battuta e con grandi aree di saline, savana, praterie e foreste di palme. Ormai siamo immersi nell’esplorazione vera e propria, percorriamo centinaia di chilometri ed è veramente difficile incontrare qualcuno. Queste piste andrebbero percorse con spedizioni ben organizzate o quanto meno bisognerebbe avere gli strumenti giusti (navigatore, bussola, nozioni di emergenza eccetera); eppure noi ce la caviamo lo stesso con un po’ di fiuto ed unico riferimento la direzione del sole, sapendo semplicemente che sorge ad est e tramonta ad ovest. Naturalmente ci siamo persi e non raggiungeremo mai alcuni famosi alberi di baobab consigliati dalla guida, ma comunque siamo riusciti ad attraversare buona parte del parco, abbiamo avvistato interi branchi di zebre (probabilmente gli ultimi della recente migrazione stagionale), gli orici, gli gnu, ma soprattutto abbiamo raggiunto i tanto desiderati pan di sale: li attraverseremo per un po’, ma non appena ci siamo resi conto che diventavano sempre più umidi, causa le recenti piogge, non abbiamo azzardato più per paura di restare incastrati con l’auto e non essere visti per chissà quanti giorni, quindi ci siamo diretti verso l’uscita più vicina del parco. Tutti gli anni sugli immensi pan di sale ci sono turisti che si perdono o muoiono isolati, i pan sono ipnotizzanti: orientamento, ragione e senso comune svaniscono; ci vogliono mappa, bussola, e gps, bisogna sempre viaggiare in gruppi, più sicuro esplorarli con una guida.

Per la seconda gita fuori porta ci dirigiamo verso lo Nxai Pan Park, più piccolo del primo e che prendiamo un po’ sottogamba: infatti date le dimensioni ridotte diamo per scontato che sia facile girarlo, quindi prestiamo poca attenzione ai pochi punti di riferimento e ci perdiamo completamente, stavolta neanche la direzione del sole ci aiuterà. Passiamo qualche ora per cercare la via d’uscita e alla fine con un po’ di fortuna imbocchiamo la strada giusta per il ritorno a Maun, con un po’ d’amaro in bocca: tolto un bell’elefante che beveva da una pozza d’acqua e qualche altro animaletto, non abbiamo visto granché. Per ben 2 volte abbiamo chiesto all’entrata indicazioni per raggiungere il pan principale ed abbiamo girato mezzo parco senza accorgerci che sul pan ci eravamo passati già diverse volte, ma era diverso da quello visto nel parco precedente, quindi semplicemente non ce lo aspettavamo così. In compenso prima di entrare al parco Nxai Pan ci siamo goduti la vista dei grandi Baobabs Baines, famosi per essere stati immortalati dall’avventuriero Thomas Baines a metà dell’800; pare che dopo 150 anni solo un ramo si sia rotto; belli ed imponenti, e sullo sfondo una grande salina.

 

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Parte 17, Delta dell’Okavango e 4 sprovveduti nel Central Kalahari

 

A cavallo tra le due escursioni in fuoristrada abbiamo dedicato una giornata all’esplorazione in mokoro di una delle attrazioni principali del viaggio: il Delta dell’Okavango, un ecosistema unico, complesso ed immenso, con i suoi 18 miliardi e mezzo di metri cubi d’acqua che si spargono ogni anno e vengono inghiottiti dalle sabbie del Kalahari, attraendo animali selvaggi ed una miriade di uccelli. Noi vedremo solo una minuscola parte del delta orientale, ci accompagnano per un tratto con una barca a motore che sfreccia velocissima tra i canali e poi tutto il giorno con la tipica imbarcazione locale (il mokoro appunto) guidata dal poler di turno. Navighiamo tra la fitta vegetazione, fiori, foglie, radici lunghissime e camminiamo a piedi su un isolotto; ma fa incredibilmente caldo: non basta coprirsi la testa e bagnarla di frequente, il sole picchia e questa gita sembra un suicidio; oltre ad alcuni elefanti a distanza, una carcassa di animale ricomposta giusto per mostrarla ai turisti, alcuni nidi enormi ed uccelli, non vedremo granché e nel primo pomeriggio non vediamo l’ora di ritornare alla base prima di svenire. Il Delta dell’Okavango meriterebbe qualche giorno in più e mi sono pentito di non averne esplorato il cuore con l’aiuto di un volo aereo, tra l’altro ho poi scoperto che se ne trovano di non troppo cari andando direttamente in aeroporto e bypassando le varie agenzie; alla fine la parte più divertente è stata il viaggio di ritorno con la barca a motore velocissima ed il forte temporale alle spalle con i soliti lampi che ci inseguivano. Da bravi turisti organizzati ci siamo lamentati con il biondino bianchissimo e scoppiato che ci aveva venduto l’escursione, sottolineando il fatto che a quelle temperature nelle ore più calde del giorno davvero si rischia di morire. E la sua giustificazione qual è stata? T-I-A: This Is Africa!!! Peccato però che l’escursione se la pagano a prezzi europei e non africani, solita risposta del cazzo direi.

 

Fin dall’inizio Anna aveva espresso l’idea di esplorare tutti insieme la Central Kalahari Game Reserve, l’area protetta più grande d’Africa, praticamente deserta, uno di quei posti completamente isolati e senza servizi che solitamente non si visitano durante una vacanza “normale”. Ma arrivati a questo punto io non ho proprio voglia di farmi sfuggire un’occasione simile, chissà se mai ci ritornerò in Botswana; potrebbe essere l’ultima vera avventura del viaggio, probabilmente la più estrema. Ormai siamo una piccola famiglia, le venete ci hanno letteralmente adottato, loro sono appassionatissime di animali e tutti gli anni esplorano posti diversi dell’Africa.

Ci prepariamo per bene, compriamo le provviste alimentari, raccogliamo informazioni varie, io nel ruolo di navigatore leggo le 2 o 3 guide che abbiamo a disposizione; ma niente più: lasciamo definitivamente la nostra base a Maun senza neanche una semplice bussola e ci avviamo verso una spedizione che andrebbe fatta almeno con un gruppo di altre macchine, per non parlare degli strumenti giusti che non abbiamo. Riprendiamo la solita strada percorsa nei giorni passati per la visita dei Pans, Alba capricciosa come sempre; solita fermata per la disinfestazione vicino le recinzioni veterinarie, reti lunghe centinaia di chilometri che tagliano il Botswana in lungo e in largo per non far attraversare gli animali da una zona all’altra, così da non far mischiare gli allevamenti agli animali selvaggi e viceversa; questo purtroppo ha determinato un blocco dei naturali flussi migratori causando la morte di migliaia di esemplari e critiche forti nei confronti del governo.

Ed eccoci entrare nel miraggio dei parchi africani: la Central Kalahari Game Reserve. Stavolta non sbagliamo strada come era successo ai Makgadikgadi qualche giorno prima; e per fortuna, visto che ogni volta che si commettono errori bisogna fare centinaia di chilometri extra per tornare indietro e riprendere la via giusta. In tutti i parchi visitati finora ci era sempre stato detto che era obbligatorio prenotare in anticipo, ma anche in questo caso ci presentiamo direttamente all’ingresso con la solita faccia tosta, paghiamo il solito ingresso e ci registriamo direttamente sul librone delle presenze come visitatori giornalieri (nonostante è nostra intenzione pernottare all’interno… un po’ incoscienti direi, ma proprio non ci piace programmare); all’entrata ci sono esposti i soliti teschi con i vari nomi degli animali morti.

Iniziamo con l’esplorazione della zona nord del parco, quella meno difficile chiamata Deception Valley. Chiediamo indicazioni all’unica macchina incontrata in tutta la giornata, una guida che accompagna una coppia di turisti: lui è uno di quelli un po’ convinti con il cappello da cowboy e ci dice che è già tardi per addentrarci se non abbiamo prenotato una piazzola per restare all’interno del parco di notte. Ma noi nel parco ci vogliamo restare e come, quindi entriamo pian piano nel cuore del Central Kalahari: a dire il vero ce lo aspettavamo molto più difficile, invece ci sono addirittura dei cartelli segnaletici abbastanza funzionali; inoltre siamo tutti ben concentrati, perciò non perdiamo mai i pochi punti di riferimento a nostra disposizione.

I paesaggi sono bellissimi, viste lunghissime all’orizzonte, ma non ci sono tanti animali. E’ un posto talmente isolato che anche nelle zone adibite a sosta per i visitatori spesso ci sono solo 2 o 3 piazzole (tra l’altro vuote). Vediamo i soliti orici, gli scoiattoli e vari animali adattati al deserto, ma il nostro obiettivo è quello di trovare il grande leone del Kalahari, difficilissimo da avvistare. Anna guida piano e noi 3 incollati al finestrino a cercare. Eccolo, lo avvisto proprio io: il leone del Kalahari!!! Bellissimo!!! Gli gironzoliamo intorno per un bel po’ e lo ammiriamo con la sua enorme criniera. Scattiamo un’infinità di foto. Poco più avanti troviamo anche alcune leonesse che dormono all’ombra di un albero. Possiamo ritenerci soddisfatti, la vista del solo leone vale l’intera visita della riserva.

Ci fermiamo in una piazzola sperduta prenotata da nessuno, Alba prepara la cena, io e Piera proviamo ad accendere il fuoco. A turno utilizziamo una specie di bagno attrezzato, poi mangiamo e a nanna, questa volta non ci sarò nessuna tenda in costruzione da prendere in prestito, ci toccherà stare stretti in macchina: Anna e Piera sui sedili, io ed Alba sul retro con dei materassini, intorno a noi la natura più selvaggia e nient’altro. SPETTACOLO!!!

All’indomani si riparte, proseguiamo verso sud, gli animali che avvistiamo non sono molti, finalmente incrociamo un’altra auto; la strada diventa sempre più sconnessa, sabbiosa e fastidiosa da percorrere: i dossi sono uno attaccato all’altro. Arrivati nei pressi di un ingresso in zona centro-ovest del parco cerchiamo il ranger di turno e chiediamo indicazioni sulle condizioni del terreno: Anna vorrebbe attraversare tutto il Central Kalahari ed uscire dall’ultima uscita a sud, ma per quanto mi riguarda è un’idea un po’ pazza; la stanchezza si fa sentire ed anche il ranger ci conferma che se continuiamo la strada diventerà sempre peggio e ci vorranno ore ed ore per percorrerla, sicuramente avremo bisogno di una notte in più da trascorrere all’interno del parco. Allora chiediamo se conosce una via non segnata sulle mappe che ci porti comunque verso sud, fuori dal parco. Il ranger ci indica una pista che costeggia la recinzione della riserva e dopo circa 200 km sbuca su una strada asfaltata del paese. 200 km significano almeno 5 ore, pare che le condizioni non siano impossibili e che qualcuno abbia utilizzato tale via “solo” una settimana fa. Solo? Cioè vuol dire che se ci blocchiamo nel mezzo del niente potrebbe essere che non passa nessuno per un’altra settimana e rimaniamo lì a morire di stenti? Non è un’idea molto entusiasmante, ma pare l’unico modo veloce per uscire dal Central Kalahari verso sud, quindi ci facciamo coraggio.

Sempre con il solito gioco delle tre carte, firmiamo l’uscita senza pagare il pernottamento né il secondo giorno di visita al parco. Inizia anche a piovere, i soliti lampi marcatissimi spaventano un po’, a tratti il tragitto è molto sabbioso, ma Anna cerca di non utilizzare mai la prima marcia 4x4, in quanto sarebbe l’ultima chance; ora ci sentiamo più che mai soli e abbastanza tesi. Verso la fine del tragitto finalmente incontriamo un essere umano, un uomo che in completa solitudine lavora nel bel mezzo del niente, spaventoso!!! Chiediamo indicazioni e ci perdiamo anche, per un attimo entriamo in panico; ma oramai siamo nei pressi di un villaggio abitato e finalmente possiamo chiedere informazioni alla gente del posto. Tiriamo un sospiro di sollievo e discutiamo dell’ennesima cazzata appena fatta; stavolta era proprio grossa, sarebbe bastata la più stupida avaria alla macchina per rimanere in mezzo alle sabbie del Kalahari a marcire chissà per quanti giorni prima che qualcuno se ne accorgesse. E’ buio quando troviamo un posto per dormire in un alberghetto di Kang con stanze abbastanza accomodanti. Ci accontentiamo di un freddo fish & chips take away, in quanto è abbastanza tardi ed i ristoranti sono tutti chiusi.

In piena notte succede un avvenimento straordinario: Alba resta bloccata all’interno del bagno della stanza. Proviamo a giocare con la serratura, ma niente da fare. Allora chiamo la reception e man mano arrivano i rinforzi con i mezzi più disparati (coltelli, cacciavite etc.). Alla fine la porta si apre, i ragazzi intanto si erano fatti delle gran risate ed io tipo film di Totò mi invento la storia della nostra prima notte di nozze andata in fumo per colpa di una porta del bagno che non si apriva. Mi hanno dato un assist troppo bello per non prenderlo al volo. Risultato: rimborso totale e dormita gratis in albergo. T-I-A: This Is Africa!!!

 

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Parte 18, In viaggio verso Windhoek e parco nazionale Etosha

 

E’ arrivato il momento dei saluti: Anna e Piera vanno a est alla ricerca dei rinoceronti; io ed Alba siamo diretti ad ovest, direzione Namibia, nonostante l’invito a seguirle ancora una volta. Gran bell’incontro questo con le amiche “tardone” venete, simpatiche, disponibili e di compagnia, 10 giorni di full immersion nei parchi del Botswana che mai avremmo pensato di vedere senza avere un fuoristrada. Abbiamo viaggiato in un paese nel quale avremmo avuto poche possibilità di muoverci, un posto di natura incontaminata, tante riserve naturali, zone off limit riservate all’estrazione dei preziosi diamanti che questa terra offre (e perciò interdette agli estranei), poca corruzione e anche un certo tipo di benessere rispetto agli altri stati africani. Scambio indirizzi e appuntamento a Venezia per il Carnevale dunque, a casa di Anna.

E ora? Come arriviamo in Namibia? Il prossimo bus diretto a Windhoek passa tra qualche giorno e Kang è un posto di passaggio senza attrazioni particolari da rimanerci ancora. Le nostre amiche ci lasciano ad un incrocio importante dove la fermata dei bus è il solito albero che aiuta a fare da ombra. Le persone in attesa ci dicono che in tarda mattinata dovrebbe arrivare un minibus proveniente dalla capitale Gaborone e diretto a Ghanzi, bisognerebbe dormire lì una notte e all’indomani cercare un altro bus che ci porti in frontiera; oppure si può optare per l’autostop, essere scaricati ad un incrocio e con un po’ di fortuna cercare un altro passaggio verso la Namibia. Anche in Botswana tutte le persone in attesa del bus provano la carta dell’autostop, bisogna fare la fila anche per chiedere un passaggio, ma non avvertiamo quella pressione che avevamo subito agli incroci degli altri paesi africani nella prima parte del viaggio. Ogni tanto si ferma qualche auto, gente che sale e gente che scende, come se fossero dei bus. Passano anche alcuni tir e una signora in attesa mi dice di fermare proprio gli autotreni, i quali sono tutti diretti in Namibia: siamo sulla Trans-Kalahari, un’arteria importantissima in Africa meridionale, che collega Johannesburg a Windhoek, attraversando il Botswana.

E’ già mattinata inoltrata, un po’ tardi per tentare di raggiungere la Namibia prima del tramonto, la capitale Windhoek si trova a poco più di 700 chilometri da qui, ma con un po’ di fiducia ci proviamo ugualmente. Dopo pochi tentativi riesco a fermare un tir che va nella direzione giusta: il conducente viaggia da solo, tratto un po’ il prezzo da pagare e per meno di 20 €uro siamo tutti e due a bordo, seduti comodi, io addirittura mi stendo sulla cuccetta della motrice. Studio un po’ l’autista, tipo di poche parole, ma mi convinco che possiamo stare tranquilli, gli offriamo i nostri snacks e addirittura riesco pure ad addormentarmi. Questo è davvero un modo di viaggiare comodi devo dire, magari avessimo fatto tutti gli spostamenti con gli autotreni. Peccato però che quasi verso la fine del nostro tragitto il conducente non riesce proprio ad evitare una delle tante mucche che attraversano la strada principale, inchioda le ruote del tir, Alba si spaventa, esce il fumo dai copertoni, ma il botto sarà inevitabile; solo pochi minuti e l’animale sanguinante emetterà l’ultimo grido prima di morire. Un episodio tristissimo. Subito arriva un funzionario del governo che si trovava in zona e prende nota dell’accaduto; siamo nuovamente pronti per proseguire, con il muso della motrice rotto, ma come se niente fosse. Anche questa è Africa!!!

Arrivati in frontiera paghiamo e salutiamo il nostro caro camionista, come d’accordi presi in precedenza non sarà lui a portarci in Namibia, dice che avremmo perso tempo per le sue lunghe pratiche doganali. Invece sbrighiamo velocemente le nostre di pratiche doganali e mi rimetto subito a cercare un altro passaggio verso la capitale: proveremo ad arrivare a Windhoek in serata stessa. Sarà un po’ più difficile questa volta, alcuni turisti a cui chiedo non si fidano, altri namibiani ci dicono di fermarsi a pochi chilometri da qui etc. Ma un poliziotto di frontiera mi chiama e mi indica un altro tir diretto verso la capitale, stavolta i conducenti sono in due, mi accordo velocemente ed eccoci a bordo di un altro grande autotreno. Nel momento in cui salgo la scaletta i due camionisti sudafricani notano subito la mia diffidenza e mi dicono che devo stare tranquillo, in Africa è una cosa normalissima, tutti arrotondano lo stipendio dando passaggi a tutti. Sarà un altro viaggio comodo, stavolta restiamo svegli e in guardia però, inizia a diluviare forte, i soliti lampi luminosissimi all’orizzonte e soprattutto si fa buio. Arriviamo a Windhoek che è sera inoltrata, i due insistono per accompagnarci sotto la porta di un ostello che avevo selezionato dalla mia guida e ci portano anche gli zaini davanti all’entrata; avevano un’aria poco affidabile, ma alla fine si sono rivelati gentilissimi, ringraziamo, paghiamo e saluti.

 

Un’altra giornata lunga, ma finalmente siamo in Namibia, per fortuna troviamo una stanza privata disponibile che si rivelerà bellissima e pulitissima, con tanto di bagno privato e sistemi avanzati per salvaguardare lo spreco di acqua e riciclare tutto ciò che è possibile. Nell’area comune un’ampia cucina ed anche una piccola piscina… e tanti altri viaggiatori intorno a noi. Non ci resterà che cenare al KFC, unico fast food rimasto aperto fino a tardi.

Windhoek si presenta ai nostri occhi come una piccola città tedesca, pulita ed organizzata, alcuni monumenti e musei più o meno interessanti ed un ufficio informazioni molto efficiente; quasi non si direbbe che siamo in Africa, anche se dopo il Botswana e i racconti di altri viaggiatori ce l’aspettavamo proprio così. Gironzoliamo un po’, pranzo al ristorante, visite varie e passeggiate nei centri commerciali, cerchiamo di ammazzare l’attesa: già da molti giorni siamo in contatto con un tizio che affitta fuoristrada attrezzati che forse ha ancora qualche mezzo a disposizione, ma ci ha chiesto di richiamare nel pomeriggio; tutte le altre agenzie di noleggio e piccoli padroncini non hanno disponibilità immediata oppure chiedono cifre proibitive. Il numero telefonico me lo aveva passato una ragazza conosciuta alle Cascate Vittoria e questa è davvero l’ultima spiaggia per riuscire a visitare la Namibia come si deve. Prendiamo un taxi collettivo (che sono macchine private a tariffa popolare, in quanto non esistono bus a Windhoek) e giungiamo a casa del tipo, un signore di una certa età, bianco naturalmente, sicuramente di origine tedesca; è poco gentile e diffidente nei nostri confronti, sembra la versione namibiana di Hitler. La macchina che ci aveva promesso a quanto pare tarderà a rientrare, lui cerca di appiopparci un’auto più vecchia, io insisto nel noleggiarne una più nuova allo stesso prezzo concordato via e-mail. Fa un po’ il furbetto “Hitler”, gioca un po’ come gli pare sui prezzi e le date di immatricolazione, ma ad ogni modo ci accordiamo come dico io, circa 60 €uro al giorno per una Toyota 4x4 con tenda e materasso apribili montati sul tetto, 2 ruote di scorta, doppio serbatoio di benzina, frigo, bombola con fornellino, tavolino, sedie, piatti, padelle eccetera. Non potevamo chiedere di meglio.

Approfittiamo di un passaggio per tornare in ostello e all’indomani ci vengono a riprendere: siamo felicissimi, pronti per ripartire con il nostro nuovo fuoristrada: è molto spazioso, ci sarebbe stato posto anche per 4 persone, visto che si poteva montare una tenda extra. Facciamo il pienone di benzina (ben 120 litri) e ci fermiamo ad un supermercato: questa volta compriamo l’impossibile, ci riforniamo di provviste alimentari per una settimana.

Siamo di nuovo in strada, il nostro viaggio acquista ancora un’altra dimensione: completamente autonomi, su strade asfaltate e molto scorrevoli. Ci fermiamo in una delle numerose aree picnic sparse per la Namibia, pranziamo al volo e di nuovo in strada verso nord, quella che porta al Parco Nazionale Etosha. Per la prima notte ci fermiamo ad un campeggio in collina ben attrezzato, poco prima dell’entrata al parco, bagni puliti, piazzole molto distanti l’una dall’altra e panorama mozzafiato, un posto spettacolare. Alba prepara la cena, il frigo nel retro dell’auto pare raffreddi benissimo, io penso ad aprire la tenda che si rivelerà comodissima. Intanto all’orizzonte un bel tramonto, mangiamo e a nanna presto nel silenzio più assoluto e completamente circondati dalla natura.

Riprendiamo con le svegliatacce all’alba, la mattina presto chiudiamo la tenda e ripartiamo, dopo pochi chilometri siamo già all’entrata del parco più famoso della Namibia. Sono appena passate le 7 che già ci ritroviamo catapultati nel primo safari namibiano e in completa autonomia: il parco pare subito molto facile da girare, le strade non sono asfaltate, ma ben battute, i segnali sono abbastanza precisi. Ci sono molti turisti in giro ed è tutto ben organizzato, più o meno come al Kruger Park in Sudafrica. Giriamo l’Etosha per 2 giorni pieni, ci fermiamo una notte in un camp all’interno del parco, attrezzato con piscina, pompa di benzina, bar, ristorante etc.: sembrano finiti i tempi delle avventure estreme. Esploriamo più o meno tutti gli angoli del parco, vediamo tantissime zebre, giraffe, qualche elefante un po’ invecchiato e varietà di antilopi, ma non avvisteremo i grandi predatori, tranne che per un incontro veloce con un piccolo ghepardo proprio nelle ultime ore prima di uscire. All’interno dell’Etosha ci sono anche delle lagune abitate da fenicotteri, ma l’attrazione principale è probabilmente l’immenso pan, un deserto di sale che si perde alla vista e, forse più di ogni altro pan visto in precedenza in Botswana, crea quello strano effetto della fata morgana, dove le terre lontane sembrano sollevarsi nel cielo. SPETTACOLO!!!

 

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Parte 19, Alla scoperta degli angoli più remoti dell’Africa meridionale

 

Il parco Etosha è organizzato con una pozza d’acqua vicino al camp dove abbiamo dormito, di fronte delle panchine isolate da reti: la notte viene illuminata, così i turisti ci vanno a piedi per trascorrere del tempo e tentare di avvistare il raro rinoceronte; io ci proverò, ma nessuna traccia del rhino. Siamo stanchi di fare safari, è da 2 settimane che siamo sempre all’interno dei parchi, all’Etosha Alba è riuscita anche ad addormentarsi mentre io guidavo tra i vari animali. E’ il momento di voltare pagina. Arriviamo all’uscita nord dell’Etosha pochi minuti prima della chiusura del parco, ma abbiamo qualche problema ad uscire: il guardiano di turno ci blocca dentro perché il nostro permesso è scaduto in mattinata; ne nascerà un lungo tira e molla dove lui fa l’attendista cercando di farsi pagare la giornata extra senza rilasciarci la ricevuta, noi proviamo ad uscire e basta. Arriviamo anche a parcheggiarci davanti al cancello pronti a dormire lì con la nostra tenda ed il giorno seguente tornare in reception a pagare, pur di non dargliela vinta; ma quando la guardia capisce che ha di fronte uno più testardo di lui e che stasera mazzette non ne guadagnerà, ci parlo un po’ per addolcirlo ed apre il cancello. Ora abbiamo il problema di trovare un posto per dormire, è buio ormai e una delle regole principali in Africa è proprio quella di non viaggiare mai di notte, sia per le persone male intenzionate, sia per gli animali che gironzolano liberi. Per fortuna dopo pochi chilometri troviamo un centro per lo sviluppo di non so cosa (territorio o agricoltura o qualcosa del genere) che in pochi minuti accetta di farci parcheggiare all’interno del proprio recinto ed aprire la nostra tenda al sicuro, in cambio di denaro naturalmente; ad ogni modo il posto non è malissimo e ci faranno utilizzare dei bagni discretamente puliti all’interno di un appartamento attrezzato.

Dormiamo qualche ora in più stavolta e ripartiamo ancora verso nord. La strada attraversa diverse comunità e cittadine anche piuttosto grandi, pare che il nord sia più popolato. In giro solo gente di colore, mentre invece nella capitale i bianchi erano tantissimi; anche l’aspetto urbano è molto differente e meno organizzato, sicuramente non sembra più di stare in Germania. Ci fermiamo in un supermercato per incrementare le nostre provviste alimentari e ritroviamo il nostro caro parcheggiatore abusivo onnipresente davanti alle zone commerciali d’Africa. Siamo di nuovo gli unici bianchi in giro e tutti ci guardano un po’ così, ma la cosa strana che non siamo proprio riusciti a spiegarci è che spariscono le cose dal nostro carrello della spesa e spesso ce ne infilano delle altre, tanto che alla fine ci ritroviamo in cassa a pagare per alimenti che non avevamo mai preso dagli scaffali; questa cosa rimarrà totalmente inspiegata.

Di strada cerchiamo una vecchia base militare sudafricana, nel secolo scorso gli eserciti del Sud Africa avevano occupato la Namibia, dopo la sconfitta dei tedeschi; ma non la troveremo mai, quindi proseguiamo verso il confine con l’Angola: i paesaggi diventano veramente interessanti, viste panoramiche mozzafiato, tutto verde intorno a noi. Incrociamo anche i primi nomadi delle tribù himba, gruppo etnico di circa 50000 persone, famosi per coprirsi il corpo con un mix di burro d’ocra ed erbe per proteggersi dal sole. Prima del tramonto prendiamo visione del posto dove pernottare, un camping spartanissimo e isolato gestito dalla comunità himba locale, e ci dirigiamo subito verso il confine con l’Angola, firmiamo l’uscita in frontiera, ma solo per andare alle cascate Ruacana, che si trovano in terra di nessuno. Parcheggiamo l’auto e sotto consiglio di alcuni ragazzi locali ci avventuriamo scendendo centinaia di scalini per raggiungere delle piscine naturali: il paesaggio intorno è bellissimo, ma delle cascate neanche l’ombra, la diga angolana Calueque ha deviato già diversi anni fa il flusso dell’acqua, perciò le cascate si  ammirano solo in periodi di fortissime piogge; peccato, pare che lo spettacolo sia comparabile alle cascate Vittoria.

Ritorno in Namibia dunque, ci fermiamo nel nostro camp, accanto a noi le Hippo Pools, ma niente ippopotami all’orizzonte. La reception pare completamente abbandonata, nel pomeriggio avevamo anche incontrato una coppia della Lombardia che preso atto delle condizioni del posto aveva intenzione di dormire direttamente in macchina e fuori dal cancello, in strada. In effetti fa abbastanza impressione questo camp e ci sono molte zanzare, siamo ritornati in una zona a rischio malaria; cerchiamo quindi di cenare in fretta e metterci a nanna. La mattina seguente in uscita incontriamo finalmente qualcuno al ricevimento pronto a riscuotere la tariffa per il pernottamento: allora questo camping esiste davvero!!! Fa abbastanza strano pagare la quota alle signore con le tette completamente al vento.

Proseguiamo la nostra avventura verso ovest, lungo il confine angolano, decidiamo di percorrere una via alternativa per raggiungere le cascate Epupa. Per la prima parte si viaggia a velocità ridotte, la strada è molto sconnessa, ci fermiamo diverse volte per chiedere informazioni sulla direzione da seguire e riceviamo le risposte più disparate; ma i paesaggi sono veramente incredibili ed incontriamo diverse comunità himba: al rumore del nostro fuoristrada donne e bambini si avvicinano e chiedono doni e caramelle; noi ci limitiamo ad offrire un po’ di riso e diamo anche un passaggio ad un tipo che viaggerà per chilometri appeso sul retro della nostra auto, ma senza le scarpe che sono nuove di zecca (chissà dove le avrà trovate?), preferisce non sporcarle e farsele custodire da noi in macchina. SPETTACOLO! Giunti alle cascate Epupa prendiamo posto in un campeggio bello e organizzato proprio davanti al fiume, gestito da tedeschi naturalmente. Esploriamo la zona, camminando per più di un’ora lungo dei sentieri, fino a raggiungere una bella spiaggia; al rientro io concluderò la giornata con un bel bagno in una piscina naturale insieme ad alcuni ragazzi locali. C’è abbastanza gente intorno ed un angolo dove gli himba vendono collanine e cianfrusaglie varie. Cena e a nanna, circondati da altri turisti tutti organizzati con le auto simili alla nostra e la tenda montata sul tetto.

 

E’ arrivato il momento di ripartire per un’avventura estrema: ho letto che il Nord-Ovest della Namibia, chiamato Kaokoveld, è la zona più primitiva del paese, attraversata solo da piste di sabbia tracciate dall’esercito sudafricano all’epoca dell’occupazione. Quest’area viene descritta come l’ultima vera frontiera selvaggia dell’Africa meridionale, non esiste il trasporto pubblico ed avere un 4x4 ben equipaggiato è d’obbligo. E noi stavolta ce l’abbiamo, quindi ho deciso di rimettermi in gioco con l’ennesima pazzia e Alba non ha scelta: sarà praticamente costretta a seguirmi.

Percorriamo il primo tratto su una strada scorrevole (ma non asfaltata), ma subito la prima sfiga: a prima mattina buchiamo un pneumatico. Mi metto all’opera, per la prima volta in vita mia sostituisco una ruota (per fortuna che al momento del noleggio mi avevano dato un’infarinatura generale sulle situazioni d’emergenza) e si riparte. Dall’incrocio di Okongwati in poi inizia il bello: la pista diventa sabbiosa, a tratti con pietre enormi, fossi, zone rocciose, corsi d’acqua d’attraversare; altro che rally!!! Siamo completamente sperduti, la segnaletica stradale non esiste più e non credo di essere riuscito ad andare oltre i 15 chilometri orari di media. Viaggiamo per ore completamente soli e non siamo sicuri di essere sulla strada giusta, diverse volte incontriamo sul nostro cammino le solite tribù himba: chiediamo loro delle informazioni, ma parliamo 2 lingue diverse, quindi io provo a dire il nome della località che voglio raggiungere e loro disegnano sulla sabbia il percorso. Tanto per cambiare ci vengono chiesti regali in cambio e i bambini al nostro passaggio gridano “sweet, sweet”: se in Mozambico ero rimasto sorpreso dalle molte persone povere con il telefonino in mano, qui proprio non mi aspettavo richieste di caramelle in un angolo del mondo completamente dimenticato; ma evidentemente la globalizzazione è talmente forte che è arrivata anche nel Kaokoveld e i turisti idioti che regalano caramelle in Africa sono tanti e non capiscono che questi bambini probabilmente non vedranno mai un dentista in tutta la loro vita.

E’ pomeriggio inoltrato, attraversiamo un villaggio e siamo ormai vicini ai due passi montani di nostro interesse: vorremmo oltrepassare il passo Otjihaa, che pare sia bellissimo e un po’ meno pericoloso del Van Zyl; ma le indicazioni che ci hanno dato sono così confuse da non essere sicuri della direzione in cui stiamo andando. La strada diventa sempre peggio, usare le 4 ruote motrici è ormai una scelta obbligata, proviamo a seguire a fiuto le tracce lasciate da altri veicoli sulla sabbia, quando tutt’un tratto incrociamo un pick up rosso: è guidato da un bianco ed alcuni ragazzi di colore viaggiano sul retro, ci dicono di tornare indietro e seguirli, siamo nella direzione sbagliata. Siamo molto stanchi, proviamo ad utilizzare il loro aiuto, quando ad un certo punto foriamo di nuovo. Mi è caduto il mondo addosso, dallo specchietto retrovisore del pick up non ci vedono più, capiscono che qualcosa non va, quindi tornano indietro ad aiutarci: i ragazzi si danno da fare ed in pochi minuti sostituiscono la ruota bucata con la seconda ed ultima scorta a nostra disposizione. Veramente troppo gentili, ma oramai è chiaro che non ci resta altra soluzione che seguire loro verso la città di Opuwo dove sono diretti, così da essere quanto meno visti da qualcuno in caso di ulteriore emergenza sul nostro veicolo. Rassegnazione totale: non attraverseremo mai più il passo Otjihaa. This Is Africa!!!

 

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Parte 20, Namibia, Kaokoveld e Damaraland, fino a Cape Cross

 

Viaggiamo a velocità elevate e per gran parte del tragitto al buio, in pratica mi fido solo della scia del pick up che stiamo seguendo, i nostri amici sono del posto e quindi dovrebbero conoscere bene la zona. Un paio di volte sfioriamo di poco l’incidente con dei grandi animali (credo fossero mucche): la strada è sterrata e con l’alta velocità la terra sollevata dai nostri amici occupa tutta la mia visuale, non mi resta che fidarmi di seguire le loro luci di posizione posteriori, aiutato dalle segnalazioni con le 4 frecce che ogni tanto mi fanno in presenza pericoli. Ad un certo punto siamo anche costretti a tornare indietro di qualche chilometro e deviare il tragitto, in quanto l’acqua di un fiume era troppo alta da attraversare. E’ assurdo come quei ragazzi viaggino sul retro totalmente aperto, riempiendosi completamente di terra! Per fortuna alla fine arriviamo a destinazione sani e salvi, è notte ormai, ci accompagnano in una pensione dove possiamo parcheggiare ed aprire la nostra tenda, la giornata è stata immensamente lunga, siamo esausti e anche un po’ spaventati.

Opuwo è la capitale ufficiosa della terra degli Himba, da qui le agenzie organizzano le escursioni nei vari villaggi; l’avremmo volentieri evitata, visto che gli incontri con le tribù li abbiamo avuti in modo più vero e diretto durante l’esplorazioni dei giorni passati. E’ anche vero che a sapere in anticipo le sventure che ci dovevano capitare, avremmo guidato direttamente fino qui, invece di stare in giro come i pazzi dalla mattina presto fino a notte inoltrata senza essere arrivati dove volevamo; in fondo siamo solo a 2 o 3 ore di distanza dalle cascate Epupa visitate precedentemente.

Comunque è stata una gran bella avventura, ci siamo perduti in zone dimenticate dal mondo ed abbiamo conosciuto i viaggiatori più assurdi mai incontrati finora: infatti a metà giornata, proprio nel bel mezzo del niente e dopo che avevamo viaggiato da soli per ore, abbiamo visto davanti a noi una via di mezzo tra un camper ed un camion: suono il clacson, il mezzo si ferma, io scendo dalla macchina e manco fosse un miraggio un uomo bianco olandese appare davanti ai miei occhi. Io gli chiedo sorpreso: “ma tu cosa cavolo ci fai qui nel bel mezzo del niente?” E lui mi replica con la stessa domanda! Mi ha raccontato che sta viaggiando da 5 anni con il suo mezzo insieme ad una coppia di amici che si trovavano qualche chilometro più avanti su un camion simile; girano tutto il mondo e tornano ad Amsterdam una volta l’anno per “le ferie”. Ed io: “5 anni? Le ferie? E quando avete intenzione di fermarvi?” E lui: “quando finiamo i soldi”. SPETTACOLO!!! Mi sono sentito così piccolo nei suoi confronti, eppure di viaggiatori che stanno in giro per tanto tempo ne ho incontrati molti, ma 5 anni con lo stesso camper super attrezzato sono davvero tanti. Intanto era arrivata la coppia di amici che si era preoccupata di non vederlo più. Per l’ultimo tratto della loro avventura sono partiti dall’Olanda e arrivati fin qui guidando lungo tutta la costa ovest dell’Africa, una passeggiata insomma! Io gli avevo anche chiesto qualche informazione sul tragitto davanti a noi, ma lui ne sapeva poco o nulla, era intenzionato come noi ad oltrepassare il passo Otjihaa; però non ci aveva saputo dare ulteriori indicazioni. Ci siamo salutati così, abbiamo sorpassato il camper dei nostri amici (loro viaggiavano più lenti rispetto a noi ed hanno un infinito tempo a disposizione per fermarsi quando e dove vogliono); e la giornata sappiamo già com’è andata a finire.

 

Pronti per rimetterci in carreggiata: il signore alla guida del pick up che ci ha recuperato ieri ci viene a prendere e ci indica uno pseudo meccanico dove riparare le 2 ruote forate. Lui sta costruendo un ospedale da qualche parte nel Nord-Ovest della Namibia ed è per quello che si era trovato a passare da lì con gli altri ragazzi il giorno prima. E per fortuna!!! Ci facciamo consigliare la strada migliore da percorrere e lui ci indica su una mappa i fiumi verso ovest da evitare perché potrebbero essere troppo pieni da attraversare in caso di pioggia; ci dirigeremo verso sud e decidiamo di rinunciare completamente ad esplorare le zone occidentali, dove avremmo potuto avvistare i famosi, rari e strani elefanti adattati al deserto. La storia di forare i pneumatici pare molto comune sulle infinite strade sterrate namibiane e il nostro amico ci dice che lui a volte viaggia addirittura con 3 o 4 ruote di scorta. Ringraziamo e salutiamo. Prima di andare via il tipo ci indica un villaggio a qualche centinaia di chilometri da qui dove sua moglie ha un panificio: “se passate portatele i miei saluti e ditele che torno a casa venerdì”. Interessante il modo in cui vivono da queste parti; ma i telefonini no??

Dunque Opuwo non sembra niente di interessante, una piccola cittadina che immagino sia il centro servizi di un’area vastissima, con alcuni edifici e qualche supermercato; come già visto finora in tutti i luoghi d’Africa visitati, l’età media della popolazione è veramente bassa, vecchi se ne vedono pochi. Prendiamo una strada scorrevole in direzione sud, ma evidentemente neanche oggi sarà una giornata positiva: poco prima di mezzogiorno foriamo il pneumatico posteriore appena riparato e questa volta le mie bestemmie le sentiranno anche quella specie di meccanici che hanno realizzato il lavoro qualche ora fa; mi riarmo di santa pazienza e cambio la ruota sotto il sole cuocente.

Si prosegue durante le ore più calde della giornata, le distanze sono enormi, siamo sempre in macchina, ma almeno autonomi e ci fermiamo quando ci pare; intorno il deserto più completo, saltuariamente qualche capanna, i paesaggi sono fantastici e sembra di guidare in un videogioco di macchine degli anni ’90. Quando meno te lo aspetti spuntano come oasi dei segnali che indicano le officine che riparano i pneumatici, evidentemente una pratica molto diffusa che noi cercheremo di scongiurare il più possibile. Passiamo anche un “Disease Control Point”, una specie di barriera interna che taglia il paese, dove ti controllano se trasporti carni, animali etc; un po’ come i Veterinary Fence attraversati in Botswana.

Arriviamo in un camp nei pressi di Twyfelfontein poco prima del tramonto, ci sono dei bagni, un ristorante e diverse zone dove aprire la propria tenda, intorno il nulla più completo; ma questo nulla ci piace tanto e si respira un’aria di pace incredibile. Siamo nei pressi della foresta pietrificata, un’area con numerosi tronchi d’albero vecchi 260 milioni di anni ed appunto pietrificati, ma che noi non andremo a vedere. Invece faremo un giro veloce alla Burnt Mountain, una collina nera che sembra come se fosse stata incendiata, e gli Organ Pipes, una stradina di un centinaio di metri circondata da strane colonne di basalto. Cena deliziosa preparata dalla cuoca Alba e dormita che più silenziosa non si può. Questo è il camp in Namibia che ci è piaciuto di più finora.

Al mattino seguente mi accorgo che anche l’altra ruota posteriore è un po’ a terra e già mi sale la febbre. Provo a darle un po’ d’aria, ma si sgonfia di nuovo, quindi dobbiamo iniziare anche questa giornata da un meccanico; ed ecco ritornare alla mente gli incubi del viaggio in moto in Centro America effettuato un anno fa, dove facevo un pit stop ogni 2 giorni. Ci consigliano un’officina a pochi chilometri da qui, nei pressi di un lussuoso resort: stavolta i ragazzi sembrano più organizzati e disponibili e riparano con cura le nostre 2 ruote bucate; speriamo bene, 4 riparazioni di pneumatici in 24 ore non è un primato felicissimo!

Ci fermiamo al vicino sito di Twyfelfontein, un luogo dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, dove ci sono le rocce incise da antichi cacciatori San, alcune delle quali risalgono all’età della pietra: io effettuo una visita guidata più o meno interessante e poi ripartiamo ancora per un altro lungo viaggio verso sud. Stavolta la paura di forare è aumentata maggiormente rispetto ai giorni passati, tanto che al minimo dubbio spesso mi fermo per controllare che i pneumatici siano a posto; per fortuna si è trattato solo di falsi allarmi. Le strade in Namibia sono, come al solito, in sterrato, ma larghissime, tanto che si può viaggiare abbastanza tranquilli anche a 100 km orari. Passeremo vicino al Brandberg, la montagna più alta del paese, e ci fermeremo per qualche foto al più famoso Spitzkoppe, un picco granitico completamente spoglio di vegetazione, chiamato anche il Cervino della Namibia; fino ad imboccare la strada circondata solo da deserto sabbioso che ci porterà sulla costa atlantica e la parte meridionale dell’immensa Skeleton Coast, famosa per essere inospitale e difficile da attraversare: è chiamata così per i numerosi relitti che vi si sono spiaggiati (pare siano oltre un migliaio).

Finalmente siamo di nuovo sull’asfalto, a sinistra l’oceano, a destra il deserto: andiamo in direzione nord, verso Cape Cross, dove c’è una grande colonia di leoni marini. E’ tardo pomeriggio e già da un po’ hanno chiuso l’entrata della riserva; ci vorrà tanta pazienza e buone maniere per convincere la guardia di turno a farci entrare comunque, ma quando arriviamo sulla passerella ci attende uno spettacolo della natura incredibile: forse sono 100000, tutti in spiaggia, quasi ammassati uno sull’altro, bruttissimi, fanno chiasso, molti sono piccolini (siamo capitati proprio nel periodo delle nascite) e tanti altri sono morti; si sente una gran puzza di cadavere, molti leoni marini vengono uccisi dagli sciacalli e le iene, ma quello che ammiriamo è veramente uno SPETTACOLO!!! Restiamo sul posto per un’ora, completamente da soli, si sente il vento freddo della corrente del Benguela e andiamo via solo quando vengono a riprenderci, pienamente soddisfatti e pronti a proseguire verso Swakopmund.

 

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Parte 21, I deserti namibiani e viaggio verso Città del Capo

 

Ripercorriamo la strada costiera, stavolta verso sud, la Skeleton Coast è piatta e sabbiosa, foto veloce vicino al mare ad Henties Bay ed in serata giungiamo finalmente a Swakopmund, dove stavolta abbiamo intenzione di fermarci 2 notti e riposare un po’. Ennesima giornata trascorsa per intero sulle strade della Namibia, siamo stanchi morti, ma ripagati in pieno dalle bellezze che abbiamo ammirato. Purtroppo il posto dove alloggiamo è abbastanza squallido, tanto che la mattina seguente ci spostiamo in una casa tipo bed & breakfast, che ci offre una stanza privata pulita e confortevole, oltre al servizio lavanderia molto utile ai miei capi sporchissimi.

Spesso descritta come più tedesca della Germania stessa, Swakopmund è una destinazione turistica popolarissima, piena di agenzie che organizzano escursioni per tutti i gusti, dallo snowboard sulle altissime dune di sabbia alle gite in fuoristrada nel deserto, alla pesca, fino al paracadutismo: Swakopmund è la capitale degli sport estremi della Namibia e una piacevole cittadina per trascorrerci qualche giorno; intorno solo deserto che si espande per centinaia di chilometri. Fa abbastanza freddo anche di giorno e noi ce la prendiamo comoda: andiamo a passeggio tra gli edifici più o meno storici, camminata in spiaggia, spesa al supermercato e mangiata al ristorante (ma mai presentarsi all’ora di chiusura, qui con gli orari sono fiscalissimi e si rischia di rimanere a digiuno). Nel nostro alloggio conosciamo dei pazzi viaggiatori su 2 ruote: un belga partito dall’Europa e diretto in Sud Africa, che ha attraversato tutto il continente; e una strana coppia di sudafricani da poco partiti dal loro paese e diretti fino in Germania a bordo di 2 motociclette. Con quest’ultimi riprenderò gli ormai celebri discorsi sul razzismo in Sud Africa, che avevo tralasciato nelle ultime settimane, e i loro consigli sul paese che andremo presto a conoscere saranno tali e quali a quelli ascoltati finora: stare alla larga dalle township povere e dalla maggior parte della gente di colore; “ma che ci vuoi andare a fare in quei quartieri?”, mi diranno. Inoltre mi farò dare qualche dritta utile sui posti interessanti e poco famosi da visitare in Sud Africa. E’ sempre piacevole incontrare altri viaggiatori, ci si scambia esperienze, consigli ed info utili; e comunque tanto di cappello a chi affronta viaggi così lunghi… specie in moto.

Siamo di nuovo in macchina, stavolta diretti verso l’attrazione più famosa del paese: il rosso deserto Namib. Trascorriamo un paio d’ore a zonzo nella vicina Walvis Bay, dove oltre alle grandi saline ammiriamo una laguna piena zeppa di fenicotteri ed uccelli vari; l’acqua si incrocia con il bianco del sale e a tratti diventa rossiccia.. Di strada breve pausa a Duna 7, famosa tra i giovani del posto che vengono qui a sciare e snowboardare sulla sabbia oppure a sfrecciare con i quad; ma anche le famiglie usano le vicine palme come aree per semplici pic nic. Ormai siamo di nuovo su percorsi sterrati ed i paesaggi sono sempre mozzafiato: pranziamo su una collina completamente soli e con vista panoramica eccellente, orizzonti lontanissimi, distanze enormi, ci fermiamo nei pressi di un canyon, attraversiamo i passi e raramente incrociamo altre auto; i pochi turisti incontrati si muovono quasi tutti con macchine simili alla nostra: è assai comune in Namibia viaggiare con un fuoristrada completamente autonomo, con fornellino, frigo e tenda apribile sul tettuccio dell’auto stessa.

Intorno alle 5 del pomeriggio passiamo la linea del Tropico del Capricorno, ci fermiamo per la foto di rito e poco prima del tramonto eccoci giungere giusto in tempo ai cancelli di Sossusvlei, che chiuderanno qualche minuto dopo. La reception dell’unico campsite all’interno del parco è già chiusa, ma occupiamo comunque una piazzola con la promessa di pagare il giorno successivo; anche in questo caso ci avevano fortemente consigliato di prenotare con largo anticipo, ma in Africa a quanto pare tutto è flessibile e fattibile. La giornata è andata a gonfie vele e non abbiamo forato nessun pneumatico.

Sossusvlei è una zona di dune rosse, alcune raggiungono anche i 300 metri d’altezza, uno spettacolo della natura, ma come tutte le cose belle bisogna sudarsele per goderle fino in fondo e allora ci attende l’ennesima alzataccia impossibile: partiamo presto dal camp che è ancora buio e raggiungiamo la Duna 45 (chiamata così perché sta a 45 chilometri dall’entrata del parco) giusto in tempo per ammirare l’alba, la scaliamo fino in cima e lentamente il deserto rosso si illumina sotto i nostri occhi. Ci sono tanti altri turisti, d’altronde questa è l’attrazione numero 1 del paese, ma riusciamo comunque a goderci lo spettacolo, davvero imponente. Ritorniamo in macchina e proseguiamo verso l’ultimo parcheggio nei pressi del più famoso pan Sossusvlei, 20 km più in là: stavolta la duna è più alta e impieghiamo più tempo a scalarla, ma veniamo nuovamente ripagati da un contesto meraviglioso. Ci sediamo sulla sabbia e stiamo lì ad osservare, le foto si sprecano, intorno a noi le dune e i tipici alberi secchi di questa zona, che sono i miei preferiti da fotografare. SPETTACOLO! Sulla strada del ritorno io mi concederò una breve passeggiata nel canyon Sesriem e poco dopo mezzogiorno saremo di nuovo fuori dal parco.

Attraversiamo l’ultimo passo del nostro viaggio in Namibia, ancora una volta stupendo, dal nome impronunciabile Spreetshoogte; di strada verso Windhoek perderò un paio di volte il controllo della macchina (in un caso c’era anche un bel vuoto sulla mia destra), queste strade africane giocano brutti scherzi. Si ritorna sull’asfalto, controllo veloce di polizia ad un posto di blocco e dopo 11 giorni e 3700 chilometri percorsi, facciamo ritorno nella capitale. L’ostello usato in precedenza è tutto pieno, quindi siamo costretti a rimediare con un altro posto più spartano dove dormiremo ancora una volta nella nostra amata tenda.

 

A Windhoek facciamo un salto da Joe’s, leggendario ristorante/birreria dove si possono assaggiare le più svariate carni: zebra, coccodrillo, kudu, struzzo eccetera: a quanto pare provengono dagli allevamenti, quindi è un’attività sostenibile, ma i nostri tempi sono ristretti, perciò niente cena da Joe. Un bel lavaggio alla nostra Toyota ed il giorno seguente, prima di riconsegnare l’auto, andiamo alla ricerca dei sostegni in ferro per la tenda, che io avevo dimenticato in un alloggio nei primi giorni; non sarà difficile trovarli, basterà diventare amico di uno dei tanti operai che lavorano per le numerose agenzie di autonoleggio della città.

Riconsegniamo il fuoristrada, con qualche piccola ammaccatura, ma il nostro caro “Hitler” ci accoglie in modo gentile stavolta e non farà nessuna storia. A casa ci sono anche i parenti venuti dal Sudafrica. Ne nasce una bella chiacchierata, ci danno qualche consiglio utile e per l’ennesima volta si ricomincia con le discussioni sul razzismo, parliamo veramente tanto, ma anche la posizione di questi sudafricani bianchi non cambia: non si va nelle township per nessun motivo, bianchi e neri sempre separati, addirittura mi dicono che l’apartheid per un certo verso era giusta. “C’è stata una rivalsa dei neri quando Mandela è salito al potere una ventina di anni fa e molti di loro si sono ritrovati a ricoprire ruoli istituzionali importanti senza avere idea e capacità di come gestirli. Da quando è finita l’apartheid il Sudafrica è un paese molto meno sicuro, c’è troppa libertà e accadono ben 50 omicidi al giorno. Bianchi e neri lavorano fianco a fianco, ma conducono comunque vite separate. Voi in Europa non potete capire!”. In effetti oggi il Sudafrica pare sia molto pericoloso ed io mi sono rassegnato all’idea che la maggioranza dei bianchi non sopportano i neri. Anche questa è Africa!!!

La Namibia si è rivelata una piacevole sorpresa all’interno del nostro viaggio, essere autonomi ci ha permesso di ottimizzare i tempi e raggiungere dei posti altrimenti impossibili. Come il Botswana, è una nazione abbastanza sicura, organizzata e scarsamente abitata; i paesaggi sono incredibili. Ma ora siamo già alla ricerca di un’altra auto a noleggio, di quelle economiche stavolta, per poter raggiungere Città del Capo che dista 1500 chilometri. Giriamo alcune agenzie, facciamo ricerche on line, ma non riusciremo a trovare nessuna opzione conveniente che venga incontro alle nostre esigenze ed in serata stessa siamo a bordo di un comodo autobus gran turismo che impiegherà quasi 20 ore per portarci a destinazione. Peccato però che utilizzando il trasporto pubblico, non avremo la possibilità di fermarci a metà strada per visitare il famoso Fish River Canyon, che a detta di tutti è un posto fantastico.

Passiamo la frontiera con il Sudafrica in piena notte, ma accade un fatto abbastanza strano e per noi problematico: a Settembre, quando siamo atterrati a Johannesburg, avevamo realizzato che ripartire oltre i 90 giorni consentiti dal visto turistico avrebbe potuto crearci qualche problema. Non gli abbiamo dato molta importanza però, in quanto avremmo viaggiato per oltre 2 mesi fuori dai confini sudafricani. E bene si, nel momento in cui ci timbrano i passaporti, prolungano il mio visto di altri 90 giorni, ma non lo rinnovano ad Alba. Io chiedo spiegazioni al funzionario di turno, visto che tutti e due abbiamo fatto esattamente lo stesso viaggio, ma la sua collega mi aveva riconosciuto un visto differente; purtroppo l’ufficiale non ne ha voluto sapere un bel niente ed in modo molto rude ci ha detto: “questo non è un problema mio, lei ha già un visto sudafricano ancora valido sul passaporto ed io non ne posso emettere un altro”. Entriamo in Sudafrica con un gran bel grattacapo da risolvere, teoricamente Alba dovrebbe lasciare il paese una settimana prima del previsto volo di ritorno.

 

 

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Parte 22, Sudafrica, il Capo Occidentale

 

Arriviamo nella mitica Città del Capo e facciamo una ricerca accurata per trovare l’alloggio che più si addice a noi, vogliamo fermarci diversi giorni e stavolta rilassarci sul serio: dopo oltre 2 mesi siamo ritornati in Sudafrica e adesso dovremmo davvero aver finito con le avventure estreme, niente più sveglie quando è ancora buio. Alla fine resteremo per 6 giorni, divisi tra 2 alloggi tranquilli (il primo era disponibile solo per 3 notti), con discrete aree comuni per la cucina e situati nella centralissima e movimentata Long Street.

Cape Town si presenta immediatamente come la città più bella vista in questo viaggio… d’altronde non ha avuto molte concorrenti valide in materia di agglomerato urbano! Mi ricorda vagamente Rio de Janeiro: è costruita tra le montagne e l’oceano. Ci dedichiamo al cazzeggio più totale: le passeggiate nei quartieri, la zona turistica del Waterfront con le varie attrazioni ed i centri commerciali, lo stadio nuovissimo utilizzato per i mondiali di calcio appena terminati, le coloratissime facciate delle case di Bo-Kaap, il centro, i parchi e le visite ai musei (finalmente interessanti). Ci concediamo qualche mangiata nei ristoranti internazionali ed anche un po’ di vita notturna in stile occidentale, che non facevamo da mesi ormai (ma non troppo, visto che le nostre palpebre restano abituate a chiudersi abbastanza presto). Finalmente ci sentiamo in vacanza!

Tra le cose più interessanti una mattina ho affittato una bicicletta e percorso in solitaria diversi chilometri lungo le spiagge atlantiche, i quartieri più in e le alture vicine, fino a tardo pomeriggio. Un altro giorno siamo saliti con la funivia in cima alla famosa Table Mountain (che è anche parco nazionale), da dove si vede un panorama sulla città a dir poco fenomenale; la discesa l’abbiamo effettuata a piedi attraverso un sentiero. Ma l’escursione più bella probabilmente è stata la visita di Robben Island, il carcere dove Nelson Mandela ha trascorso 18 dei suoi 27 anni di prigionia: il tour è stato un po’ troppo organizzato e affollato per i miei gusti, ma la famosa isola è un posto che dovevo vedere a tutti i costi, l’autobiografia di Mandela è stata il primo libro che io abbia mai letto (…non ne ho letti molti). Gli ex prigionieri ci hanno fatto da guida e raccontato storie interessanti di ciò che accadeva quando Robben Island era ancora una prigione; e naturalmente abbiamo visto la minuscola cella di Nelson e il cortile comune dove trascorreva le poche ore libere insieme agli altri compagni..

Città del Capo è stata dunque una bella parentesi, abbiamo trovato una città occidentale con la mentalità molto aperta, addirittura ho avuto modo di chiacchierare con il primo sudafricano bianco non razzista (anche se era di Johannesburg), un giovane che dormiva nella camera affianco alla nostra e che ha ammesso che la forte fobia dei sudafricani bianchi nei confronti dei neri è solo paranoia; e alla mia domanda se sia fattibile che noi andassimo a visitare una township da soli una volta giunti a Johannesburg, lui mi ha risposto di si. Ed ora abbiamo un motivo in più per maturare anche questa folle idea.

Durante la permanenza a Cape Town, andremo a far visita al ministero che si occupa dei passaporti per cercare di risolvere il problema del visto di Alba; ma ci hanno chiesto soldi extra per rinnovare il timbro e allora abbiamo deciso che questo problema diventerà un’ottima scusa per visitare anche il vicino Lesotho oppure lo Swaziland. In verità ne avevamo già una mezza intenzione: l’importante sarà di uscire dai confini sudafricani prima che il visto scada e rientrare a visto scaduto, così da non rischiare di incappare di nuovo nel funzionario stronzo di turno.

Il penultimo giorno prendiamo in affitto un’auto economica fino alla fine del viaggio, per soli 20 €uro al giorno, ma si sa che all’inizio dei nostri noleggi non siamo mai fortunati e, dopo un giretto panoramico su una vicina collina, ecco arrivare l’incidente ad un incrocio. Per fortuna l’altra macchina ha subìto un danno lieve, tanto che il proprietario dice di non preoccuparci; ci scambiamo comunque i contatti e all’indomani denunciamo alla polizia la rottura del muso della nostra Chevrolet che cambiamo in aeroporto con una Fiat Punto nuova. Trascorriamo quindi la giornata guidando tutt’intorno la penisola del Capo: attraversiamo le varie spiagge, tra le quali Boulders Beach, dove c’è una grande colonia di pinguini, e raggiungiamo il famosissimo Capo di Buona Speranza a Cape Point, dove non rinunciamo alla classica foto; in serata percorriamo una bella strada panoramica e concludiamo con una cena di pesce in uno storico ristorante di Hout Bay.

 

Lasciamo Città del Capo diretti verso est, abbiamo appuntamento con un ragazzo conosciuto alle Cascate Vittoria, il quale c’incontra davanti ad un fast food per darci una copia del dvd del rafting fatto al fiume Zambezi. Proseguiamo quindi verso Stellenbosch, piccola città universitaria molto signorile e pulita, dove ci fermiamo per un pranzo take away al supermercato; ce ne stiamo in giro a passeggio, incrociamo un paio di italiani che studiano da queste parti e dopo un po’ d’indecisione decidiamo di non fermarci qui per la notte, nonostante qualche ora prima avevamo ispezionato un bel bed & breakfast. Perciò ritorniamo in strada, siamo nella regione dei vini, dappertutto ci sono vigne e distillerie: allora visitiamo uno stabilimento dove Alba acquisterà qualche bottiglia da portare a casa. Proseguiamo quindi lungo la bella costa fino a raggiungere la città di Hermanus, considerata il migliore posto al mondo per osservare le balene da terra; solo in alcuni periodi dell’anno però, infatti noi non ne avvisteremo. In compenso ci godiamo un paio di passeggiate sul lungomare ben attrezzato di questa piacevole cittadina.

La mattina seguente siamo di nuovo in macchina, pausa a Gansbaai, resa famosa dai numerosi operatori che da qui organizzano le immersioni all’interno di gabbie per vedere gli squali, e si prosegue verso Capo Agulhas, meglio conosciuto come il punto più meridionale del continente africano: infatti, benché il Capo di Buona Speranza sia più famoso, Agulhas è il punto più a sud, dove gli oceani Indiano e Pacifico s’incrociano; c’è un vecchio faro, un pezzo di nave spiaggiata chissà quanto tempo fa e una targa che ricorda il punto geografico in cui ci troviamo. Fa anche freddino direi e presto ci rimettiamo in cammino verso Swellendam, dove pernottiamo in una stanzetta tutta in legno e circondata da un bel giardino. Capitiamo nel periodo della raccolta dei frutti di bosco: sono venduti dappertutto e andiamo a visitare una delle tante campagne dove i turisti possono raccoglierli pagando una piccola quota.

In Sudafrica si viaggia in completa scioltezza, ci sono città e servizi dappertutto ed i paesaggi mi ricordano vagamente l’Australia; l’offerta di alloggi è vasta, è pieno di bed & breakfast spesso molto puliti e carini. Ormai c’è poco da raccontare, le avventure estreme vissute recentemente in giro per l’Africa sembrano terminate ed i pericoli spesso citati dai sudafricani bianchi per ora non li abbiamo incontrati; la maggior parte delle città sono circondate da enormi periferie di baracche e quartieri poveri chiamate township, ma finora oltre ai parcheggiatori abusivi onnipresenti, non abbiamo avuto nessun problema degno di nota. Intanto il tizio con cui abbiamo avuto l’incidente qualche giorno fa mi sta tartassando di messaggi: dà proprio l’impressione di essersi svegliato in ritardo accorgendosi che il danno alla sua auto non è più cosa da niente, ma è diventato grave. Non sarà mica che amici e parenti gli abbiano consigliato di approfittare del turista bianco di turno per guadagnare qualche rand facile? Io prendo atto della cosa e lo metto in attesa perenne.

Attraversiamo in 2 giorni la famosa Garden Route: iniziamo da Mossel Bay, che in un passato molto lontano ha conosciuto turisti del calibro di Bartolomeo Dias e Vasco de Gama, ma non ci entusiasma molto. Piccolo detour a Wilderness, completamente immersa nella foresta, e notte in un bed & breakfast carino a conduzione familiare di Knysna, ma solo dopo aver fatto un giretto nella tranquilla Buffalo Bay, con le sue spiagge isolate ed enormi. Il tempo non è dalla nostra parte, fa freddo, piove il primo giorno e piove forte il secondo, tanto che non riesco neanche ad ammirare il panorama sulla laguna di Knysna da un’area in cima alla collina (Alba neanche scenderà dall’auto). Siamo nella zona delle ostriche e la maggior parte dei ristoranti e non le vendono condite in tutte le maniere.

L’ultima tappa la facciamo a Plattenberg Bay, dove dormiamo in un ostello, un’intera camerata tutta a nostra disposizione e letti pulitissimi: il cattivo tempo non molla e passiamo la serata chiusi nel bar della struttura stessa, dove ho modo di chiacchierare con una famiglia di sudafricani, bianchi naturalmente; l’argomento di cui si parla e voglio conoscere le loro opinioni in merito è sempre lo stesso: razzismo, apartheid, devo o non devo andare a visitare una township? Allora un signore di una certa età mi spiega che è proprio un fatto culturale: “i neri ed i bianchi di questo paese sono sempre cresciuti separati, quindi hanno interessi diversi e la pensano in modo diverso; ora che l’apartheid non c’è più, quando si entra in un locale dove gruppi di bianchi e neri provano a mescolarsi, ad un certo punto in automatico si dividono, non è razzismo, ma una vera differenza culturale. E’ un processo attraverso il quale dobbiamo andare, probabilmente dopo alcune generazioni si assisterà ad un’uguaglianza delle razze reale e non solo ufficiale”. Devo dire che quanto meno il tipo mi è sembrato un po’ più saggio degli altri conosciuti finora ed ammette che l’apartheid era una cosa assolutamente sbagliata e orribile.

 

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Parte 23, Sulle tracce di Nelson Mandela

 

Lasciamo la Garden Route, non ci ha entusiasmato troppo, sembra più una grande macchina del turismo che una destinazione interessante, ma probabilmente la pioggia ha anche fatto la sua parte. Tra le attrazioni popolari non troppo distanti c’era anche Oudtshoorn, capitale mondiale dello struzzo, dove organizzano spettacoli e si possono addirittura cavalcare questi grandi animali; ma non ci siamo andati, abbiamo avuto l’impressione che si tratti dell’ennesima trappola per turisti. Siamo in strada, sempre direzione est, ci fermiamo nei pressi del ponte Bloukrans, da dove si pratica il più alto bungy jump al mondo: ce ne stiamo lì a guardare gli altri che saltano nel vuoto, da oltre 200 metri d’altezza e tra la nebbia; è molto impressionante, ma io questa volta non mi sentirò troppo inspirato a provare. Nel pomeriggio sosta a Jeffreys Bay, una bella spiaggia; ogni volta siamo indecisi se fermarci a dormire in un posto oppure proseguire, i chilometri da percorrere fino a Johannesburg sono ancora tantissimi. Qui ci sono solo bianchi in giro e dagli altoparlanti dei bar viene fuori un’orrenda musica afrikaans; e allora lasciamo questo posto da surfisti e di nuovo in macchina fino a Port Elizabeth. L’indecisione sul fermarsi oppure no regna, non siamo molto interessati alle grandi città, ma le prove su un palco per lo spettacolo di apertura della stagione estiva che si svolgerà tra qualche ora ci convincono a passare la notte qui. La stanza che troviamo non sarà ricordata per la sua bellezza, ma in compenso trascorriamo una serata piacevolissima e inaspettata tra concerto, lungomare, casinò, cena a base di schifezze nei vari chioschetti e fuochi d’artificio; a Port Elizabeth finalmente si vedono bianchi e neri insieme, un po’ come a Città del Capo.

Non visiteremo il vicino parco nazionale Addo Elephant, abbiamo ancora la pancia piena dei numerosi safari fatti il mese scorso; ci aspetta invece un viaggio molto lungo, destinazione la Wild Coast. La via per uscire dalla città passa nei pressi di un altro stadio utilizzato per i recenti mondiali di calcio e seguendo la solita strada N2 entriamo in quelle che una volta erano le terre del Ciskei. Ora si vedono solo persone di colore in giro e durante una fermata in una cittadina per cercare qualcosa da mangiare notiamo un interessante segnale stradale che vieta l’uso delle pistole. Anche questa è Africa! Proseguiamo verso il Transkei, siamo nella terra degli Xhosa, si dice siano la gente più amichevole del Sudafrica, da queste parti è nato il grande Nelson Mandela. Ci sono tante persone lungo la strada che fanno l’autostop e noi diamo il passaggio ad una signora: lavora in un negozio, proprio vicino al villaggio dov’è cresciuto Mandela, ed ogni giorno fa la strada avanti e dietro in bus oppure come capita. Quando passiamo davanti alla mega casa dove Mandela vive oggi, lei ce la indica ed io memorizzo il tutto con l’intenzione seria di ritornarci per portare i miei saluti. La signora in questione è anche lei una xhosa e quando parla emette uno strano click con la lingua sotto il palato: è un tipico suono emesso dalle lingue Bantu e Khoisan nel pronunciare alcune lettere. Anche in certe zone del Botswana e della Namibia avevamo sentito diverse persone parlare così ed io, a furia di praticare, ho quasi iniziato a pronunciare le parole in modo corretto; fa troppo ridere, mentre parla fa schioccare continuamente la lingua. Lasciamo dunque la signora in questione a Mthatha e lei ci offre i soldi per il passaggio, in Africa si fa così; noi naturalmente non accettiamo, ma apprezziamo enormemente il gesto, finalmente qualcuno non ha dato per scontato che dal bianco al nero tutto sia dovuto.

E’ ormai buio quando arriviamo al mare di Port St. Johns, abbiamo percorso centinaia e centinaia di chilometri in una sola giornata ed incontriamo non poche difficoltà per trovare un posto dove dormire. Ci toccherà accettare una sistemazione molto spartana, una stanza che più semplice non si può, in un appartamento gestito da un tizio con il cervello a dir poco scoppiato… ed una canna perenne in bocca. In casa con noi una coppia in vacanza con i figli piccoli, lui sudafricano, lei norvegese, anch’essi sempre a rullare: ci sconsigliano categoricamente di andare alla festa che vediamo nella spiaggia di fronte, in quanto sono tutti neri e da ubriachi diventerebbero pericolosi. Io la tentazione ce l’avrei pure, ma la zona è così buia e selvaggia… e poi detto da un sudafricano meglio accettarlo il consiglio. Chiedo ai due un parere sul visto di Alba che scade tra qualche giorno e loro mi dicono di non preoccuparci: c’è un sacco di gente che esce dal paese oltre i 90 giorni concessi, al massimo metteranno un timbro sul passaporto che le vieterà di ritornare in Sudafrica in futuro (con quello stesso passaporto naturalmente, faccio fatica a pensare che da queste parti i computer del governo funzionino in rete come dovrebbero). Le loro idee sono comunque molto discordanti e poco affidabili; addirittura un loro amico, anch’egli totalmente di sotto, sostiene che non rinnoveranno il visto neanche passando la frontiera con il Lesotho. Vedremo.

Port St. Johns è un posto molto particolare, completamente immerso dalla giungla, sembra di stare in Giamaica, finalmente qualcosa di più interessante rispetto alla Garden Route: in spiaggia ci sono addirittura le mucche che se ne stanno tranquille tra i bagnanti ed è pieno di sentieri che attraverso la foresta collegano i vicini villaggi; pare che la località sia stata spesso scelta da troupe cinematografiche per girare i film. Ci rilassiamo, facciamo il bagno a turno, ma senza allontanarci troppo: questa è zona di squali ed ogni anno qualche surfista ci lascia la pelle. Facciamo un giro per gli altri ostelli della zona e per la notte cambiamo posto e dormiamo in una graziosa capanna in legno.

 

E’ arrivato il momento di andare a scoprire i luoghi di Nelson Mandela: ripercorriamo la strada a ritroso tra le tipiche casette colorate della terra dei Pondo in cui ci troviamo e giunti a Mthatha visitiamo il museo a lui dedicato che ripercorre con video, foto e documenti tutta la sua vita; l’esposizione però è la stessa che abbiamo visto già a Città del Capo. Andiamo quindi a Qunu, il villaggio dove Madiba (questo è il nome da clan di Mandela) ha trascorso l’infanzia: anche qui un altro museo a lui dedicato, grande la struttura, però non molto interessante il contenuto; mi piacerebbe incontrare qualcuno che lo abbia conosciuto di persona, ma giustamente mi spiegano che Nelson è vissuto qui da bambino ed ora è talmente anziano che tutta la gente che lo ha circondato è morta ormai. E allora con la faccia di bronzo ci presentiamo direttamente a casa sua, qualche chilometro più avanti: suono tranquillamente al citofono (così come avevo fatto a Los Angeles a casa di Michael Jackson qualche anno fa), le sue guardie restano un attimo rigide, ma ad un certo punto aprono il cancello della villa e mi fanno entrare nella loro postazione; ci sono agenti e schermi che monitorano l’intera zona ed io mi illudo che forse ce la farò. A quanto dicono, Nelson Mandela è pure in casa, io chiedo di lasciarmi entrare e loro si mettono a ridere; intanto una ragazzina sfreccia con un quad (è una delle sue tante nipoti, mi dicono), io insisto con le mie richieste e chiedo di fargli sapere almeno che c’è qualcuno venuto fin dall’Italia per stringergli la mano. Non ci sono speranze, quest’incontro nun s’a da fa; mi sa che ho aspirato troppo in alto questa volta.

Le stesse guardie mi danno le indicazioni stradali per raggiungere il villaggio thembu di Mqekezweni, un po’ fuori mano, ma essendo il luogo dove Madiba si è trasferito da ragazzino, forse lì qualcuno che ci ha giocato insieme magari lo troviamo? Ci toccherà ricominciare con le avventure, alla ricerca di un villaggio sperduto in quest’angolo d’Africa, ma sostenuti dal fatto che al museo di Qunu mi avevano assicurato che lì vive ancora la vedova di Justice, il famoso cugino di Nelson (che per i gradi di parentela africani è un fratello) morto già da qualche anno. E allora ecco rimetterci di nuovo sulle strade sterrate, questa volta con una utilitaria però. Alba non ha molta pazienza di esplorare, ma io mi sento più testardo che mai e dopo qualche errore ed informazioni poco precise che ci sono state date, eccoci giungere nel luogo esatto descritto dall’autobiografia di Nelson Mandela. I due alberi della gomma sono ancora là, un giovane vestito piuttosto bene ci accoglie e ci fa entrare in una casa: all’interno del salone sono sedute diverse persone piuttosto avanti con l’età e ci sono tante foto appese al muro. Il ragazzo mi chiede di provare a riconoscere questa o quella foto e ci presenta una signora anziana del gruppo che è proprio la vedova di Justice. Sono piacevolmente sorpreso, ne è valsa proprio la pena di venire fin qui, restiamo ancora un po’, chiacchieriamo, ringraziamo e continuiamo la passeggiata nel cortile e alla capanna occupata da Nelson per diversi anni: è ancora lì, piccolissima, ma intatta (pare per volontà sua), all’interno completamente vuota. Ci viene detto che la bella casa appena visitata è stata donata da Mandela non appena divenne presidente del Sudafrica. Il ragazzo che ci fa da guida dice di essere nipote di Justice e quindi anche di Nelson; mi lascia anche il suo biglietto da visita, fa il direttore artistico di un teatro nella capitale Pretoria. Ci lasciamo con la promessa di avvisarlo in anticipo la prossima volta che torniamo in Sudafrica, così lui avrà tutto il tempo di organizzare un incontro con Nelson Mandela in persona. Non ci crediamo tantissimo, ma oggi è stato un giorno decisamente positivo, finalmente una bella spinta alla parte finale del nostro viaggio che stava diventando un po’ noioso.

 

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Parte 24, Un viaggio avventuroso verso il Lesotho

 

E la giornata non è finita qui: oggi mi sento talmente inspirato che nel pomeriggio decido di seguire una via panoramica poco segnalata, e non asfaltata, per raggiungere Rhodes e il giorno seguente entrare in Lesotho. Come punto di riferimento abbiamo la vecchia cara direzione del sole, ma non sarà sufficiente e ci perdiamo comunque tra le montagne. Le condizioni della strada diventano sempre peggio e sono quasi necessarie le 4 ruote motrici (che stavolta non abbiamo). Diventa buio, la benzina inizia a scarseggiare e non si può più tornare indietro: siamo quasi sicuri di esserci persi, ma allo stesso tempo ho buone speranze che la strada che stiamo percorrendo esca in un’altra città segnata sulla mappa. Non s’incontra anima viva, ci sono zone difficilissime da oltrepassare con una macchina normale e Alba ormai se la prende solo con me. Inizia pure a piovigginare, ogni tanto incrociamo alcuni animali d’allevamento, c’è qualche costruzione che pare abbandonata, ma niente persone e niente luci; sembra di essere in un film horror e iniziamo a cagarci addosso, quando finalmente avvistiamo una vecchia costruzione dalla quale finestra s’intravede una luce emessa da una candela. Ci fermiamo per chiedere aiuto oppure no? Avremmo bisogno almeno di capire dove ci troviamo, ma il posto non sembra dei più affidabili, è notte e siamo soli nel bel mezzo delle montagne sudafricane, quindi proseguiamo dritti. Dopo qualche minuto ecco spuntare una luce da un’altra casa (allora la speranza di essere non troppo lontani da un centro abitato si fa forte). Al nostro passaggio davanti all’abitazione si accende una luce ancora più forte, il che significa che ci hanno visto. Proviamo a scrutare e vediamo un po’ di gente, incluso dei ragazzini: allora ci facciamo coraggio, pensiamo che una famiglia non può essere pericolosa, quindi entro con l’auto attraverso il cancello fino a raggiungere il gruppo di persone che sostano davanti casa: ci guardano tutti in modo strano e diffidente, come dire “ma che ci fanno sti due nel bel mezzo del niente di notte?” Io apro lo sportello della macchina e le prime parole da me pronunciate sono: “buona sera, credo che ci siamo persi”. E loro scoppiano in una gran risata. Ci spiegano dove ci troviamo, siamo a pochi chilometri dalla strada asfaltata ed in direzione di Barkly East, proprio la cittadina dove pensavamo di essere diretti; un bel sospiro di sollievo. Ci rassicurano che una volta arrivati lì troveremo facilmente un posto per dormire, ma insistono per entrare in casa ed offrirci qualcosa da bere. Ci prendono a simpatia e alla fine ci offrono la stanza degli ospiti per rimanere la notte: pagando naturalmente, saranno pure una famiglia bianca, ma qui non si fa niente per niente, neppure da bianco a bianco. L’atmosfera familiare m’inspira non poco, ad Alba un po’ meno, ma è veramente tardi e dopo qualche tentennamento decidiamo che è meglio rimanere. Ci aspetta una nottata alternativa, a casa di una famiglia afrikaans incontrata per caso tra gli altipiani sperduti del Capo Orientale. SPETTACOLO!!!

E’ pronta la cena e noi ospiti siamo stati invitati a mangiare una bella lasagna pesante. Al tavolo siamo tante persone, ben 3 famiglie più noi, e la loro curiosità li spinge a chiederci di tutto di più: restano abbastanza sbalorditi dai racconti del nostro viaggio, sicuramente in Sudafrica abbiamo visto più luoghi noi rispetto a loro che ci vivono; per non parlare del resto del continente. Ci conosciamo per bene e passiamo veramente una bella serata. A quanto pare nella casa illuminata dalla candela, che avevamo incrociato a qualche minuto da qui, non abita nessun killer pericoloso, ma solo una pittrice che ha deciso di vivere in mezzo alla natura; la strada che abbiamo percorso è molto pericolosa e bastava un poco di pioggia in più per rimanere bloccati o perdere il controllo del veicolo. Tra i familiari c’è un’infermiera che svolge servizio a domicilio: ci racconta dei numerosi malati di AIDS che cura quotidianamente e di come tanti ancora muoiono per il solo fatto di non essere costanti e precisi con le cure, che sono gratuite e oggi finalmente garantirebbero una vita stabile. Lei dice che la diffusione dell’AIDS in Sudafrica è esagerata, la gente di colore fa sesso facile: c’è il partner, l’amante, l’amica, la persona che s’incontra durante una trasferta di lavoro eccetera. Naturalmente ci vengono date le solite indicazioni sulle zone abitate dai neri da evitare assolutamente e i nostri amici restano scioccati dalla mia intenzione di andare a dormire in una township una volta giunti a Johannesburg. E allora io gli chiedo: “ma qualcuno di voi ha mai avuto esperienze negative con gente di colore, tipo scippi, rapine, furti etc.”? Tutti mi rispondono di no, ma che sui giornali si leggono tante notizie preoccupanti a riguardo. Mi convinco ancora di più che in tutto questo ci sia una forte dose di paranoia.

La mattina seguente la signora di casa ci offre la colazione, intorno all’abitazione ci sono animali e coltivazioni di tutti i tipi, è una famiglia quasi completamente autosufficiente. Prima di andare via faccio una foto alla mega collezione di cappelli da baseball del marito, saluti e baci, paghiamo e ci scortano per qualche chilometro sulla via sempre più fangosa che raggiunge finalmente la strada asfaltata. E’ stata un’esperienza da ricordare. Questa è Africa!!!

 

Attraversiamo Barkly East, facciamo benzina che il serbatoio è quasi vuoto e in tarda mattinata giungiamo alla frontiera con il Lesotho (una piccola ed insignificante postazione), esattamente un giorno prima della scadenza del visto di Alba. Entriamo nel piccolo stato situato tra le montagne e completamente circondato dai confini sudafricani; il Lesotho ha lo strano record di essere la nazione con il più alto punto più basso al mondo: un gioco di parole abbastanza contorto, ma insomma è l’unico paese interamente situato sopra i 1000 metri di altitudine, addirittura non scende mai sotto i 1400. La gente basotho si dice sia amichevole e gentile, in quanto non ha mai vissuto l’apartheid del vicino Sud Africa; sono un popolo tra i più poveri al mondo, ma molto orgoglioso e lo si capisce dall’incredibile storia che hanno. In Lesotho piove spesso e naturalmente piove anche quando lo visitiamo noi: sono presenti grandi dighe, opere d’ingegneria di un certo livello che forniscono acqua al vicino Sud Africa per milioni di metri cubi all’anno; ma ironicamente molte persone che vivono nei bassipiani non ne hanno accesso facilmente.

Ci fermiamo per pranzo a Quthing, siamo alla ricerca della zona dove sono state ritrovate alcune impronte di dinosauro vecchie 180 milioni di anni, però nessuno sembra sapere dove siano. Al capolinea dei minibus troviamo finalmente qualcuno che conosce il responsabile dell’area archeologica, lo chiama ed ecco una giovane guida entrare nella nostra macchina per portarci allo pseudo sito archeologico che aprirà appositamente per noi: non vediamo niente di eccezionale e non so neanche se credere che quelle davanti a noi siano davvero le impronte del grande dinosauro. La parte più divertente però è proprio la guida, un simpaticone che ogni tanto ride a squarciagola e senza motivo, ma non sa spiegarci praticamente niente di ciò che stiamo vedendo. Una visita veloce che non sa di niente insomma, ma proprio per questo ci sentiamo di nuovo in Africa! Facciamo una breve sosta in un’intrigante casa museo costruita dentro una roccia da un reverendo europeo nel 1800 e attraverso le sceniche stradine e i passi montani giungiamo in serata a Malealea, dove dormiremo nell’omonimo alloggio.

Malealea è un villaggio del Lesotho dove sembra di essere tornati indietro nel tempo… ma di molto!!! I proprietari dell’unico e ben tenuto lodge hanno avuto la geniale idea di organizzarsi con la comunità locale basotho, così ogni giorno i turisti possono godersi la vicina cascata, camminare per gli altipiani, visitare le vecchie grotte dipinte dai San, ma soprattutto effettuare le tipiche escursioni in pony. Noi per poco non riusciamo ad organizzarci direttamente con i proprietari dei piccoli cavalli (attraverso il lodge proprio non ci vogliamo andare), ma in compenso esploriamo la zona prima in macchina e poi a piedi, tra le montagne e attraversando il fiume. Conosciamo delle ragazzine locali che ci danno indicazioni sul percorso da seguire e ci invitano alle prove pomeridiane di uno spettacolo, alle quali proprio non vogliamo rinunciare: che dire, il minimo indispensabile, tutto si svolge in strada; alcuni giovani eseguono dei semplici passi molto svogliatamente, un ragazzo tiene il tempo suonando la batteria su un bidone rovesciato ed un signore accompagna il tutto con una vecchia fisarmonica. Assolutamente povero, minimalista e creato dal niente più assoluto, la situazione è talmente malinconica che sembra quasi un triste saluto che l’Africa ci sta rivolgendo per la vicina fine del nostro viaggio. Decidiamo allora che i destinatari dei nostri indumenti quest’anno saranno loro e per noi terremo giusto qualcosa da indossare per gli ultimi giorni della nostra avventura.

Salutiamo i nostri amici e ci dirigiamo verso Maseru, la capitale del paese, dove appena arrivati ci ripariamo in un centro commerciale a causa di un forte temporale. Solo in tarda serata, e con non poca fatica, troviamo un posto per dormire e cucinare, accolti da una strana guardia coperta con una specie di mantello. La mattina seguente continuiamo verso il confine nord del paese ed, esattamente un giorno dopo la scadenza del visto sudafricano sul passaporto di Alba, eccoci entrare di nuovo nel paese arcobaleno con un bel timbro nuovo (nonostante il funzionario in frontiera abbia fatto qualche domanda di troppo, concedendo soltanto una decina di giorni, in concomitanza con il nostro volo di rientro).

 

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Parte 25, KwaZulu-Natal e Swaziland

 

La gente basotho ci è piaciuta, sembrano persone buone, genuine e semplici: a Maseru ero quasi riuscito a convincere la guardia di un residence a darci le chiavi di una stanza pagando direttamente lui (la reception per fare il check-in era già chiusa) e mentre ci organizzavamo su come entrare senza dare troppo all’occhio, lui mi ha detto a bassa voce e in modo molto sempliciotto, ingenuo e convinto: “ssshhh, non gridare, questo è un segreto! Tornate più tardi e vi faccio entrare”. Troppo forte; per nostra fortuna (ma anche sua che non ha rischiato il posto di lavoro) successivamente abbiamo trovato un bed & breakfast da un’altra parte. E alla frontiera in uscita dal paese invece, il funzionario giovane di turno, non sapendo cosa scrivere sul libro delle uscite, mi ha chiesto, tenendo il passaporto in mano: “qual è la nazione, Unione Europea o Repubblica Italiana?” In Lesotho sembra che vivono fuori dal mondo.

                                   

La prossima destinazione si chiama KwaZulu-Natal, sarà un altro lungo tragitto: pausa pranzo a Clarens, una piacevole cittadina del Free State, situata tra le montagne, con i suoi localini e le gallerie d’arte; e dritti verso la costa, viaggiando attraverso un parco nazionale e vicino la catena montuosa del Drakensberg. Durban è la terza città del Sudafrica ed ha una forte influenza indiana (anche Gandhi stesso ha vissuto qui), quindi non ci faremo mancare la cena in un ristorante tipico del sub-continente. Il centro città è molto affollato da mercati e venditori, ma Durban è anche piuttosto prospettata nel futuro, con costruzioni nuove, un parco acquatico, il casinò, un bel lungomare e soprattutto il solito stadio di calcio, che con i mondiali è diventato un’istituzione in tutto il Sudafrica. Questa volta decido di visitarlo all’interno con un’escursione guidata: è molto bello devo dire, viene usato per diversi sport ed ha una struttura alta costruita sul tetto alla quale si accede con un ascensore e da dove si può ammirare la vista panoramica sulla città; ma la cosa che lo rende unico è lo swing all’interno dello stadio stesso, un’attrazione che permette di lanciarsi appesi ad una corda e dondolare da un estremo all’altro del campo, tipo bungy jump.

Mai come a Durban siamo stati tanto indecisi se restare a dormire una notte in più oppure no, la camerata d’ostello tutta per noi della prima sera non ci è piaciuta tanto, è la vigilia di Natale e ce ne stiamo tutta la giornata in giro a zonzo senza prendere alcuna decisione: ogni tanto visitiamo un bed & breakfast, poi un albergo, un giro in macchina e sosta al mega centro commerciale (super affollato per gli ultimi acquisti natalizi), all’interno del quale si possono praticare varie attività e sport, tra le quali il surf sulle Wave Pools, le piscine che creano onde artificiali; quando verrà a me la voglia di provare a prendere una tavola sarà troppo tardi e saremo vicini all’orario di chiusura.

In serata decidiamo finalmente di ripartire e facciamo la pazzia di viaggiare di notte, incontriamo pioggia a tratti, ma quanto meno su una comoda superstrada per buona parte del tragitto che ci porta a St Lucia. Arrivati a destinazione stavolta è proprio tardi e ci tocca bussare alle case per cercare di capire se esiste ancora un alloggio disponibile per noi; ancora una volta ci dovremo accontentare di una stanza molto spartana.

Per il giorno di Natale siamo quindi in un posto nuovo, deciso all’ultimo secondo, ma che si rivelerà molto bello: da un lato la spiaggia con l’oceano Indiano, dall’altra il lago ed un estuario popolato da ippopotami e coccodrilli; forse mai li avevamo visti così vicini in tutto il viaggio, è bastato fare una passeggiata su una passerella e fermarsi ad osservare. Ci concediamo un veloce pranzo natalizio al ristorante e nel pomeriggio ci ritroviamo a fare un bel safari in autonomia nel vicino parco iSimangaliso Wetland, che è un sito patrimonio dell’umanità UNESCO: non avrà le dimensioni dei grandi parchi africani visitati un mese fa, ma gironzolando senza troppe pretese, ci godiamo un bel panorama sul lago circondato dal verde, ma soprattutto, tra gli altri animali, avvistiamo il caro e rarissimo rinoceronte. Davvero una bella sorpresa questo St Lucia, dove il giorno seguente ci regaliamo anche l’ultimo bagno in oceano del nostro viaggio, prima di ripartire verso lo Swaziland.

 

Torniamo sulla strada N2 che praticamente abbiamo percorso quasi per intero da Città del Capo fino qui, costeggiando l’oceano. Entriamo nel regno di Swaziland a pomeriggio inoltrato e tentiamo una visita improvvisata alla riserva privata Mkhaya: parcheggiamo la macchina, io attraverso un fiume a piedi seguendo le indicazioni di alcuni bambini che giocano nelle vicinanze, ma il cancello d’entrata è chiuso e per la prima volta ci ritroviamo davanti un parco dove realmente è indispensabile prenotare in anticipo. Le strade in Swaziland sono piuttosto buone (a differenza del Lesotho), proseguiamo per Manzini, la città più grande del paese, e tanto per cambiare, sarà già buio quando giungiamo alla riserva Mlilwane, nella valle Ezulwini: per fortuna il guardiano all’entrata telefonerà alla reception e gli diranno che c’è posto per dormire, quindi apre la sbarra e ci ritroviamo senza volerlo a fare un safari notturno nel piccolo parco, da soli, per raggiungere l’ostello che si trova all’interno.

Dormiamo la prima notte in un bel bungalow immerso nella natura e la seconda in una stanza privata, sempre appartenenti alla stessa struttura; la location è eccellente, davanti a noi un panorama stupendo sulle verdi valli intorno. Alba intanto è già da un po’ di giorni che sta dando i numeri e non vede l’ora di tornare a casa. Facciamo un piccolo giro mattutino all’ufficio informazioni di Lobamba e nel pomeriggio ancora una volta safari, ma completamente diverso: infatti all’interno del Mlilwane Wildlife Sanctuary si può camminare liberamente a piedi e senza l’ausilio di una guida, in quanto non ci sono predatori (a parte i coccodrilli che in teoria dovrebbero restare circoscritti al lago). E’ molto divertente, si passeggia e ci si ritrova accanto qualche zebra, si sta nei pressi del lago ed ecco l’ippopotamo, si continua a camminare e s’incrociano gli altri antilopi; il tutto in completa sicurezza. In serata assistiamo ad uno spettacolo di ballerini locali nel camp vicino e la mattina seguente un altro breve safari prima di lasciare il parco… ma in macchina stavolta.

Lo Swaziland è una delle 3 monarchie rimaste in Africa (le altre 2 sono Marocco e Lesotho), l’unica assoluta; il re Mswati III è molto popolare, ma allo stesso tempo tanto criticato per il suo dispendioso stile di vita, nonostante l’estrema povertà del suo paese. Egli perpetua tradizioni e vecchie usanze, inclusa quella della poligamia. E forse proprio grazie a quest’ultima riesce a mantenere solido il suo potere: il sovrano ha più di 200 fratelli e 13 mogli ed è facile immaginare che ci sono suoi parenti sparsi in tutto il paese e che quindi aiutano a mantenere una certa stabilità. Qualcuno in passato mi aveva detto che ci sono talmente tanti principi che è facile incontrarli al supermercato; noi non avremo questa fortuna!

In Swaziland vengono celebrate 2 grandi cerimonie durante l’anno, la più sacra si svolge proprio in questo periodo e si chiama Incwala, durante la quale il re concede il permesso ai suoi sudditi di mangiare i primi raccolti. Purtroppo la festa principale aperta al pubblico ce la siamo persa per qualche giorno, ma i vari riti e danze continuano per diverse settimane; e allora ci presentiamo all’entrata del kraal reale, dove con la mia solita faccia tosta chiedo alla guardia di poter entrare. Naturalmente mi risponde di no, ma insisto molto gentilmente, in Africa tutto funziona un po’ a caso e quindi sempre meglio tentare anche le cose che sembrano impossibili. E infatti, nella sorpresa più assoluta e con molta facilità, la guardia si addolcisce e ci lascia passare, ma mi avverte che comunque ci avrebbero fermato altri suoi colleghi più avanti. Questo per fortuna non accadrà e per strada all’interno del kraal chiacchiero con un uomo incontrato per caso che ci fa accomodare in una stanza tentando di organizzarci una visita guidata; purtroppo però, quando mi fanno parlare al telefono con la persona che si occupa dell’accoglienza, mi viene detto che non è possibile e che dobbiamo uscire dal palazzo: “la cerimonia si è già svolta e non ci sarà più nessuna danza; ma chi vi ha fatto entrare, non potreste stare qui dentro”, mi dice.

Siamo comunque soddisfatti di essere riusciti a vedere l’interno del kraal reale e ce ne andiamo verso l’uscita, quando di fronte a noi vediamo sfilare tanti uomini a petto nudo e vestiti con un pezzo di pelliccia, armati di scudo e bastone, che stanno entrando all’interno di un grande recinto. E allora riprovo con le mie richieste impossibili chiedendo ad un ufficiale di farmi assistere alla danza, che a quanto pare si farà. Rifiuto totale, mi dice che non può, in quanto avrebbe bisogno dell’autorizzazione del supervisore. “E allora fatemi parlare col supervisore!!!” Per farla breve, dopo un lungo tira e molla, mi viene concesso di seguire uno dei partecipanti, ma solo dopo essermi tolto le scarpe e lasciato la macchina fotografica in auto (che intanto mi hanno fatto parcheggiare al contrario perché era l’unica con il muso non rivolto verso il recinto… ah, questo misterioso Swaziland!). Ed ecco ritrovarmi in un angolo, unico bianco all’interno del recinto pieno di uomini vestiti in modo tradizionale che eseguono, disposti in semicerchio, una strana danza rituale, sbattendo di tanto in tanto gli scudi per terra; al centro un’unica telecamera autorizzata della televisione che filma il tutto. Durerà quasi una mezz’oretta, non mi sembra vero, pare di essere in un documentario. S-P-E-T-T-A-C-O-L-O-!

 

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Parte 26, Johannesburg, avventura in una township

 

Vedere gli uomini danzare nel kraal reale è stata l’ennesima gran bella esperienza africana, assolutamente non prevista, proprio quando ormai non mi aspettavo più niente da questo viaggio; peccato per Alba che non ha voluto seguirmi e mi ha atteso in macchina. Mentre osservavo la cerimonia alcuni dei partecipanti mi guardavano in modo strano ed avevano delle espressioni nei miei confronti che sembravano dispregiative,ma mi ha davvero divertito ed emozionato, ho assistito a qualcosa che uno si aspetta di vedere solo in televisione. Proprio strano questo Swaziland, mi sarebbe piaciuto partecipare alla festa principale qualche giorno fa oppure all’altro grande festival annuale chiamato Umhlanga, dove viene offerta al re la possibilità di conoscere alcune potenziali mogli, spesso molto giovani.

 

Attraversiamo la capitale Mbabane, piccola sosta al supermercato alla ricerca di cibo e, per l’ultima volta, rientriamo in Sudafrica, direzione la grande e frenetica Johannesburg. La strada principale è spesso interrotta per lavori in corso e quindi siamo costretti a continue deviazioni. Ad un certo punto vediamo macchine ferme e tanta gente in strada, sembra un incidente. Mi accosto, sulla destra c’è un’autocapovolta: alcune persone vanno verso il guidatore, che intanto era uscito dal veicolo sano e salvo, e lo cominciano a schiaffeggiare! Sembra una scena da film! Poi alcuni testimoni mi raccontano che questo tizio stava guidando ubriaco e nel tentativo di un sorpasso impossibile si è strusciato con il veicolo, con neonato a bordo, che procedeva nel senso di marcia opposto, proprio 3 o 4 macchine davanti alla nostra. Per fortuna nessuno si è fatto troppo male e il pazzo in questione provvede bene a nascondere la bottiglia d’alcol che aveva in macchina prima che arrivi la polizia, giunta sul posto qualche minuto più tardi.

Non posso lasciare il Sudafrica senza essere entrato in uno delle numerose township, sarebbe come andare a Rio e non vedere una favela oppure essere a New York senzavisitare il Bronx;ma qui la criminalità è tutta un’altra storia e ancora oggi è molto radicata e pericolosa. Mi è sembrata un po’ riduttiva l’ideadi acquistare uno di quei tour organizzati che ti portano in giro nel quartiere e poi fanno la sosta in una tipica shebeen (i bar clandestini usati dai neri all’epoca dell’apartheid), quindi con forza e coraggio decidiamo di fare tutto in autonomia e non limitarci ad un semplice giretto:abbiamo deciso che per l’ultimo giorno in Africa faremo la più stupida delle cazzate,trascorrere la notte a Soweto, la più grande e famosa township al mondo, dove 2 premi nobel per la pace una volta abitavano sulla stessa strada.

Entriamo nell’immenso agglomerato urbano di Johannesburg, è davvero un bel casino, anche con la cartina che ci è stata data alla Hertz ci perdiamo facilmente. Dopo tutte le brutte storie ascoltate su questa città abbiamo un po’ di paranoia, perciò giù le sicure e cammino lentamente quando vedo un semaforo rosso a distanza (così da non rimanere troppo fermi sullo stesso punto). Arriviamo a Soweto (ufficialmente abitata da 2 milioni e mezzo di abitanti, anche se si stima che siano 5 milioni): è affollata e ci sono vecchie costruzioniintorno, ma noi cerchiamo di rimanere il più possibile sulla strada principale e seguire dettagliatamente le indicazioni che avevo trovato su internet per raggiungere l’unico ostello del quartiere (che poco intelligentemente non avevo prenotato).Purtroppo i punti di riferimento sono talmente pochi che dopo un paio di tentativi non riusciamo a raggiungere la nostra destinazione, quindi ci fermiamo ai vari distributori di benzina illuminati per chiedere informazioni.

A Soweto molte persone sembrano non conoscere l’alloggio al quale siamo diretti esono sorprese nel vedere 2 bianchi che se ne vanno in giro di notte da soli; fino a quando troviamo un ragazzo che ci suggerisce di seguirlo, con la promessa di portarci nel posto giusto. Non sembra così male e non ci resta altro che fidarci: attraversiamo strade buie, siamo circondati da baracche, si vedono persone in giro a piedi e si ha spesso l’impressione di essere nel posto sbagliato. Il tizio ad un certo punto si accosta, ci dice che l’ostello deve essere in zona, ma non sa di preciso dove; e allora chiede ad un passante che pare ne sappia qualcosa in più e chesi offre di entrare in auto con noi per portarci a destinazione. Oh mio Dio!!! Neanche il tempo di pensarci ed eccoci,di notte, in giro per Soweto con uno sconosciuto in macchina: facciamo un giro, ma questo posto proprio non lo troviamo. Il tipo deve andare via e ci lascia, allora raggiungiamo l’unica strada della township dove ci sono 2 o 3 locali tra bar e ristoranti: è la strada dove abitava Mandela e l’hanno resa un po’ più pulita per accogliere i turisti. Vediamo un paio di cartelli con la scritta B&B, a quanto pare non c’è solo un alloggio a Soweto, ma purtroppo sono tutti pieni, quindi chiediamo informazioni ad un parcheggiatore abusivo, poi ad un cameriere, poi ad un altro che ci dà delle indicazioni:“l’ostello da noi cercato è in zona”, ma non sa dove sia di preciso. E allora ci avventuriamo ancora egiungiamo ad un edificio che sembra essere un museo: ci sono le guardie fuori, chiediamo aiuto, ora abbiamo sul serio paura di non sapere dove dormire stanotte; ma loro ci danno una mano, chiamano l’ostello in questione (per fortuna avevamo il numero sulla Lonely Planet) ed il proprietario della struttura ci viene finalmente a recuperare.

Anche l’ultimo giorno del viaggio e per l’ennesima volta abbiamo commesso la stronzata di arrivare al buio e se questo è già di per sé un posto poco consigliato per andarsene in giro di giorno, figuriamoci di notte. Il problema è che da un po’ di tempo le mattine non riusciamo più a svegliarci presto, quindi facciamo sempre tardi, con tutti i rischi che ciò può comportare quando si viaggia in Africa; e poi oggi, tra la cerimonia improvvisata in Swaziland che non volevo assolutamente perdere e le varie deviazioni di strada per lavori in corso (incidente incluso) proprio non ce l’abbiamo fatta a fare presto.

L’ultima notte del nostro viaggio, fino alla fine alla ricerca di guai, finalmente siamo giunti a destinazione: una casa con stanze private messa davvero bene, gestita dal ragazzo di colore che ci è venuto a recuperare e la sua compagna europea. Ci siamo persi a Soweto di notte, tutti sono stati disponibili ed hanno tentato di aiutarci, uno addirittura è entrato in macchina con noi, nessuno ci ha rapinato né sparato. Allora chiedo un’opinione alla ragazza bianca che vive qui da diversi anni ed anche lei conferma ciò che ho sempre pensato: è tutta una paranoia generale, Soweto non sarà Disneyland, ma con le dovute attenzioni ci si può vivere come in ogni altro posto del mondo. Ne ero assolutamente convinto e l’abbiamo provato di persona. Siamo soli in tutta la struttura, la mattina seguente arriva un altro ragazzo europeo che ci dice la stessa cosa: “tutti si cagano addosso a venire qui, ma basta usare il buon senso, io vengo a dormire a Soweto tutte le volte che passo da Johannesburg”.

Ora non ci resta che vedere il quartiere di giorno: passeggiamo per gli isolati più famosi, dove sono avvenute le grandiribellioni degli studenti negli anni ‘70, dove una volta abitavano Mandela e Tutu, dove ora c’è la segnaletica per i turisti che indica i punti chiave. Prima di lasciare la township facciamo un giro tra le vicine baraccopoli e regaliamo gli ultimissimi indumenti che abbiamo ad un gruppo di persone accampate alla meglio su uno spiazzo di erbacce: appena tiro fuori il mio paio di scarpe un ragazzo me lo strappa dalle mani e va via; speriamo che ne abbia veramente bisogno. Tutti ringraziano per i doni, salutiamo e lasciamo Soweto con un po’ di malincuore.

A pranzo ci fermiamo in uno dei tanti mega centri commerciali di cui gli abitanti di Johannesburg vanno fierissimi e mangiamo carne in una delle solite catene in franchising.I camerieri da queste parti sono esageratamente gentili e hanno la cultura di passare ogni 5 minuti a chiedere se va tutto bene;abbiamo avuto la stessa sensazione in tutti i ristoranti d’Africa, a differenza dell’Europa qui viene vista come una maniera di dare un ottimo servizio, per noi invece è una rottura di scatole. Ricordo che alle cascate Vittoriaavevamo mangiato per 2 volte nello stesso ristorante e la seconda sera sapevamo già in che momento della nostra cena la cameriera sarebbe ripassata a chiedere se è tutto a posto;e noi a farci delle grandi risate!Sembrava un registratore automatico, con domande e tempi programmati, evidentemente per loro la cortesia si dimostra in questo modo o forse pensano così di imitare noi occidentali.

Lascio Alba al centro commerciale ed in auto mi dirigo verso l’ultima visita: non posso non spendere almeno qualche ora nel grande museo dell’Apartheid.Alla biglietteria danno un ticket dove sul retro può esserci scritto White oppure Non-White e a seconda del tagliando ricevuto si entra attraverso una delle porte, divise secondo una classificazione razziale; nella parteiniziale del percorso posso vederenel corridoio parallelo le persone che hanno il biglietto diverso dal mio, ma non ci si può mischiare. E così si ha subito un’idea di come si viveva separati all’epoca della segregazione. Il museo dell’Apartheid meriterebbe almeno un giorno intero (che io non ho a disposizione) per visitarlo tutto: è interessantissimo, ci sono documenti, film, testi, audio ed esibizioni che testimoniano in modo dettagliato nascita, attuazione e caduta dell’apartheid.

Torno a riprendere Alba, veloce fermata al distributore di benzina per fare il pieno e via, dritti verso l’aeroporto, dove lasciamo l’auto affittata e con estrema calma facciamo il chech-in per il volo di rientro.

 

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Parte 27 (ultima), Conclusioni e Statistiche di Viaggio

 

Questi i numeri sul contachilometri della macchina usata in Sudafrica per gli ultimi 18 giorni: 4805 km percorsi, 51 km all’ora la velocità media, 93,6 le ore di guida, 13,1 km per litro il consumo medio di benzina. Rappresentano solo l’ultima e più facile parte del nostro viaggio in Africa, un’esperienza intensamente vissuta fino alla fine; anche l’ultima sera della nostra vacanza in una township è stata estremamente avventurosa e movimentata. Con il ritorno a Johannesburg abbiamo chiuso il cerchio di un percorso incredibile, è stato il top dei viaggi, che non significa per forza il più bello, ma sicuramente il più estremo, il più difficile, il più vissuto, quello dove ho scattato più foto, quello con più paranoie e fobie inutili, quello dove ci sono stati più momenti e situazioni che non t’aspetti.

100 Giorni d’Africa, 100 giorni di barba mai tagliata, 100 giorni di esperienze con poca vita notturna, ma con troppe alzatacce all’alba. Una zona del mondo piena di problemi, dove l’AIDS si contagia come l’influenza da noi, dove in alcune zone nei bagni pubblici si trovano preservativi gratis a volontà, ma manca la carta igienica, dove  in altre aree i bagni pubblici non esistono ed i minibus fanno la sosta in strada nel bel mezzo del niente (le donne pisciano dietro l’albero di destra e gli uomini a sinistra), dove alcuni africani contraggono l’HIV semplicemente perché il condom non gli piace usarlo, dove molte persone muoiono perché non hanno accesso alle cure o semplicemente perché si dimenticano o non hanno voglia di prenderle. Un’Africa dove i bambini sono quasi sempre sorridenti e si divertono con niente, un’Africa ancora troppo schiava dell’uomo bianco, a volte psicologicamente, altre in pratica, un’Africa con paesaggi mozzafiato e con la spazzatura che in alcune zone brucia all’orizzonte (… ma questo accade anche a Napoli); un’Africa dove c’è fame, ma ad ogni angolo sbucano i grandi ripetitori delle compagnie telefoniche, un’Africa piena di deserti e zone inospitali, ma che in Lesotho offre addirittura un impianto da sci, un’Africa dove per fortuna esiste il Lesotho, così abbiamo avuto un’ottima scusa per rinnovare un passaporto. L’Africa è piena di contraddizioni.

Noi abbiamo fatto il nostro viaggio, tutto qua, non abbiamo salvato il mondo e neanche ci abbiamo provato, ma ci siamo resi un po’ conto della situazione reale del sud di questo continente. Per quanto riguarda la nostra avventura ci siamo arrangiati un po’ come potevamo, inventati come raggiungere le diverse mete e organizzati come tirare avanti. Anche nei camp stessi a volte mancavano le cose basilari, ma eravamo già preparati a questo: appena incontravamo un supermercato (o qualcosa di simile) facevamo le scorte, se un bagno era provvisto di carta igienica ne prendevamo un po’ di più da usare nel prossimo dove non c’era; e invece gli ultimi giorni li abbiamo trascorsi in scioltezza, senza troppe pretese e spesso ci siamo ritrovati nei negozi sudafricani ad acquistare indumenti per riempire i nostri zaini rimasti vuoti. Ma noi siamo nati fortunati: avevamo le carte prepagate e sono bastate poche ore di volo con uno scalo al Cairo per fare ritorno nel bel Paese, giusto in tempo per Capodanno. Ci avevano detto di fare attenzione, che l’Africa è un posto pericoloso per viaggiare da soli: probabilmente lo è, più che pericoloso, l’Africa è un posto pieno di sorprese, nel bene e nel male, perciò bisogna usare tanto buon senso. Noi le situazioni poco sicure abbiamo cercato di evitarle, ma non troppo direi, eppure siamo ritornati a casa con 2 braccia e 2 gambe.

Ed ora? Ed ora non so se questo racconto sia stato più noioso per me che l’ho scritto o per quei pochi che sono riusciti a leggerlo tutto fin qui. Ora penso di aver scritto il diario più lungo e pesante della mia vita. Ora penso che dai prossimi viaggi scriverò solo mini diari molto sintetici perché non ho più voglia. Ora penso che avrò bisogno di un bel po’ di riposo (eh già, perché io in vacanza non ci riesco proprio a rilassarmi). Ora penso che devo andare dal barbiere a tagliare questa barbaccia. Ora penso al mio prossimo viaggio, sempre estremo si, ma un po’ meno degli altri. Ora penso di avere un’idea che macina nel mio cervello da più di un anno, quando attraversai tutto il Centro America con una vecchia motocicletta tutta scassata degli anni ’80. Ora penso che se ce l’ho fatta con quel catorcio, allora non dovrei avere problemi a raggiungere Capo Nord con il mio scooter? Appuntamento alla prossima estate.

SPETTACOLO!!!

 

 

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STATISTICHE

 

Giorni di viaggio: 100

 

Paesi visitati: Sud Africa, Mozambico, Malawi, Zambia, Zimbabwe, Botswana, Namibia, Lesotho, Swaziland

 

Paese piu' caro: Botswana, Sud Africa, Namibia

 

Paeso piu' economico: Mozambico e Malawi

 

Paese più facile per viaggiare: Sud Africa

 

Paese più difficile per viaggiare: Mozambico

 

Totale spese incluso voli: 5750 Euro (con vaccinazioni)

 

 

 

Itinerario di viaggio:

 

Sud Africa

23/9 - Johannesburg

- Nelspruit

24/9 - Kruger Park

26/9 - Nelspruit

 

Mozambico

27/9 - Maputo

30/9 - Tofo

2/10 - Inhambane

        - Tofo

3/10 - Vilankulo

5/10 - Magaruque (arcipelago Bazaruto)

        - Benguera (arcipelago Bazaruto)

        - Vilankulo

6/10 - Beira

        - Quelimane

8/10 - Nampula

9/10 - Isola di Mozambico

10/10 - Chocas

          - Isola di Mozambico

12/10 - Pemba

14/10 - Ibo (arcipelago Quirimbas)

15/10 - Matemo (arcipelago Quirimbas)

          - Ibo (arcipelago Quirimbas)

17/10 - Pemba

18/10 - Nampula

19/10 - Mandimba

 

Malawi

20/10 - Cape Maclear

22/10 - Lago Malawi (navigazione)

24/10 - NkhataBay

25/10 - Lilongwe

 

Zambia

26/10 - Chipata

27/10 - South Luangwa Park

30/10 - Chipata

31/10 - Lusaka

1/11 - Fiume Zambezi

 

Zimbabwe

3/11 - Harare

6/11 - Bulawayo

7/11 - Matobo Park

        - Bulawayo

8/11 - Victoria Falls

 

Botswana

12/11 - Kasane

13/11 - Chobe Park

          - Kasane

14/11 - Chobe Park

15/11 - Moremi Game Reserve

          - Maun

17/11 - MakgadikgadiPans Game Reserve

          - Maun

18/11 - Delta dell’Okavango

          - Maun

19/11 - Nxai Pan Park

          - Maun

21/11 - Central Kalahari Game Reserve

22/11 - Kang

 

Namibia

23/11 - Windhoek

25/11 - Mondjila Safari Camp

26/11 - Etosha National Park

27/11 - Okashana

28/11 - Ruacana Falls

29/11 - Epupa Falls

30/11 - Etanga (Otjihaa Pass quasi raggiunto)

          - Opuwo

1/12 - Twyfelfontein

2/12 - Spitzkoppe

        - Cape Cross

        - Swakopmund

4/12 - Walvis Bay

        - Sossusvlei

5/12 - Windhoek

 

Sud Africa

7/12 - Città del Capo

8/12 - Robben Island

          - Città del Capo

12/12 - Penisola del Capo

          - Città del Capo

13/12 - Stellenbosch

          - Hermanus

14/12 - Gansbaai

          - Cape Agulhas

          - Swellendam

15/12 - Mossel Bay

          - Wilderness

          - Buffalo Bay

          - Knysna

16/12 - Plattengerg Bay

17/12 - Bloukrans Bridge

          - Jeffreys Bay

          - Port Elizabeth

18/12 - Port St. Johns

20/12 - Mthatha

          - Qunu

          - Mqekezweni

          - Barkly East

 

Lesotho

21/12 - Quthing

          - Malealea

22/12 - Maseru

 

Sud Africa

23/12 - Clarence

          - Durban

24/12 - St. Lucia

25/12 - iSimangaliso Wetland Park

          - St. Lucia

 

Swaziland

26/12 - Mlilwane Wildlife Sanctuary

          - Lobamba

          - Mlilwane Wildlife Sanctuary

28/12 - Lobamba

 

Sud Africa

          - Johannesburg

 

 

 

FINE

 

 

 

 

 

Gianluca

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