Myanmar

Diario di viaggio 2006

di Beatrice

  

 

 

Già da tempo Ivo mi domandava di andare in Birmania.

Io c’ero già stata nel 1997, facendo quello che è tuttora il giro classico: Yangon, Pyay, Bagan, Mount Popa, Mandalay e  stupenda regione limitrofa, per poi scendere al Lago Inle, Pindaya, Kalaw, Bago e Yangon di nuovo. Il viaggio l’avevo organizzato una volta raggiunta Yangon grazie a una piccola agenzia locale che mi aveva messo a disposizione macchina e autista. Gli alloggi, diciamo “molto basic”, li avevamo reperiti tappa per tappa grazie al nostro dolcissimo autista Uim. Si era trattato di uno dei miei viaggi più belli e intensi, a contatto con una popolazione che non ha eguali in fatto di gentilezza e disponibilità. Si era trattato di un viaggio nel tempo, in questo paese al giogo di un regime totalitario, rimasto indietro di decenni rispetto a molti vicini del sud-est asiatico. Si era trattato, insomma, di un viaggio che hai voglia di ripetere, di luoghi che hai voglia di rivedere, di conoscenze che hai voglia di approfondire. Il tutto, ovviamente, scendendo a patti con l’invito, fatto nel 1995 da Aung San Suu Kyi, leader dell’opposizione al governo e agli arresti domiciliari a Yangon da ancor prima che il suo partito vincesse le elezioni del ’90 - e che da allora vive in stato di semi reclusione - a non visitare il paese. Si tratta di una questione da affrontare prima di decidere di fare questo viaggio e non è forse mia competenza riportare i termini delle due posizioni: la mia scelta, sia la prima volta che questa, è stata di andare cercando di portare con la mia presenza il massimo beneficio possibile al singolo individuo, a imprese private, piccole agenzie, compagnie aeree private (in questo viaggio). Ognuno è poi libero di prendere le proprie decisioni, anche differenti dalle mie.

Saltato un altro progetto, mi trovo a inizio dicembre con un volo su BKK in waiting list. In attesa della conferma finale, che arriva solo a due settimane dalla partenza, cerco di capire cosa potrei eventualmente visitare nel paese, visto che voglio evitare di rifare lo stesso viaggio della volta scorsa. Alla fine, nei pochi giorni a mia disposizione, cerco di fare stare: qualche giorno di mare, una meta nuova e l’approfondimento di un luogo già visto. Si rivelerà un’impresa, visto il periodo natalizio e i complicati orari delle tre compagnie aeree private che operano i voli interni birmani, e solo grazie a una piccola agenzia di Yangon, la KST Travel, che mi controlla in tempo reale la disponibilità dei posti e l’effettiva esistenza dei voli (fattore da non sottovalutare) riesco a combinare le tre mete. Nel valutare le varie ipotesi di viaggio, scopro inoltre che appoggiandosi a una agenzia, si ottiene qualche dollaro di sconto sia sulle tariffe aeree che su quelle degli hotel, il che non guasta.

Dopo aver più volte modificato i piani a causa degli orari aerei, a una settimana dalla partenza ho l’operativo voli definitivo e faccio partire una piccola caparra confirmatoria per la KST: ci tengo a sottolineare che il loro aiuto è stato basilare, visto il pochissimo tempo a mia disposizione per organizzare il viaggio, e si sono sempre dimostrati estremamente disponibili, al di là dei grossi problemi di comunicazione dovuti ai frequentissimi blackout a Yangon che me li facevano sparire per ore nel bel mezzo della trattativa via e-mail. Li ho scelti un po’ a caso, in realtà, sulla base di un racconto di viaggio reperito in rete: volevo una piccola agenzia, non pubblicizzata dalla Lonely Planet, e l’Adventure Myanmar utilizzata nello scorso viaggio, è ormai diventato un colosso.

Dopo aver trovato i voli, è partita la ricerca degli hotel, più che altro con scelte obbligate, a causa dell’affollamento della località di mare, Ngapali, e di alcuni voli ad ore antelucane che mi hanno fatto scegliere l’hotel più vicino all’aeroporto di Yangon. Molti dettagli li ho poi definiti una volta arrivata in loco, ma all’imbarco del primo volo gran parte del viaggio era già programmato e, cosa più importante, tutte le date fissate.

 

24/12/2006

Niente di particolare da segnalare per il volo Thai che da Francoforte ci porta a BKK, se non l’inconveniente del secondo check-in obbligatorio, durato due ore, nell’enorme e scomodo aeroporto tedesco: malgrado i bagagli siano già stati inviati alla meta finale da Milano, siamo costretti a fare un’interminabile coda per le sole carte d’imbarco.

Senza gli intrattenimenti di bordo che certe compagnie e certi velivoli offrono, il volo, un notturno, mi sembra senza fine, ma si sa che quando si è in partenza, la tolleranza ai disagi è nettamente maggiore rispetto al ritorno.

 

25/12/2006

Sono perciò stordita quando atterriamo nel nuovissimo aeroporto di Suvarnabhumi, in un tripudio di strutture avveniristiche e luce. La procedura di immigrazione e il ritiro bagagli mi pare richiedano meno tempo rispetto al passato, tant’è che nel giro di mezz’ora siamo già a bordo di un taxi (200 Bath - 4 euro) diretti al Novotel Bangna, a pochi chilometri di distanza dall’aeroporto, dove contiamo di passare la notte che ci separa dal volo AisAsia per Yangon (prenotazione via internet circa 45 euro). Impossibile riposare: è da qualche anno che non torniamo in questa incredibile e caotica metropoli asiatica e la voglia di fare un giretto ci spinge a uscire ben presto, nonostante gli invitanti lettini accanto alla piscina promettano qualche ora di relax totale al sole.

Bangna è una cittadina ricca di negozi e centri commerciali a breve distanza dal limite est della capitale e quindi al capolinea della sopraelevata, l’unico mezzo vincente nel terrificante traffico e smog di Bangkok. Con meno di 2 euro di taxi, ci troviamo in breve a bordo di uno dei “vagoni frigorifero”  dello sky train, diretti al grande magazzino Central Chidlom, scelto a caso sulla cartina. Ogni volta che visito BKK, mi piace fare cose diverse, tanto, se si tratta di shopping, qui sono sempre scelte vincenti.

Ed infatti, passiamo il pomeriggio a curiosare e fare spese, acquistando tra l’altro vari articoli che non avevamo avuto il tempo di prendere prima di partire (o che semplicemente ho dimenticato). Questo grande magazzino, gigantesco e collocato su più di 10 piani, servito da qualche centinaia di addetti alla vendita e alle casse, diventa il nostro campo giochi in questa insolita giornata natalizia: dopo il primo acquisto, scontato per via di un qualche anniversario, entriamo in possesso di un primo buono sconto che scambiamo con alcuni buoni a sorpresa che comportano altri sconti su ulteriori acquisti che permettono di “pescare” altri buoni: insomma giusto l’ora tarda e lo stordimento del fuso orario, riescono a staccarci da questo girotondo da maniaci dello shopping.

E dopo una rapida cena in un semplice ristorante cino-thai affacciato sul viavai di centinaia di persone indaffarate, ce ne torniamo all’hotel per un po’ di meritato riposo.

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26/12/2006

Sveglia poco dopo le quattro per raggiungere alle cinque l’aeroporto, giusto in tempo per questo volo antelucano su Yangon (Airasia, circa 60 dollari a persona). 

Al contrario di quanto capita in Malesia, qui il check-in richiede molto tempo e le code sono lunghissime. Abbiamo solo il tempo di passare l’immigrazione, raggiungere il nostro remoto gate e imbarcarci: la preparazione al volo richiede più tempo che non  volare a destino, dove arriviamo puntualissimi alle 8,30. Un po’ più laborioso è qui il controllo passaporti, ma una volta effettuato e recuperati i bagagli, siamo pronti per affrontare la nostra prima giornata birmana, che è splendida e illuminata da un bellissimo sole. Peccato che non sia altrettanto puntuale la nostra guida, incaricata dall’agenzia di venirci a prendere. Racconto questo episodio solo per cercare di far capire la gentilezza e la disponibilità dei birmani: ci ritroviamo infatti in mezzo ai vari incaricati delle diverse agenzie, probabilmente con uno sguardo un po’ perplesso, visto che nessun cartello riporta il nostro nome né tanto meno quello della nostra agenzia. Si avvicina un ragazzo, una guida, e ci chiede in un italiano decisamente buono se abbiamo bisogno di aiuto. Gli spieghiamo, anche un po’ diffidenti, devo confessare, che pensavamo di trovare una guida della KST ma che evidentemente non è ancora arrivata. Al che lui, senza chiederci nulla in cambio, cerca nella sua agenda, chiede in prestito il cellulare a un’altra guida, e chiama la nostra agenzia per sapere dove sia finito il nostro accompagnatore. Rassicurati da lui, e confortati all’idea che l’agenzia esista veramente,  aspettiamo pazientemente insieme l’arrivo del nostro ritardatario, nonché dei suoi clienti, ancora occupati nel disbrigo delle pratiche di immigrazione. All’arrivo della nostra guida, ci salutiamo e ci augura un buon soggiorno in Myanmar: a giudicare dalla sua cortesia disinteressata, direi la nostra esperienza birmana comincia sotto i migliori auspici.

Discorso ben diverso per il nostro accompagnatore: scopriamo che essere in ritardo non è il peggiore dei suoi difetti. Ben più grave è il fatto che lo paghiamo per avere una guida parlante italiano, ma lui l’italiano non lo sa: una fatica immane per cavargli quattro parole, impossibile effettuare una conversazione. E sarà ancora peggio, quando per spiegarci le meraviglie di Yangon, si affiderà esclusivamente alla lettura di un quadernetto su cui ha riportato, parola per parola,  quanto scritto nella stessa Lonely Planet in mio possesso. Insomma, la mia idea di avere una comoda conversazione in lingua italiana, per facilitare a Ivo il primo impatto con la Birmania, visto che lui mastica poco l’inglese, fallisce miseramente. La prendiamo con filosofia e con una risata: che l’atmosfera birmana ci abbia già contagiato? Questa risulterà essere l’unica mancanza da parte della nostra agenzia, per il resto attentissima e molto disponibile.

Del resto la guida ha attestati di frequenza di 5 anni alla scuola di italiano di Yangon: ma evidentemente nessuno gli ha chiesto di mostrare le pagelle!

La prima novità che mi colpisce mentre ci rechiamo al nostro hotel è il traffico: una enorme quantità di veicoli, e conseguentemente di gente, di cui dieci anni fa non c’era traccia; ed anche un abbellimento delle strade, grandi quartieri moderni, attività commerciali, qualche piccolo centro commerciale: ricordo che nel tragitto dall’aeroporto al centro, 10 anni fa, il primo complesso degno di nota era stata l’università, ragione di vanto dei cittadini di Yangon e eredità del dominio inglese. Ora la città inizia molto prima, e anche le code.

Nulla di paragonabile al traffico di Bangkok, ma indubbiamente sono cambiamenti che mi colpiscono. Il paese è decisamente cambiato.

Raggiunto il Parkview Hotel (30 dollari a camera), sbrighiamo rapidamente le pratiche, lasciamo i bagagli e partiamo subito per l’agenzia. Arriviamo, neanche  a farlo apposta, mentre è in corso uno dei tanti black-out: Mon, la ragazza che ha “subito” la mia interminabile serie di e-mail ci viene incontro, scusandosi per l’ascensore fermo e per il caldo torrido, offrendosi di prepararci un bel the - caldo, ovviamente: il piccolo ufficio assomiglia più a un salotto che alla sede di un’agenzia turistica e c’è una simpatica atmosfera familiare mentre fissiamo i dati degli ultimi hotel da prenotare e confrontiamo orari e date dei voli. Mon e le sue colleghe sono simpatiche ed efficienti e in breve prendiamo gli ultimi accordi, saldiamo il conto e ci permettono di cambiare anche i soldi.

Alle 11 siamo pronti a iniziare l’esplorazione della città: prima tappa (anche 10 anni fa era stato così) è la Botataung Paya. Si tratta della ricostruzione della pagoda distrutta durante la seconda guerra mondiale e la sua particolarità è che l’interno è cavo e si può visitare: si tratta di una serie di corridoi laminati in oro e ricoperti di specchietti, intervallati da grandi nicchie in cui sono conservati antichi o vecchi ex-voto, recuperati in gran parte dalle rovine dello stupa precedente. Nell’insieme un ambiente decisamente kitsch, ma le scene di devozione a cui assistiamo, soprattutto nell’ampio spazio esterno pieno di altarini e statue degli animali che rappresentano i giorni della settimana in cui si è nati, riportano a un’atmosfera di raccoglimento e di rispetto per quella che è una delle tre grandi pagode di Yangon e soprattutto per i suoi fruitori.

Certo non è facile trattenere il sorriso all’interno dei templi buddisti di Birmania. Mi riferisco soprattutto a quanto si trova nelle strutture costruite attorno allo stupa principale, destinate per lo più alla raccolta di oboli e elemosine, sia con gigantesche teche in vetro piene di banconote di sconosciuti tagli che con “strumenti” più arditi, più adatti a un luna park che a un luogo di culto. Per esempio 4 buddha seduti che si danno le spalle ai cui piedi sono poste delle ciotole contrassegnate da cartelli  che indicano salute, soldi, amore e altri oggetti del desiderio. La struttura gira su se stessa, all’interno di una gabbia, e i devoti lanciano delle banconote accartocciate nelle varie ciotole nel tentativo di essere esauditi. Devo dire che ci hanno colpito i lanci molto precisi delle persone attorno a noi che non hanno mai mancato la ciotola di loro interesse. In un’altra sala, una serie di lastre di alluminio in movimento, crea l’illusione di un mare dalle cui acque emerge di tanto in tanto un drago o una ciotola, quest’ultima con il solito evidente significato. 

E poi c’è un laghetto con ponticello da cui la gente getta dei piccoli pesci gatto, in vendita nello stand apposito, o libera delle piccole tartarughe: ovviamente la pozza di acqua un po’ putrida pullula di tartarughe e pesci gatto giganteschi, visto che alcuni devoti, invece di liberarne di nuovi, scelgono di nutrire gli attuali residenti.

Al di là del laghetto, un piccolo padiglione è dedicato al culto dei nat (gli Spiriti, eredità di epoca prebuddista) e a una divinità indù: devo dire che il fatto di tenere “buoni” tutti, mi piace molto. Una dottrina improntata a un sano “non si sa mai nella vita”, la trovo pacifista, giustamente possibilista e lontana dagli assolutismi di altre religioni, che tanta distruzione e dolore hanno portato alle vicende umane, non solo recentemente.

Recuperiamo le scarpe e veniamo condotti al vicinissimo fiume Yangon, che scorre proprio di fianco al tempio: in realtà si tratta solo di un ampio letto fangoso su cui si svolgono comunque dei piccoli traffici.

Altra importante pagoda è la Sule Paya, che segna praticamente il centro della città. Artisticamente non colpisce affatto, le sue dimensioni sono ben poca cosa ma la collocazione è così insolita che non passa inosservata, visto che costituisce il fulcro di una rotonda stradale, tanto che raggiungere l’ingresso non è privo di rischi, nel traffico cittadino. Direi anzi che superata questa difficile prova, la prima operazione da compiere è una ricca donazione di riconoscenza per lo scampato pericolo. Che sia questo un altro degli stratagemmi studiati per raccogliere fondi?

Gli edifici sorti attorno alla “rotonda” sono quanto di più disparato si possa immaginare: residui di palazzi di epoca coloniale, alcuni edifici vittoriani restaurati e trasformati in sede di qualche ente pubblico, parecchi condomini stile anni ’70 in evidente stato di degrado, un ampio prato all’inglese dove non si stenta a immaginare un gruppo di britannici intenti a disputare una partita di cricket, alberi secolari, giganteschi cartelloni pubblicitari di qualche prodotto non ben identificato. Nell’insieme,  ha un suo fascino. Ed è in realtà la sintesi dell’intera Yangon.

A completare il quadro delle caratteristiche architettoniche della città, mancano solo le vecchie case dal tetto in lamiera e soffocate dalla vegetazione ed è in una di queste che ci rechiamo ora, per il pranzo. La nostra solerte guida ha deciso che i vari ristoranti che incrociamo durante il tragitto sono troppo costosi e ci ritroviamo perciò in questa affollatissima locanda, dove in breve viene sgomberato un intero tavolo per noi (evidente atto di cortesia, visto che qui le tavolate sono miste) e ci viene chiesto di scegliere da enormi catini, il nostro menù odierno. In realtà scegliamo solo il piatto principale (a occhio e croce si tratta di gamberi, pesce di fiume e verdure in umido, ma non ci giurerei), poi la casa offre in automatico ciotoline varie di salse, intingoli, un’ottima zuppa di derivazione sconosciuta, verdure fresche condite in maniera insolita e alla fine, un dolce stucchevole che mi rimarrà aggrappato ai molari per una buona mezz’ora. Diciamo che per la sua tipicità, è stata l’unica scelta vincente della nostra guida per l’intera giornata.   

Le visite riprendono di buona lena con il Karaweik, un’imponente struttura in cemento armato “ormeggiata” alla riva di uno dei vari laghi cittadini, il Kandawgyi, nella foggia di un’antica barca reale. Malgrado la totale mancanza di rilievo artistico, questo ristorante, teatro anche di spettacoli folcloristici, è un simpatico elemento decorativo perfetto per le foto ricordo. I giardini dei dintorni (ingresso a pagamento) sono molto curati e tutto è collocato in modo da costituire un perfetto scenario per la barca stessa. Tutto questo non esisteva, 10 anni fa, e dà l’impressione di essere un tentativo di riqualificazione urbana poco funzionale, fumo negli occhi per il turista, e anche per i cittadini, probabilmente, fatto dalle autorità con gli spiccioli rimasti dalla spoliazione delle ricchezze del paese.

Approfondiamo la conoscenza di Yangon con la visita della Chaukhtatgyi Paya, un gigantesco Buddha dormiente protetto da un’immensa tettoia in lamiera, comunque meritevole; la Kaba Aye Paya, una pagoda a detta della Lonely Planet “moderna”, che ci sembra un po’ carente di calore umano e atmosfera; la Kohtatgyi Paya, altrettanto moderna ma resa particolare da un colossale Buddha seduto in pietra e dai ridenti giardini pieni di bambini vocianti, giovani monaci intenti nelle chiacchiere, e la posizione particolare in cima a una collina; nei pressi, un povero elefante vive la sua vita di segregazione su una piattaforma in bella vista, con il solo compito di portare fortuna a chi gli rende visita.

Il pomeriggio volge ormai al termine quando finalmente veniamo scaricati di fronte agli ascensori che permettono l’accesso in tutta comodità a quello che secondo me è l’unico vero rilevante motivo di visita di Yangon: la Shwedagon Paya. Questo monumento non si può liquidare con la semplice indicazione di pagoda: è una collina su cui è stato costruito questo formidabile insieme di stupa, tempietti, padiglioni, altari, cappelle, statue, collegato alla città da quattro scalinate monumentali, su cui domina l’imponente zedi, una struttura a forma di campana alta 98 metri e completamente ricoperta di lamine d’oro. In cima allo zedi, c’è un’asta a cui sono appese decine di campanelle d’oro e d’argento; l’asta sostiene anche una banderuola a vento d’oro e una sfera cava piena d’oro e diamanti. Un piccolo museo fotografico collocato tra i vari edifici sulla piattaforma della Shwedagon permette di farsi un’idea più precisa dell’entità del “tesoro” che domina la città, che in certe occasioni viene calato e rinnovato con doni preziosi, ex-voto e donazioni varie. Speravamo che la nostra guida, almeno in questa occasione, ci stupisse con qualche spiegazione o indicazione sulle abitudini dei tanti che si trovano qui, compiono abluzioni, pregano seduti a terra di fronte a una statua o a una cappelletta; che ci raccontasse perché tante persone se ne stanno sedute in gruppo a conversare come fossero al bar, occasionalmente aprendo borse e consumando qualche spuntino. Invece, nulla: non prova neanche a leggere i suoi appunti o sillabare dalla Lonely Planet. Semplicemente ci anticipa di qualche passo e ci osserva, anche un po’ spazientito, quando la visita comincia a dilungarsi. E’ che la Shwedagon Paya non è solo lo splendido insieme di edifici e le sue ricchezze, ma è soprattutto lo spettacolo dei devoti che verso il tramonto sembrano moltiplicarsi, come se dopo la giornata lavorativa venissero qui a rilassarsi,  a cercare rifugio, quasi fosse una casa. Alcuni, in particolare le donne, si dedicano a ripulire i marmi, spazzando con corti scopini morbidi (so che è una forma di donazione nei confronti della pagoda stessa); altri collocano decine di lampade a olio sui bassi muretti che contornano lo zedi e predispongono per la sera. Mano a mano i tanti neon che illuminano i templi e i buddha si accendono e, nel rosso della sera, ci lasciamo lungamente cullare dal salmodiare di un gruppo di fedeli.

L’irrequietezza molto poco zen del nostro accompagnatore ci richiama alla realtà, perciò scendiamo da una delle lunghe scalinate e raggiungiamo la macchina. In hotel, congediamo con sollievo la guida e dopo una doccia ci concediamo un rapido ma soddisfacente pasto in un vicino bar - ristorante, il Black Canyon. Trattandosi di un locale moderno e “casual chic”, è molto frequentato dai giovani benestanti di Yangon e residenti stranieri, ed è quindi interessante osservare come si siano perfettamente adattati ai dettami della moda occidentale, sia in tema di abiti che di abitudini.

Il tempo di collegarmi rapidamente a internet per prenotare il Novotel di Bang Na per l’ultimo giorno prima della partenza e per scoprire che non c’è l’accesso a hotmail (come indicato dalla LP) e concludiamo questa lunghissima giornata con un coca e rum come unici avventori nel bar dell’hotel, allietati da un gruppo musicale e la loro birmana versione di qualche evergreen e brevi interludi di classici natalizi.  

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27/12/2006

Giornata di trasferimenti e brevi visite.

Malgrado l’evidente stanchezza, è impossibile resistere a letto quando fuori ci aspetta Yangon con i suoi abitanti e un’altra fantastica giornata di sole che però non arriva a far superare i 26 °C.

Dopo la colazione e un ulteriore cambio di dollari in previsione della lunga trasferta fuori città, alle nove ci facciamo accompagnare in una libreria indicata dalla LP per acquistare l’unico testo reperibile in materia di Mrauk-U, nostra prossima meta di soggiorno. La Bagan Bookshop è una stanzetta affacciata su un vicolo, ed è ancor chiusa quando arriviamo noi. Alcuni vicini corrono a chiamare il proprietario seduto in un “ristorante di strada” lì vicino ma gli diciamo di finire il suo pasto mentre noi continuiamo il nostro giretto in questa vecchia fatiscente Yangon. L’attesa è ricompensata dall’acquisto di A Guide to MRAUK-U - An ancient city of Rakhine, Myanmar - edito nel 1992 a cura di un professore universitario del Sittway Degree College, Tun She Khine; il testo è un po’ datato ma è tuttora l’unica opera reperibile sull’argomento.

Continuiamo la nostra passeggiata accompagnati da uno studente che ci chiede gentilmente di farci compagnia per conversare un po’ in inglese. Ci dice poco di sé ma ci bombarda di domande e ci accompagna in un’altra grande libreria, dove però non troviamo nulla di nostro interesse, e prima di salutarci per recarsi a scuola,  ci mette sulla strada per  il Bogyoke Aung San Market, tappa impedibile dello shopping. Sono brava e evito di appesantire ulteriormente il bagaglio (del resto, 10 anni fa avevo già fatto la  mia razzia!), ma mi innamoro di una serie di statue di legno che raffigurano il buddha e 5 monaci che lo seguono per la questua. Mi riprometto di pensare all’eventuale acquisto, prendo il numero di telefono di questo negozio creato all’interno del mercato stesso e ce ne torniamo in albergo per chiudere gli zaini e recarci in aeroporto per il nostro volo Bagan Air delle 13,00  (77 USD con scalo a Thandwe, dove cominciamo a dare “un’occhiata” a Ngapali). La Bagan è un’ottima compagnia, la più recente delle tre compagnie aeree private, e con un servizio leggermente migliore. Arriviamo quasi puntualmente a Sittwe dove ci attende un rappresentante dell’agenzia locale e un auto con l’autista che si occuperà di noi fino alla nostra partenza, domani, per MRauk-U. Purtroppo pare sia tardi per partire questa sera stessa - quanto meno si vuole evitare di farci navigare senza luce - o forse vogliono semplicemente incrementare un po’ il turismo a Sittwe, che, obiettivamente, non offre molto.

Passiamo in hotel a depositare i bagagli (Shwe Tha Zin USD 40) e cominciamo a esplorare questa tranquilla cittadina di provincia: tralasciamo l’imponente museo (e un po’ ora mi dispiace) e ci dedichiamo a una pagoda non menzionata dalla LP la cui caratteristica è di assomigliare molto alle moschee del nord della Malesia, con un ampio spazio colonnato dove le persone  stanno sedute a terra in gruppi a chiacchierare; un’altra pagoda, sempre non menzionata dalla LP, con un grande buddha seduto, sovrastato da da un insolito tetto a più stati di lamiera al cui culmine spicca un orologio molto British e una cupoletta dorata da chiesa russa, il tutto decorato con arrugginite “trine”, sempre di lamiera. Purtroppo non mi è possibile citare i nomi perché pur avendo trascritto “i suoni” pronunciati dal nostro autista, mi risultano attualmente illeggibili, ma ritengo che soprattutto la seconda sia impedibile, per eccentricità, arditezza architettonica e style fusion (o confusion, che dir si voglia). Altra tappa è il monastero ricavato in una antica villa coloniale, il Maka Kuthala Kyaungdawgyi, dove osserviamo le teche piene di antiche monete (ma ho l’impressione che la polvere che le decora sia ancora più antica delle monete stesse) e altri “reperti” vari poco identificabili, ma dove soprattutto ci dedichiamo a un’interessante conversazione a sfondo calcistico con i  giovani monaci.

Ci divertiamo a diventare fonte di interesse e divertimento nel locale mercato, aggirandoci tra bancarelle e enormi pesci essiccati appesi. Andiamo ad osservare il tramonto al Point, una sorta di parco in cima alla penisoletta su cui sorge Sittwe con vista sul Golfo del Bengala; e infine, secondo una perversa logica del nostro autista, quando ormai è quasi buio, visitiamo la Lokananda Paya, la più grande pagoda della zona che sorge appena fuori città. Della pagoda vediamo ben poco ma veniamo presi d’assalto da gruppi di studenti in gita dalla regione limitrofa ed è molto piacevole stare  a conversare in questo inizio di notte birmana, tranne che per i nugoli di zanzare che si interessano esclusivamente a me e che scatenano le risate dei nostri simpatici amici.

Cena a base di autan e pesce al piacevole River Restaurant, coffee mix in un bar per coppiette lungo la Main Street e rientro in hotel: anche domani la sveglia suonerà molto presto…

 

28/12/06

…talmente presto che, quando ci presentiamo nella sala da pranzo in cima all’hotel (gran bella vista), è ancora tutto buio e solo dopo aver lungamente bussato, ci viene ad aprire il personale che a quanto pare alloggia qui per la notte.

Alle 7,30 siamo sulla nostra barchetta che in sei ore circa ci porta a Mrauk-U: dal porto fluviale di Sittwe si naviga seguendo la corrente, nella bruma del mattino. Improvvisamente  il fiume diventa enorme, tanto che penso di essere giunta al mare. Solo dopo parecchio, quando vedo i bufali che si bagnano e i piccoli villaggi che si susseguono sulla sponda fangosa, mi convinco che siamo già sul fiume che risale fino a Mrauk-U. Fa freddo e recuperiamo dagli zaini tutte le felpe e gli indumenti utilizzabili per cercare di contrastare questa umidità che entra nelle ossa. Il sole è ancora troppo fioco per fare il suo lavoro  e i barcaioli, mossi a pietà, ci forniscono qualche coperta. Cerco di dimenticare il disagio studiando le origini dell’antica città che stiamo per visitare: è evidente che l’autore della LP ha preso a piene mani dal testo dell’universitario birmano.

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Gradualmente il fiume si restringe fino a diventare a tratti poco più largo di un canale: siamo circondati da campi coltivati, alte canne; qualche pagoda sorveglia in distanza il nostro passaggio. Si fa fatica a immaginare che proprio qui, in questo splendido contesto, nel novembre 2004 cinque turisti italiani e due birmani abbiano perso la vita a causa di un ciclone che ha capovolto una barca come la nostra, poco dopo il tramonto. Forse è in fondo per questo che malgrado il nostro insistere, non ci hanno voluto far partire ieri pomeriggio.

Arriviamo che sono quasi le due, in un caldissimo assolato pomeriggio, e veniamo accompagnati rapidamente al nostro alloggio, il Vasali Hotel (35 USD).  Si tratta di un complesso appena fuori dal centro (centro!) del paese: una serie di bungalow con veranda e un bel giardino, sovrastati dalla più alta collina della zona, su cui svetta la Shwetaung Paya, la Pagoda della Collina d’Oro.

Lasciamo i bagagli e partiamo subito alla scoperta del sito: il nostro autista decide che per oggi ci occuperemo solo della zona sud, che a dire il vero mi lascia poco soddisfatta, ma che costituisce un’introduzione a quanto vedremo domani. Iniziamo perciò con la Jinamanaung Paya, leggermente diroccata ma posizionata in cima a una collinetta che permette scatti suggestivi e un primo impatto dall’alto su Mrauk -U. Vediamo così le varie colline che costellano la città, la maggior parte delle quali sono sormontate da una paya; vediamo così gli ampli campi coltivati, i fuochi accesi dai contadini e i grandi bacini artificiali creati ai tempi d’oro della città, quando Mrauk-U era la ricca capitale del regno Rakhaing, tra il 1430 e il 1784, epoca a cui risalgono tutte le pagode oggetto della nostra visita.

Ripartiamo e l’autista ci consiglia di fare quattro passi in coincidenza con la Porta di Laksaykan, un passaggio in quanto resta delle vecchie mura della città. Ci ritroviamo così di fronte a due grandi bacini e ci incamminiamo seguendo le donne che vanno a prendere l’acqua con grossi vasi d’alluminio: la campagna qui è spettacolare e anche se per il momento la visita lascia a desiderare dal punto di vista archeologico, siamo ampiamente ripagati dallo splendore del verde e della natura.

Nuova sosta al Bandoola Kyaung, un vecchio monastero parzialmente integrato da nuove strutture in cemento. Ovviamente, malgrado l’ottima posizione, non ci colpisce affatto.

Ce ne andiamo abbastanza rapidamente e l’autista ci porta al Palazzo Reale. O meglio, a quanto resta del Palazzo Reale, ossia l’accesso, parte delle mura, le fondamenta, visto che il palazzo era costruito in legno ed è andato completamente distrutto. C’è ben poco qui da vedere, a parte il museo che sta chiudendo. Ma su nostra richiesta acconsentono a ritardare la chiusura permettendoci così di vedere i pezzi che compongono la collezione: parecchie stele, ricche di iscrizioni, teste di buddha, qualche statua. In realtà si tratta di ben poca cosa se si pensa all’estensione e alla evidente ricchezza di questo sito: evidentemente si tratta di uno dei tanti posti che hanno costituito luogo di rifornimento selvaggio per i vari antiquari di Bangkok che non restano mai a corto di antichità di origine birmana.

Ultima tappa prima di rientrare è la Haridaung Paya al tramonto. Arriviamo con abbondante anticipo e ci accomodiamo in attesa. Osservando come la luce cambi lentamente e come, con l’accensione dei fuochi nelle abitazioni nella valle sottostante, il paesaggio si riempia di fumo che gradualmente si incendia del colore del sole nascosto dietro alle nubi all’orizzonte. Decisamente un tramonto molto suggestivo.

Rientriamo in hotel, ottima cena (notevole il cuoco del Vesali ma bisogna avvertire per tempo dell’intenzione di fermarsi a cena) e riposo. Anche questa giornata è stata lunghissima.

IMG_2215 Koethaung Mrauk-U.JPG (278342 byte)    IMG_2194 Haridaung Paya Mrauk-U.JPG (253281 byte)    IMG_2105 Shwedagon Paya Yangon.JPG (211802 byte)

 

 

29/12/06

Alla mattina alle sette e mezza, l’aria fresca, fuori dal bungalow, è una sferzata a cominciare rapidamente la giornata di visite. Dopo una colazione un po’ asfittica (unica piccola nota negativa del Vesali), siamo pronti ad iniziare l’esplorazione della  zona a bordo della nostra jeep, residuato di qualche remoto evento bellico. Le strade sono infatti in gran parte sterrate e posso immaginare che nella stagione delle piogge, anche fare poche centinaia di metri, qui, sia una vera impresa. Si comincia comunque a notare qualche segno di cambiamento in corso: incontriamo infatti quasi subito un piccolo cantiere, dove gruppi di donne si occupano della preparazione del fondo stradale per la creazione della strada vera e propria. Anche se molte di loro ci salutano e sorridono in maniera discreta, è sempre un colpo allo stomaco vedere donne che spaccano e trasportano pietre, soprattutto se si considera che si tratta di lavori obbligatori a cui tutti i birmani si devono puntualmente sottoporre. Una sorta di esazione fiscale in forma di forza lavoro. Per me, lavori forzati.

La prima tappa è al tempio Koethaung, letteralmente “santuario delle 90.000 immagini”: di Buddha, ovviamente. Collocato al centro di un’ampia pianura di campi coltivati, la prima immagine che mi colpisce è quella del terreno attiguo al complesso in cui un uomo ara il suo campo al seguito di un grosso bufalo. Ed è una costante di tutte le visite: i templi, i santuari, le rovine qui non sono altro che lo sfondo a una intensa, faticosa vita rurale. E noi pochi turisti siamo bizzarri, curiosi ospiti. Al tempio, ancora in corso di una discutibile opera di restauro, ci attendono i bambini, i ragazzini, che ci adottano nel corso della visita. Si tratta di una brutta pratica che sinceramente tendo a scoraggiare in ogni modo, visto che so che, come in tutti i paese poveri, in molti casi questi bambini non frequentano la scuola per riuscire a raccogliere gli oboli dei turisti. Fortunatamente sarà questo l’unico caso qui a Mrauk-U, mentre è purtroppo un’abitudine consolidata in altri luoghi.

La parte di maggior pregio è a mio avviso quella nelle gallerie che circondano interamente il complesso: 90.000 buddha di varie dimensioni (mi sembrano tanti ma sinceramente non li ho contati), a tutto tondo o in bassorilievo, indifferenti al nostro passaggio, se ne stanno celati nell’ombra degli stretti passaggi o in pieno sole, laddove il soffitto è crollato. Ed essendo questa la nostra prima visita odierna, ci divertiamo a scrutare attentamente tutte le immagini, a perdere tempo girando liberamente, facendo foto e osservando gli operai che mettono le gallerie in sicurezza.

Tappa successiva a poche centinaia di metri di distanza: difficile farsi un’idea precisa di questa Pizi Paya in quanto si trova su una collinetta e tutta la copertura è andata distrutta mettendo allo scoperto i 4 buddha seduti che si danno le spalle,  sovrastati da un quinto in equilibrio sul poco rimasto della struttura della pagoda originaria. Inoltre  il tutto è avvolto in una rigogliosa vegetazione che ne cela la vista fino a quando non ci si trova proprio sotto: eppure, non si ha l’impressione di rovina ma di mistero e di giusta riservatezza, come se la natura fosse andata a sopperire là dove la realizzazione umana aveva fallito il suo scopo di protezione e celebrazione.

Ovviamente la Pizi Paya costituisce un ottimo punto di osservazione per l’intera piana, i suoi splendidi campi e, a breve distanza, il Tempio Koethaung.

Saliamo anche alla Paya Ouk, costruita come offerta devozionale da un re per salvaguardare l’unione del paese in un periodo di crisi (Oke significa tenere il controllo dell’intero stato). E’ stata evidentemente restaurata e si caratterizza per bel frontone all’ingresso e per le 29 ampie nicchie contenenti un buddha seduti che costellano l’intero basamento circolare. Malgrado le dimensioni nettamente superiori, la Mong-Khong-Shwe-Du  lì di fronte risulta un po’ anonima.

Anche la Nibbuza Paya è su una collina: in realtà si tratta di tre pagode collocate ad altezze differenti ma al momento solo la prima è integra e visitabile.

Siamo già allo sbando mentale, a furia di incamerare immagini, quando arriviamo alla Sakyamanaung, un grosso complesso: una pagoda di 85 m dalla forma insolita e riccamente decorata, circondata da pagode minori, su un’ampia spianata circondata da mura. All’ingresso, ci concediamo alcune foto coi vari carretti a cavallo addetti al trasporto dei turisti e con le due statue di giganti inginocchiati che controllano severi il nostro passaggio.  Il sole picchia, ormai, tanto che i giganti sono protetti da inestetiche pensiline, e le visite stanno diventando faticose.

La valle è stretta in questa zona e attraverso dei viottoli percorsi mandrie di vacche magre, raggiungiamo la Ratanamanaung: di per sé non particolarmente appariscente, senza nicchie, né statue, si ricorda per un piccolo edificio separato, detto sima, interamente in pietra, con un’insolita volta e pieno di antichi buddha. Peccato per l’obbrobriosa pavimentazione in piastrelle tipo bagno anni ’80, peraltro comune a molti ambienti in cui il restauro è stato affidato a un occhio poco esperto interessato al solo aspetto pratico.

Alle spalle della pagoda, su una collina, un ampio monastero ci osserva ma decidiamo di non salire: ci mancano ancora i templi maggiori e temiamo di non riuscire a vedere tutto.

Superiamo un villaggio incuneato tra due piccoli rilievi e svoltiamo in una piccola valle un po’ discosta: la percorriamo tutta, prima di iniziare le visite e riconosco che è questa una delle parti della visita che mi ha maggiormente emozionato.

Sul fondo della valletta, si individuano i resti delle mura di mattoni della città e la strada termina in corrispondenza con la Pitakataik, la libreria, o meglio una delle 48 librerie che esistevano nell’antica città di Mrauk-U. L’autista ci informa che è anche chiamata Fiore di Pietra e questo nome si addice decisamente a questo piccolo edificio di pochi metri interamente ricoperto di intarsi, fiorellini, volute e gugliette: il tutto è purtroppo in grave stato di degrado e la squallida tettoia di lamiera sembra solo un tardo tentativo di salvare quello che doveva essere un capolavoro di scultura  e intaglio nella pietra. Rimango un po’ perplessa di fronte alla dimensione veramente minuscola dell’edificio, lungo 4 m e alto meno di 3, finchè non ricordo che i libri buddisti non sono altro che rotoli di scritture per lo più su foglie di palma pertanto non ingombranti come i nostri tomi.

Ripercorriamo lentamente a piedi la valletta ritornando sui nostri passi: muovere continuamente la jeep significa alzare enormi nubi di polvere, lungo la strada sabbiosa e diciamo perciò all’autista di aspettare un po’ all’ombra di un alberello rachitico e di raggiungerci solo quando avremo visitato i vari templi che costellano la strada.

Il primo che incontriamo riusciamo a identificarlo a fatica come Htuparyon Paya: si tratta di una pagoda senza indicazioni di sorta e completamente immersa nella vegetazione. Ci addentriamo con cautela, visto che tutte queste visite si svolgono ovviamente a piedi nudi, e con non pochi disagi per i nostri piedini cittadini, raggiungiamo il retro dove la nostra curiosità viene ripagata dalla vista di una bella nicchia riccamente decorata con altorilievi e un bel buddha ombreggiato dalle frasche, probabilmente non originale ma molto pittoresco, nell’insieme.

Cercando di liberarci dalle spine insidiose di certi arbusti che si divertono ad attaccarsi ai nostri vestiti e, ahimè, alla nostra pelle, raggiungiamo un altro tempio poco distante, il Laungbanpyuk, che si caratterizza per delle enormi formelle a forma di loto, colorate e invetriate, che decorano l’intero muro di cinta. Non siamo soli, in questa visita: veniamo infatti raggiunti da un nutrito gregge di capre che aggiungono ulteriori insidie al percorso per i nostri poveri piedi martoriati.

Attraversiamo la strada  e risaliamo un lievissimo pendio per raggiungere un buddha seduto che ci dà le spalle, neanche menzionato dalla LP. L’iscrizione dice Anawma Image - Princess Anawzar - 1501. Rimaniamo a bocca aperta di fronte allo splendido basamento riccamente decorato e oggetto di un evidente recente restauro: animali fantastici, figurette umane impegnate nelle più svariate occupazioni (le jataka), trine di pietra levigata. Viene naturale immaginare che l’ispiratore di un’opera di tale garbo e delicatezza sia una donna, una principessa, in questo caso. Alle sue spalle, tutta la valle fa da sfondo a questo piccolo gioiello.

A lato, l’insolita Shwekyathein Pagoda è la sentinella di un luogo per me magico.

Raggiunti dal  nostro autista, torniamo all’imbocco della valletta, in prossimità del villaggio.

Su due promontori, sorgono altri due piccoli complessi. Il primo, il RatanaSanRway, consiste di due notevoli pagode che si caratterizzano per la pietra molto scura e per le ricche  sculture. Anche qui sono evidenti i segni di un massiccio restauro.

Sull’altra collina troneggia invece il Mahabodhi Shwegu, dove finalmente incontriamo i primi turisti occidentali intenti ad ammirare i pregiati rilievi che ricoprono interamente la galleria d’accesso alla sala principale della pagoda.

E’ mezzogiorno e ci fermiamo a gustarci la brezza e ad osservare la vita del villaggio che scorre alla base della collina: parecchie donne e bambini con gli immancabili vasi di alluminio si approvvigionano d’acqua al pozzo sottostante.

Inizia così la fase della visita dei templi più grandi e significativi in questo che è uno dei luoghi più fuori dal tempo che abbia mai visitato.

L’autista ci lascia infatti alla Andaw Paya e ci dice di continuare a camminare sulle piattaforme fino a quando ci troveremo di fronte alla lunga scalinata dell’ingresso principale della pagoda Shittaung, percorrendo quindi il cammino logico di visita al contrario.

La Andaw è costituita da una serie di sedici stupa ben conservate (o piuttosto ben restaurate) che introducono a un paio di capre e a un tempio ottagonale. Entriamo nella totale oscurità e illuminiamo con la pila e il flash pareti colorate, budda di giallo vestiti e una triste atmosfera di abbandono. Usciamo per raggiungere l’accesso posteriore alla Shittaung, la pagoda forse più famosa di Mrauk U. Qui ci viene chiesto di pagare il biglietto per la visita dell’intero sito (10$) e una tassa per l’illuminazione (scarsa) dei monumenti. Il posto è decisamente “importante”, come dimensioni e con tutte le sue figurette degli altorilievi, “scolorate” distrattamente, con picchi di colore di un tentativo di restauro amatoriale. Decisamente non amatoriale l’imponente restauro della struttura esterna, ma con risultati anche meno felici: la pagoda sembra modellata col pongo.

Ci lasciamo alle spalle la Shittaung, scendendo la lunga scala che porta ad alcune bancarelle presso le quali in nostro autista si sta rifocillando. Beviamo qualcosa anche noi e mangiamo della frutta prima di procedere alla visita alla terza grande pagoda di questo gruppo settentrionale. La Dukkanthein Paya ricorda in effetti un bunker, come annunciato dalla Lonely Planet, ma il suo interno mi incanta: il corridoio costellato da 146 nicchie si arrotola su sé stesso fino  alla stanza principale centrale, sopraelevata e illuminata naturalmente da un finestrone, dove siede un grande Buddha. Le nicchie attraversano il muro da parte a parte così percorrendo il corridoio si può ammirare sia il retro che il fronte delle tante statue che osservano il nostro passaggio. Inoltre molte nicchie sono adornate sui lati da splendide figurette di nobili signore nell’atto di offrire il fiore del loto a buddha, adornate da splendide acconciature nei sessantaquattro diversi stili previsti nell’antico mondo rakhine. Sicuramente l’interno più interessante, qui a Mrauk U.

Raggiungiamo l’autista e continuiamo il vagabondaggio tra le varie piccole pagode rimaste. Lentamente i colori cambiano e a dispetto della bellezza degli edifici, è la campagna che diventa protagonista, insieme ai suoi abitanti. Ci soffermiamo a lungo a goderci scene di vita contadina, i giochi dei bambini, il momento del bagno e del bucato nei tanti bacini artificiali creati ai tempi d’oro. Il sole comincia il suo declino ma l’ambiente si scalda di calore umano. Si accendono i primi fuochi e noi, dopo una bibita fresca al bar Moe Cherry in paese, ci facciamo accompagnare in hotel per prepararci al rito del tramonto. Alle spalle del Vasali si erge infatti, come dicevo, la collina più alta della zona,  chiaramente decorata con una bella pagoda dorata, la Shwetaung Paya. E da qui, in totale solitudine e in pace assoluta aspettiamo che il sole completi il suo percorso, lasciando rapidamente spazio alle brume, le ombre e le foschie di un paesaggio quasi irreale.

 

30/12/2006 

L’alba ci regala alcune delle immagini più belle del viaggio. Mentre già siamo in navigazione verso Sittwee sul fiume immerso nella nebbia, il sole fa capolino illuminando il paesaggio di una calda tinta tra il rosa e l’arancio. Qua e là emergono brevemente le ombre di piccole canoe dirette verso il villaggio, per poi sparire immediatamente dietro un’ansa del fiume. Poi la nebbia ha la meglio e per mezz’ora siamo costretti a navigare con estrema cautela per evitare di andare a sbattere contro la riva. Forti dell’esperienza dell’andata, ci siamo vestiti con tutti i possibili abiti disponibili e ci godiamo sonnecchiando lo scorrere del fiume e delle sue indimenticabili immagini.

Il ritorno richiede molto meno tempo e quasi senza rendercene conto siamo nuovamente al porto fluviale di Sittwee. Abbiamo anche il tempo per una comoda sosta al River Valley Restaurant per un piatto di pasta di soya e una Myanmar Beer, prima di attendere lungamente all’aeroporto per il nostro volo Air Bagan  che ci porterà a Tandwee a goderci qualche giorno di mare.

 

31/12/2006 - 3/1/2007 

Giornate di mare, spiaggia e relax totale.

Avendo prenotato con molto ritardo, abbiamo trovato posto solo in un hotel appena aperto, l’Aureum Palace (210 USD) sulla spiaggia di Ngapali: costretti a tanto lusso, l’abbiamo presa come una vacanza nella vacanza. In effetti la prima sera, entrando nel nostro spettacolare bungalow con salotto, tv a schermo piatto da 40 pollici, letto a baldacchino e zona bagno grande come certe camere che ci sono toccate in sorte nei nostri viaggi, rimaniamo folgorati: questa sì che è vita.

Le nostre attività consistono in bagni di mare e nella bellissima piscina, ore e ore di sole sui lettini dell’hotel, soprattutto lunghissime passeggiate sulla  interminabile spiaggia. Il bello qui è che gli hotel sono tutti abbastanza distanziati, che c’è poca gente anche se è tutto al completo, che la spiaggia è profonda e che puoi stare anche per lunghi tratti senza incontrare nessuno. Ogni 500m circa si incontrano piccoli gruppi di ombrelloni dove simpatiche signore vendono bracciali, collane e piccoli oggetti di artigianato: in questi shopping malls non puoi fare a meno di fermarti, catturato da un sorriso o da un gentile richiamo, ma anche se non compri, un cordiale saluto e un augurio non ti sono negati. Non che a me capiti spesso, di non comprare, perché le persone sono così gentili e gli oggetti così carini che riesco a fare dei piccoli acquisti un po’ ovunque.

A Capodanno siamo costretti a sorbirci una lunghissima cena in hotel, con un buffet pantagruelico e litri di drink: all’aperitivo sono già sazia e semi ubriaca, ma “sopportiamo” stoicamente tutto il pacchetto che prevede piccoli spettacoli folcloristici (messi in atto dai dipendenti dell’hotel - decisamente poco a loro agio nelle vesti di ballerini e attori), lunghe spiegazioni e discorsi del direttore dell’hotel, chiacchiere varie con la composita clientela, spettacolo finale con lancio di piccole mongolfiere illuminate da lumini accesi e il loro immediato precipitare in mare.

Le altre cene preferiamo gestircele nei ristorantini della zona che raggiungiamo camminando sulla spiaggia. Due sono i nostri preferiti: il Brilliance Restaurant e il Pleasant View Islet Restaurant.

Il primo si trova sulla strada principale ed è gestito da una simpatica giovane coppia. Si tratta di un posto molto semplice ma il servizio è impeccabile e il cibo buono: il proprietario ci intrattiene con il racconto della creazione di questo ristorante, della recente nascita del figlio, dei suoi sogni e delle speranze per il futuro del piccolo. Commovente.

Un giorno, rientrando dal Brilliance, attardandoci nella passeggiata postprandiale sulla spiaggia, un vecchietto ci obbliga a fare uso del suo carretto trainato da un bufalo. Ci parla molto vivacemente per tutto il viaggio, non si sa di cosa, mentre veniamo sballottati sul durissimo assito, e una volta giunti a destino, dobbiamo insistere per pagargli un piccolo obolo per il trasporto, sebbene non richiesto. Questi semplici episodi ci fanno sentire a casa.

Il secondo ristorante è situato su un piccolo promontorio che l’alta marea separa dalla spiaggia. Lo notiamo durante le nostre passeggiate e ci torniamo per cena: l’isoletta è collegata alla battigia da una lunga passerella mentre la “sala” è costituita da una serie di terrazze a palafitta sul mare con tavoli molto distanziati. Cullati dalla risacca attorno e sotto di noi, ci godiamo l’ottima cucina orientale mentre l’alta marea sale e per il ritorno a riva ci dobbiamo affidare a una barchetta. Meglio presentarsi per cena con un abbigliamento comodo: le signore in gonna lunga e abitino attillato che incrociamo al rientro fanno una bella fatica al momento dell’approdo!

In questo clima di totale dolce far nulla, ci concediamo un’unica fatica: una breve escursione in barca che ci viene offerta da un ragazzo sulla spiaggia. Per 15$ passa a prelevarci alle 9 (ora antelucana, soprattutto considerato che è il primo gennaio) e ci porta a breve distanza per una sessione di snorkeling. Ivo si rifiuta di tuffarsi così presto, con il cenone ancora sullo stomaco, nell’acqua decisamente fredda di quella che è la stagione più rigida della Birmania. Io invece mi sento un po’ in obbligo nei confronti del ragazzo che mi guarda con espressione perplessa mentre testo titubante la temperatura dell’acqua: decido pertanto di non fargli un torto e mi tuffo. Incrocio solo qualche pescetto di barriera - comparse, ben poca cosa: credo che sia troppo presto e troppo freddo anche per la fauna ittica locale, o forse sono alle prese coi postumi del veglione. Tant’è che, dopo un decoroso intervallo di tempo, pongo fine alla sofferenza, mia e dei pesci, e torno a bordo. Fortunatamente la tappa successiva è su un isolotto dove, in mezzo a rocce varie, si è creata una spiaggia di sabbia bianca, prontamente attrezzata con baretto, ombrelloni e tavolini. Ordino subito un coffeemix bollente e mi spiaccico per terra nel tentativo di cavare un po’ di calore vitale dalla sabbia. Il barcaiolo ci lascia recuperare le forze per un’oretta prima di proporci uno stop a un villaggio. In una lunga baia protetta, tra alte palme, si cela una comunità di pescatori. Non abbiamo bisogno di inoltrarci tra le capanne: pare che tutti gli abitanti siano, qui, in riva al mare, occupati nelle più svariate occupazioni. Alcuni uomini curano dei fuochi sotto alle barche portate in secca, mentre altri spalmano una sostanza isolante sullo scafo; le donne sono occupate a piegare le reti o a controllare il pesce lasciato su degli immensi teloni a essiccare; i bambini giocano, aiutano gli adulti ma soprattutto osservano curiosi noi stranieri. La gente è simpatica, si offre spontaneamente a qualche scatto o accetta con un sorriso quando propongo loro di diventare  il mio soggetto. Alcuni dei volti più intensi li colgo qui, espressione di una normale giornata lavorativa. Sono in tanti a salutarci quando riprendiamo il largo per tornare alla nostra spiaggia. Ancora una volta, i birmani hanno saputo commuovermi con la loro simpatia, gentilezza e pazienza.

E purtroppo arriva il momento della partenza: alle 14,20 del 3/01/2007 siamo all’aeroporto in attesa di imbarcarci per Yangon con un volo Air Mandalay, la sabbia ancora addosso e il sale nei capelli. Ngapali con le piccole intense emozioni che ha saputo regalarci ci mancherà.

Del tutto inaspettatamente, all’aeroporto d’arrivo troviamo ad accoglierci un addetto dell’hotel prescelto per la notte a Yangon, che ci accompagna (in taxi) per i ben 500 m. che ci separano dal Seasons of Yangon (35$). Dovendo partire molto presto per Bagan l’indomani, preferiamo infatti alloggiare in prossimità dell’aeroporto e recarci in città solo per cena. Buona scelta: l’hotel è buono e la questione logistica e la tempistica nettamente semplificate.

Appena arrivata in hotel, chiamo la bottega in cui avevo visto le statuette che nel frattempo mi sono decisa a comprare. Purtroppo il volo era in ritardo e non ce la faccio ad andare a fare il mio acquisto, Spiego al proprietario il problema e ci mettiamo d’accordo che una volta arrivata in centro per la cena e scelto un ristorante, previa mia chiamata, mi raggiungerà per perfezionare la vendita.

E così facciamo: verso le 19, troviamo un taxi con cui ci accordiamo anche per il ritorno e ci facciamo lasciare allo Strand, il famosissimo hotel di epoca coloniale dove abbiamo intenzione nel dopo cena di berci un drink (12$) e fare un giro nei begli ambienti restaurati, e da qui ci incamminiamo lentamente verso il Monsoon Restaurant. Sulla cartina pareva molto più vicino ma nelle strade pur poco frequentate di Yangon ci si sente tranquilli. Anzi, sono tutti molto contenti di darci qualche indicazione in birmano, quando si accorgono che ci siamo praticamente persi. Miracolosamente trovato il ristorante, un localino che non stonerebbe assolutamente in una via della Milano più in, scatta l’operazione acquisto. Sì, lo confesso: le cose facili non mi si addicono. Avrei potuto comprarle il primo giorno, queste statuine, tanto avevo già capito che non avrei saputo resistere alla solita vocina insidiosa che mi dice “ comprami, comprami”. Ma nonostante il mio rendermi la vita difficile, l‘acquisto fila via liscio come fosse normalissimo raggiungere un acquirente al ristorante per cena con la merce, sedersi al tavolo, contrattare e fare l’affare. Riconosco però che in questo modo, oltre ad amare queste statuine che mi sembrano ogni giorno più belle, sono riuscita a caricarle di una storia loro, che me le rende ancora più care, indissolubilmente legate al ricordo di una splendida vacanza e di un gentile e disponibile signore dal sorriso cordiale. Oltre che a quello di un’ottima, raffinata cena oriental fusion.

Neanche quando il nostro taxi rimane fermo per strada senza benzina e veniamo dati in subaffitto a un altro taxista di passaggio, il mio sorriso soddisfatto si scollerà dalle mie labbra.  

 

4/01/07 

La zona partenze nazionali dell’aeroporto di Yangon è a dir poco zeppo di gente, quando ci presentiamo per il nostro volo Air Mandalay delle 6:30 per Nyaung-U, cioè la porta d’accesso alla meraviglia birmana che porta il nome di Bagan.

Pur avendoci passato già due giorni pieni all’epoca del mio primo viaggio, mi sembrava giusto che Ivo vedesse questo posto incredibile, e che lo facesse con la dovuta calma, per evitare che un continuo sovrapporsi di immagini e templi portasse a un successivo ricordo sfuocato. Perché Bagan consiste in una pianura “cosparsa” di pagode e stupa eretti nei secoli a scopo devozionale e si calcola che nei suoi anni di massimo splendore, nel XIII secolo, questi templi fossero addirittura più di 4000. Ora, dopo secoli, terremoti e crolli “fisiologici”, si parla di 2000 monumenti! Insomma, pur non avendo la presunzione di visitarli tutti, si tratta di una zona molto estesa, ricca di piccoli tesori architettonici e pittorici da gustarsi con la dovuta attenzione e tranquillità, attendendo magari per la visita il momento in cui gli occupanti di un determinato pullman se ne siano andati. Perché Bagan è così magica, che merita questi riguardi, merita tempo, merita anche spazi tra una visita e l’altra.

Sbrigate le formalità aeroportuali che comportano la registrazione e il pagamento di una tassa statale di 10 US$ , ci facciamo portare da un taxi all’hotel prescelto, il Bagan Hotel River View, “probabilmente l‘albergo più suggestivo di Old Bagan, situato proprio alle spalle del Gawdawpalin Temple”, dice la Lonely Planet, e, dico io, adagiato su un’ansa del fiume Ayeyarwady o Irrawaddy. Old Bagan non è un villaggio ma una località circondata dalle vecchie mura in cui sorgono un notevole numero di templi maggiori, il museo e qualche struttura turistica. Mi sembrava, questo, il modo migliore di vivere Bagan nella sua interezza.  Gli hotel situati a Nyaung-U sono sicuramente più funzionali, e anche più belli, a parità di prezzo, ma io cercavo la poesia, e l’ho trovata. Insieme a una certa atmosfera dei vecchi tempi andati, visto che l’hotel ha qualche anno e lo dimostra.

Nella grande reception scura che replica l’accesso a un tempio, attendiamo per un quarto d’ora circa che la nostra camera sia pronta. Sono appena passate le 8, in fondo. Depositati i bagagli, ci armiamo di cappellino e crema solare, e partiamo per la nostra prima giornata di templi. Malgrado l’offerta di vari mezzi di trasporto per visitare il sito, decidiamo per una giornata di full immersion a piedi, sfruttando la posizione dell’hotel, già “al centro dell’azione”. Le strade di Old Bagan sono in terra battuta con una soffice coltre di sabbia che attutisce i rumori e rallenta i passi. Fin dai primi metri, mi rendo conto che ci aspetta una bella faticaccia anche se la guida dice che si tratta di un circuito ad anello di circa 2 km (ma sono tuttora convinta che abbiano barato sulla distanza!).

Iniziamo ovviamente dalla Gawdawpalin Paya, così vicina all’hotel da sembrare parte del complesso. Si tratta di un enorme tempio a due piani, in ottimo stato grazie all’opera di restauro e ricostruzione che ha fatto seguito a un devastante terremoto nel 1975. Vari lavori di rinforzo, anche in epoche successive, non sono stati sufficienti a rendere possibile l’accesso al piano superiore: una misura di sicurezza ricorrente in questi giorni di visita. In pochissimi templi è consentito infatti l’accesso ai piani alti, fatto che noto in maniera particolare visto che durante la mia precedente visita, la salita in cima ai templi era una sorta di rito permesso quasi ovunque.

Ci accontentiamo di percorrere i corridoi al piano terra, dalle alte volte, osservando le statue di 4 buddha dorati sovrastati da resti di pittura.       

Uscendo dalla parte opposta, iniziamo a spostarci da un tempio all’altro, da un piccolo complesso a uno stupa, tutti ignorati dal grosso dei turisti che si dedicano solo ai templi maggiori. C’è una gran pace, da queste parti. In un piccolo tempio, la Atwinzigon Paya, una serie di leoni di pietra, ci permette qualche scatto con i grandi templi in prospettiva: è proprio la Bagan che desideravo gustarmi io.

In breve raggiungiamo uno dei luoghi più fotografati e visitati di Bagan: la Bupaya.

Questo stupa deve sicuramente la sua fortuna alla invidiabile posizione, alto sulle sponde del fiume, con una vista magnifica sulle tante umane attività di navigazione e di coltivazione dei fertili terreni della riva. Interamente ricostruito a seguito del terremoto, che proprio qui nei pressi ebbe il suo epicentro, è oggi una costruzione che ricorda una pera dorata, al centro di una serie di bianche terrazze merlate che scendono fino all’Irrawaddy. Per dare ancora più lavoro ai fotografi che operano in zona, è stata aggiunta una serie di statuette varie dai colori vivaci e dalla foggia artisticamente discutibile: una di queste ho la quasi certezza di averla già vista in una versione figurata di Alice nel paese delle meraviglie.

Decisamente è più meritevole la tappa successiva: ci lasciamo alle spalle il fiume e la Bupaya, incamminandoci lungo il viale alberato e magnificamente rallegrato da immense bouganville per raggiungere la Mahabodi Paya. Qui incontriamo le prime bancarelle, con un vasta selezione dei tipici souvenir di Birmania e di Bagan in particolare: lacche, di tutte le dimensioni e fogge, statue, quadri e sigari, i cheerok birmani, che una ragazza sorridente ci mostra come vengono prodotti. La Mahabodi è una pagoda che resta in mente: la sua imponente guglia, ricoperta interamente da nicchie, è decorata con 465 immagini del Buddha e si differenzia parecchio dagli altri edifici della zona. Si tratta infatti di una riproduzione di una famosa pagoda  indiana.

Ci aggiriamo un po’ per la struttura, chiacchieriamo con i venditori, attendiamo che gli altri visitatori si allontanino per goderci in pace il luogo e infine ci incamminiamo nuovamente in direzione della Porta Tharaba, l’unico accesso alla città vecchia ancora esistente. Prima di raggiungerla, incappiamo nell’immensa opera di ricostruzione del Palazzo Reale, andato distrutto in passato e ricostruito ora, con uno dei vari progetti faraonici in corso nel paese: tanto immenso quanto inutile, visto che Bagan ha bisogno di rinsaldare le proprie meraviglie, non di aggiungere brutte copie di quanto è già andato perso. I lavori sono ancora in corso e l’accesso non è concesso ma sinceramente non mi ispira per nulla e quindi passiamo oltre senza rimpianti. Incrociamo una quantità di persone che camminano cariche di pacchi e pacchetti, sacchetti e ceste, e mezzi di trasporto della più svariata natura traboccanti di persone, a riprova dell’esistenza del grande mercato che viene allestito in prossimità del Tharaba Gate ogni anno in questo periodo per la Paya Pwe, la festa di luna piena del mese Pyatho: c’era anche 10 anni fa. Mercato, giostre vetuste spinte a mano, luogo di incontro, bancarelle di cibi insoliti, banchetti per indovini: nella mia precedente visita, uno di questi illustri specialisti lesse nella mano della mia compagna di viaggio una ingente vincita alla lotteria. Ovviamente la sta ancora aspettando. O si trattava di una visione nel lunghissimo periodo, o le lenti dello spessore di fondi di bottiglia che portava sul naso non erano già più sufficienti per consentirgli una adeguata lettura.

Prima di immergerci nel caos del mercato, ci concediamo un meritato pasto in uno dei ristoranti nei pressi della Porta: ottimo e tonificante, ci permettiamo qualche minuto di relax in più visto che a dispetto delle temperature mattutine e serali piuttosto rigide, nelle ore centrali della giornata qui fa proprio parecchio caldo.

Riprendiamo il nostro girovagare: volenti o nolenti, il mercato si visita tutto, dato che si colloca proprio sul percorso che dal Gate porta a una delle pagode più famose e ricche di Bagan: la Ananda Paya e  suoi annessi. Tra questi spicca la Ananda Ok Kyaung, un santuario dall’insolita struttura, costituito da una cella centrale e un insieme di gallerie che la circondano, interamente ricoperto di affreschi del XVIII secolo. Per la prima volta entriamo in contatto con le splendide e suggestive pitture di Bagan, dai colori vivaci e dalle raffigurazioni semplici ma coinvolgenti. L’atmosfera è completata dalla luce che filtra a stento dall’esterno, ma senza lasciarci completamente al buio, tanto che il custode delle chiavi, chiamato apposta per farci visitare il luogo, ci segue e illumina i dettagli con una potente pila.

La Ananda Paya è uno dei templi più importanti: decine di botteghe si allineano nelle sue vie di accesso ed è movimentata da una folla di fedeli. Questo si spiega facilmente vista la sua ricchezza in termini di bassorilievi, piastrelle vetrificate con scene delle Jataka, enormi statue del Buddha, la vita stessa del Buddha rappresentata nel corridoio esterno con 80 sculture di pietra, decine di nicchie sparse lungo le pareti, elegantemente decorate, nonché ampie zone di affreschi riportati alla luce da recenti restauri. Il grande cortile che circonda la struttura principale brulica di gente e se proprio le si deve trovare un difetto, questa pagoda è decisamente poco intima; le sue cupole dorate e soprattutto il hti a forma di pannocchia interamente ricoperto d’oro si vedono anche in distanza e permettono spesso di orientarsi, nella selva di pinnacoli che svettano sopra Bagan.

Lasciamo alle spalle questa enorme pagoda per continuare il nostro giro all’interno delle mura: la meta successiva è la Pitaka Taik, la biblioteca. Siamo poco fortunati: l’edificio è chiuso perché sottoposto a massiccio restauro da parte di una squadra di donne che si caricano pile di mattoni sulla testa e salgono su scalette precarie in bambù per raggiungere il tetto. Rimaniamo per qualche istante amareggiati di fronte a questo ennesimo sfruttamento del lavoro femminile, ma allo stesso tempo ammirati per la grazia, l‘eleganza e l’incredibile equilibrio di questi esili muratori.

A breve distanza possiamo finalmente arrampicarci sulle terrazze della Shwegugyi e goderci un po’ di scorci aerei di Bagan. Questo tempio è bello di per sé e presenta vari elementi di interesse, come raccontano la Lonely Planet e la splendida guida acquistata in una bottega alla Ananda Paya (Ancient Pagan - Buddhist Plain of Merit di Donald M. Stadtner - consigliatissima). Ma noi siamo rapiti dalla vedute, le cupole, i colori, le guglie a perdita d’occhio. In particolare si ha una vista perfetta sulla Thatbyinnyu, meta successiva del nostro pellegrinaggio e tempio più alto di Bagan, dove però non si può accedere ai piani superiori e risulta, nell’insieme, piuttosto spoglio.

Riprendiamo il sentiero sabbioso e passiamo di fianco alla Nathlaung Kyaung, un tempio indù che non ci colpisce particolarmente (che la stanchezza si faccia sentire?) e a uno strano stupa in mattoni, dalla forma insolita e bombata, non menzionato dalla Lonely Planet, che invece si fa notare. Si tratta della Nga-Kywe-Nadaung, una struttura in mattoni a forma di bulbo, in cui la superficie esterna reca ancora le tracce di una invetriatura verde. L’originale doveva essere veramente una costruzione ad effetto!

Ci trasciniamo infine allo Pahtothamya, dove ci tratteniamo a lungo ad ammirare e fotografare i tanti affreschi che coprono interamente tutte le superfici interne. Sono molto deteriorati e l’ambiente è molto buio, illuminato com’è da poche finestre a griglia. Anche qui non è purtroppo permesso l’accesso al piano superiore.

Secondo la mia cartina, siamo giunti al termine della visita dei templi contenuti all’interno della vecchia cinta muraria: il sentiero però “suggerisce” un’ulteriore visita, quella al museo. Non hanno certo lesinato in ori e splendore per questa nuova costruzione in stile dove contenere il poco sopravvissuto a secoli di saccheggi nella piana di Bagan. Imponente, svettante, scintillante: il museo contiene parecchi buddha, delle stele in discreto stato di conservazione, foto e dipinti dei templi in varie epoche… un sacco di spazio per poco contenuto. Inoltre, osservando l’edificio da vicino, ci si accorge di come i pochi anni di vita abbiano già lasciato un profondo segno: intonaci che si staccano, buchi nel soffitto, l’umidità che si affaccia qua e là, piastrelle scollate e che vengono ammucchiate negli angoli lasciando intere zone del pavimento con la soletta di cemento a vista. Evidentemente hanno creato un museo scenografico ma del tutto privo di concretezza. L’ingresso costa 5 dollari e sinceramente viene voglia di chiederli indietro.

Ormai stanchi, impolverati e provati dalla tanta strada percorsa oggi, non ci resta che trovare un tempio con accesso alla terrazza superiore dove attendere l’immancabile, l‘imperdibile  tramonto. Seguendo anche le istruzioni di qualche passante e bottegaio, che miracolosamente comprendono la nostra richiesta, superiamo le mura e ci rechiamo nella zona a sud della città, al tempio di Mi-Nyein-Gon, dove con ampio anticipo ci prepariamo ad osservare la distesa dei templi visitati oggi che gradualmente si tingono di rosso.

Ottima cena in hotel, in riva al fiume, coi templi illuminati e un’aria decisamente frizzante a ricordarci che in fondo è inverno.

 

5/01/07

Impossibilitati a continuare la visita a piedi, oggi optiamo per un’altra forma di slow visit: la carrozzella a cavallo. Fissiamo un forfait di 23 dollari per la giornata con una sosta di un’ora per permettere al cavallo di mangiare, e si parte. La prima parte del tragitto è piuttosto lunga e si svolge un po’ nei viottoli e un po’ sulla strada asfaltata che collega Old Bagan a Nyaung U, la zona dell’aeroporto e del maggiore centro abitato. Si ha una visione particolare di Bagan da questo mezzo di trasporto: è decisamente lento ma comodo, arieggiato e sinceramente non ci dispiace fare a meno anche oggi di un mezzo motorizzato.

Se ieri la “star” tra i templi visitati era stato Ananda, oggi questo ruolo spetta alla nostra prima fermata: il complesso della Shwezigon Paya. Ieri abbiamo visto posti splendidi e suggestivi ma sicuramente questa pagoda d’oro a forma di campana e tutto ciò che la circonda mi colpisce particolarmente. Unisce alla magnificenza, l’intimità, e alla grandiosità, il gusto per il particolare curato. Scatto più foto qui che in qualunque altro tempio, perché dentro a ogni cappelletta trovo una statua dall’espressione particolare, e in ogni struttura distaccata, qualche soluzione decorativa differente. Inoltre qui è concessa la venerazione dei Nat, e già di per sé questo comporta immagini uniche e scatti pittoreschi.

Il tempio è preso d’assalto da parecchi gruppi ma la sua ricchezza e vastità disperdono la folla e lo rendono ancora più prezioso.

La tappa successiva è il Kyanzittha Umin, un piccolo tempio buio ricoperto di affreschi a cui fa seguito la Wetkyi-In, famosa per i dipinti trafugati da un tedesco ma che mi colpisce per gli intarsi nella pietra delle mura esterne e per l’insolita guglia in stile indiano che sembra storta.

Famosa per gli affreschi è anche l’Upali Thein, che visitiamo previa attesa del guardiano delle chiavi allontanatosi per la colazione.  E’ un piccolo edificio interamente ricoperto di figurine, scene della vita di Buddha, Nat, veramente molto ben conservate. Purtroppo dove lo stato dei dipinti è buono, vige sempre il divieto per fotografare, anche senza flash, e so bene che senza testimonianza fotografica la mia memoria presto sarà satura e tenderà a dimenticare. Fortunatamente ho il mio prezioso libro.

Di fronte a Upali Thein sorge un altro tempio che invece difficilmente dimenticherò, grazie anche alle decine di foto che scatto: il Htilominlo Pahto. E’ decisamente fotogenico infatti e discretamente conservato: Buddha dorati luccicanti, i soffitti decorati e i corridoi affrescati. Per non parlare della quantità di venditori all’esterno che a modo loro creano un ulteriore capolavoro con un collage di dipinti, marionette, pupazzi e sculture in legno e con l’incessante sottofondo musicale delle decine di campanelle appese agli alberi lì intorno. Un altro posto, a modo suo, magico.

Ed è già passata da tempo l’ora di pranzo: rientriamo lungo la Bagan-Nyaung U Road fino al solito ristorante al Tharaba Gate, dove noi ci rilassiamo un po’, lontani dalla strada, e dove il nostro cavallino trova un po’ di frescura all’ombra delle piante, per consumare il pasto che oggi si è sicuramente guadagnato.

Ci spostiamo poi a sud di Old Bagan per la visita della Kubyauk-Gyi a Myinkaba: esternamente non colpisce particolarmente, visto che poco per volta ci si abitua a tutti questi splendidi templi. Risaltano solo gli stucchi che decorano i muri perimetrali, ma è l’interno, la vera meraviglia, tutto ricoperto com’è da affreschi di ottima fattura, stato e qualità. Usciamo però molto frustati dal divieto assoluto di scattare foto, per l’ennesima volta. Alle nostre lamentele, il nostro “autista” decide di portarci in un tempio che a suo dire non prevede divieti. E’ così che ci troviamo di fronte allo splendore degli affreschi del Loka-Hteikpan. All’esterno, l’estrema sobrietà del piccolo edificio e la sua collocazione leggermente defilata non preparano alla ricca iconografia, ai colori ancora vivaci, alle scene complesse, alle eleganti iscrizioni e alle centinaia di personaggi assiepati. Una vera festa per gli occhi e per il cuore.

Soddisfatti torniamo al nostro calesse per scoprire quale sia la pagoda designata per il rito del tramonto: dopo una breve sosta alla Shwesandaw, dalla quale fuggiamo atterriti di fronte alla folla di turisti che scende da parecchi autobus parcheggiati lì davanti, optiamo per un tempio minore ma decisamente più intimo, il Thabeik Hmauk. Il tempio, o quanto meno le sue pertinenze, sono abitate da una numerosa famiglia: i membri più giovani e una signora anziana si incaricano di illuminarci le scale che permettono l’ascesa alle terrazze. Non siamo molto in alto ma il sole si prepara a tramontare dietro un paio di cupolette, rendendo quindi la scena molto suggestiva. Poco per volta le terrazze si riempiono e assistiamo in relativo silenzio prima al rientro dei contadini dai campi che contornano le varie pagode, poi al lento incedere degli animali che raggiungono i loro ricoveri e infine al compiersi dell’atteso cerimoniale serale.   

Il rientro è ancora più emozionante: ci allontaniamo rapidamente perché il buio non ci sorprenda ancora per strada mentre il rosso del cielo incendia letteralmente ogni singola costruzione che incontriamo sul nostro sentiero e ravviva meravigliosamente le cascate di bouganville che li adornano. Dopo i tanti affreschi ammirati oggi, anche la natura ci racconta una sua toccante storia di immagini e colori.

 

06/01/07

Ultima giornata di Birmania. Il programma prevede altre ore di carrozzella (ieri ci è proprio piaciuto) e nel pomeriggio, qualche ora di jeep per la visita di templi più distanti e per il raggiungimento dell’aeroporto.

La prima sosta è alla pagoda 1689: non ha neanche un nome ma è un posto particolarissimo, trattandosi di uno stupa all’interno di uno stupa. Ci spiegano che i saccheggiatori, scavando alla ricerca di una camera segreta, vennero beffati scoprendo all’interno dello stupa, una struttura identica.

La Sulamani Pahto è al risveglio, quando arriviamo: le tante bancarelle sono in allestimento e c’è ancora un’atmosfera ovattata che avvolge questa grande pagoda datata 1183, i suoi intarsi nella pietra e le tante pitture di stile e epoca diversa. Ci aggiriamo senza meta, osservando in doveroso silenzio.

Troviamo già una discreta folla invece alla Dhammayangyi, imponente tempio riconoscibile in distanza per la sua forma vagamente piramidale: anche qui ci soffermiamo di fronte ai tanti buddha dipinti e alla dominanza del colore rosso. Purtroppo le immagini si fondono con quelle di alcuni templi maggiori visitati ieri. E’ il rischio che corre chi ha poca preparazione specifica come noi, temo.

Torniamo poi al Tempio da cui siamo scappati ieri sera: la Shwesandaw è la pagoda del tramonto e i venditori mi sembrano un po’ sorpresi dal nostro arrivo, così presto alla mattina. Il luogo ci guadagna molto, in assenza di folla, e anche qui ci godiamo la calma del post risveglio. Molti degli ambulanti non solo svolgono qui i loro traffici ma è evidente che qui ci vivono e dormono in capanne a accampamenti nei dintorni. Ammiriamo alcune pitture ma penso che oltre ai suoi tramonti la Shwesandaw si ricordi soprattutto per il gigantesco buddha sdraiato alloggiato in una lunga struttura nel cortile del tempio stesso.

Lasciamo la zona del cosiddetto Gruppo Centrale per dedicarci al Gruppo Sud. Chiedo esplicitamente all’autista di formarsi alla Mingalazedi, che ricordavo come una delle pagode più belle dal mio scorso viaggio. Con mio sommo dispiacere, risulta chiusa: non solo non si può accedere ai piani superiori ma è proprio sbarrato l’accesso alla  zona per rischio crolli. Paradossalmente ciò che mi intristisce di più è vedere i resti delle bancarelle abbandonate e il mio pensiero va a quelli che si erano conquistati il diritto di svolgere le loro attività qui e hanno dovuto lasciare tutto.

La Manuha si differenzia nettamente da quanto abbiamo visto finora: è una struttura relativamente moderna e non viene da pensare che sia bella. Eppure a suo modo ci colpisce o quanto meno trasmette un messaggio. Deve infatti il suo nome a un re tenuto lungamente prigioniero: i tre giganteschi buddha seduti e quello disteso oppressi dalle pareti incombenti della struttura che a stento li contiene, danno proprio l’idea della cattività.  A breve distanza visitiamo la Nan Paya, che non si capisce se sia stata la vera prigione del re o se si tratti di una leggenda. Comunque sia, l’edificio è suggestivo con l’interno buio solo parzialmente illuminato dalle piccole finestre e le mura in scura arenaria finemente scolpite. L’ambiente ricorda una segreta ma molto elegantemente decorata e sorvegliata da varie rappresentazioni di un Brahma a tre facce.

La Nagayon si differenzia dalle altre pagode per i tanti buddha, le figure danzanti, il buono stato di conservazione. Le pitture qui non sono ancora state recuperate ma si indovinano sotto la mano di bianco data in non si sa quale epoca. I sorveglianti ci dicono che però la maggior parte delle statue è stata portata al museo e quindi probabilmente quanto contenuto qui sono copie. Questo tempio, che deve il suo nome a un Naga che protegge un Buddha dorato, lo ricorderò per un altro tipo di rettile: il più grosso geko che abbia mai visto in vita mia: veramente enorme!

 Ultima tappa del mattino è alla prospiciente Abeyadana. L’Unesco ha effettuato dei lavori di restauro per salvare un ciclo di affreschi magnifici: qui predomina l’ocra a differenza degli altri in cui il rosso la fa da padrone, rendendo l’interno apparentemente più luminoso. E’ già ora di rientrare in hotel per darci una rinfrescata, chiudere gli zaini e saldare il conto degli extra. Salutiamo il nostro cocchiere che ci cede a un suo amico, proprietario di una jeep antica, incaricato di accompagnarci nel tour pomeridiano ai templi della pianura meridionale, la zona est, e poi all’aeroporto.

Si nota subito che ci allontaniamo dalla zona più battuta dai turisti: anche il tempo sembra dilatarsi, qui, e le poche ore che ci separano dal nostro volo sembrano allungarsi. I templi sono più discreti, in questa zona: solo qualche cupoletta dorata, molta più vegetazione, pochissimi anche i contadini e i passanti. E quindi si rimane stupiti quando all’improvviso ti trovi di fronte l’imponenza della Dhammayazika Paya: come dimensioni rivaleggia con i maggiori complessi di Bagan; come originalità non ha eguali, vista la sua struttura pentagonale. Ma a me rimangono soprattutto negli occhi i bagliori dell’enorme stupa dorato a contrasto con il rigoglio di una buganvillea straripante. L’atmosfera è estremamente rilassante: mi soffermo a comprare anche qualche souvenir nelle botteghe lungo la breve via d’accesso, e diventiamo oggetto della curiosità di un nutrito gruppo di signore birmane in gita. Sostiamo poi lungamente in cima alle sue terrazze, tra le tante cupoline dorate e le piastrelle invetriate, a goderci il sole, la brezza e il meraviglioso panorama. Un pezzetto di Bagan per me imperdibile, uno dei ricordi più dolci.

Lasciamo  veramente a malincuore questo angolo di Bagan per il Leimyethna Pahto, un tempio del tredicesimo secolo interamente imbiancato a calce e decorato internamente da eleganti affreschi. Mai prima avevamo notato una tale atmosfera di abbandono: le superfici non sono spazzate, la polvere alberga ovunque e la vegetazione si sta impossessando del cortile rendendo difficoltoso e doloroso il passaggio a piedi ovviamente nudi. In questa atmosfera si inserisce perfettamente il prospiciente edificio in mattoni a vista, massiccio, squadrato ma assolutamente storto, come se da un lato avessero tolto qualche fila di laterizi. Impressionante capolavoro di precario equilibrio.

Anche alla Tayok-Pyi ci arrampichiamo sul tetto per ammirare dall’alto questa suggestiva zona di Bagan ma purtroppo da qui si ha una vista ottima soprattutto su un’altra invenzione moderna per allietare noi turisti: una orribile torre di osservazione per abbracciare con lo sguardo la piana nel suo insieme dall’alto. Diciamo che l’unica nota positiva è che è stata posizionata vicino a New Bagan e all’aeroporto, all’estremità della zona dei templi e non al suo centro, cosa che già sorprende. Si tratta di un cono tronco su cui si avvita una scala, per raggiungere la sommità, sovrastata a sua volta da un tetto in stile. Il “trucco” non funziona e si vede perfettamente che è un falso, una costruzione moderna luccicante per via del tipo di copertura e per le grandi finestre che si aprono negli ultimi tre piani del cono. Orribile. L’autista neanche ci propone di andarci e del resto, guardandola da qui, non si vede assolutamente nessuno che ne usufruisca. Il solo pensiero che formulo in questo momento è che con tutti i templi sovrastati da terrazze disseminati per Bagan, a chi può essere venuto in mente di creare un così evidente e brutto falso?

Di fronte alla Tayok-Pyi sorge un tempio insolito, la Payathonzu: si tratta di tre santuari accostati, collegati da un unico corridoio e sormontati da tre guglie. Perfettamente decorato esternamente, l’interno presenta affreschi incompiuti. Ma noi siamo ormai ben oltre la soglia di saturazione e la mente non recepisce più immagini e forme. Anche la macchina fotografica mi sembra stanca, tanto che non scatto più foto. Ci trasciniamo letteralmente all’ultimo tempio del nostro soggiorno a Bagan, il Nandamannya Pahto, dove ci sforziamo, come tutti gli altri pochi turisti presenti, di individuare le figurette di nudo femminile, citate dalla Lonely Planet, che tanto avevano sconvolto un benpensante francese di inizio Novecento. A stento noto che lo stile pittorico di questi ultimi templi visitati si differenzia nettamente da quelli dei giorni precedenti e mi rammarico una volta di più di non conoscere nulla di questa arte dimenticata per secoli in questo remoto angolo di Asia. All’esterno, l’ennesimo venditore di dipinti si lamenta con tutti i turisti, in un inglese comprensibile,  che a lui è toccato in sorte questo tempio fuori dai normali circuiti e che quindi vende poco, sollecitando insistentemente un nostro acquisto. In sottofondo, l’ultimo ricordo che mi resta di Bagan: quello delle campanelle e dei gong che suonano un loro melodioso motivo nel leggero vento del tardo pomeriggio.

Raggiungiamo l’aeroporto ancora immersi in questa magia, intristiti per questo distacco, l’ultimo del nostro viaggio in questa magnifica, tragica terra. Ci aspettano una notte al Seasons of Yangon e qualche ora di passeggio per Bangkok, prima del nostro effettivo rientro in Italia.

E già ho la certezza che qui in Birmania tornerò.

 

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Beatrice

bebatrix67@yahoo.it

 

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