Le emozioni del Ladakh

India

Racconto di viaggio

di Claudia

 

 

Un territorio brullo ma colorato dalle tante bandierine di preghiera rosse, gialle, verdi, blu e bianche, circondato dalle montagne dell’Himalaya e del Karakorum. L’incanto dei monasteri buddhisti, chiamati gompa, dove l’incenso e il fumo delle candele s’insinuano nelle narici e immergono in un’atmosfera mistica.

La visita alla New Millennium Children School fondata da Eco-Himal Svizzera, Associazione per la cooperazione Alpi-Himalaya che dà un’istruzione ai figli dei contadini più poveri della regione www.ecohimal.ch . Questo è stato per me il Ladakh, una regione nel distretto dello Jammu e Kashmir nel nord dell’India.

I bambini della scuola di Leh ci hanno atteso riuniti sul viale d’accesso cantando e battendo le mani.

Abbiamo assistito all’alzabandiera, alle preghiere e ai canti, che con disciplina eseguono ogni mattina.

Compiti, nelle loro uniformi con maglioncino verde, camicia a quadretti, pantaloni grigi, cravatta e cappellino, si sono in seguito diretti alle aule per iniziare le lezioni. Il pranzo e la merenda sono stati momenti di ordinata allegria e un pizzico di curiosità nei confronti di alcuni loro padrini e madrine in visita, eccitati e felici di trascorrere del tempo con loro.

Altre forti impressioni le hanno portate la visita a una piccola scuola che accoglie bambini handicappati.

Seguono le lezioni seduti in cerchio sul pavimento. La carrozzina a rotelle di una bimba era una sedia da bar di plastica bianca attaccata a due ruote. Un mondo semplice che dona tanto aiuto a chi ne ha più bisogno, in un Paese dove l’handicap è visto, purtroppo, ancora come un limite. I sorrisi e i baci che abbiamo ricevuto al nostro commiato ci hanno scaldato il cuore.

I ladakhi sono di ceppo tibetano e, infatti, sono tanti i tibetani che si sono rifugiati nella regione, oltre ai kashmiri. I più giovani e di città vestono all’occidentale. In campagna portano il goncha, una lunga veste di panno pesante chiusa da una cintura e le donne spesso anche un foulard in testa. Molti turisti provenivano dalle zone più meridionali dell’India e indossavano vestiti leggeri sotto pesanti giacche a vento e berretti o passamontagna di lana. Di giorno le temperature sono gradevoli, verso sera s’indossa volentieri un maglione e una giacca.

 

La cucina è prevalentemente tibetana e composta soprattutto da momo (ravioli al vapore), prodotti caseari, verdure e orzo.

Il centro di Leh, la capitale del Ladakh, a 3650 m, nella Valle dell’Indo, è ben fornito di negozi di souvenir e di articoli sportivi, e di tante agenzie di viaggio specializzate in trekking e rafting. Inoltre ci sono dei mercati coperti gestiti da profughi tibetani in cui si trovano gioielli, mulinelli di preghiera, campanelle e altri oggetti religiosi buddhisti. Lungo una via, seduti per terra, uomini e donne delle valli circostanti, nei loro abiti tradizionali, vendono frutta secca, soprattutto le albicocche della regione.

Per gli acquisti, come le morbide e delicate pashmine che avvolgono e scaldano con il loro impalpabile spessore, nei negozi si ricevono sempre delle borsette di carta colorata, mai sacchetti di plastica. Inoltre, alcune organizzazioni ambientaliste forniscono ricariche di acqua purificata e bollita ad alta pressione per riempire le proprie borracce.

Un caos colorato regna a causa dei diversi cantieri e delle grosse buche, delle auto che circolano senza fare troppa attenzione ai pedoni, delle bandierine di preghiera che svolazzano da tutti gli edifici e dei fili della luce aggrovigliati. Girano tanti cani randagi, asini e mucche. La cittadina si anima però a fine maggio/inizio giugno, quando tutti i negozi aprono per accogliere i primi turisti della stagione. Da novembre a marzo, infatti, molte strade sono chiuse e l’unico mezzo per raggiungere il Ladakh rimane l’aereo.

Nella città vecchia si può visitare la moschea Jama Masjid e il quartiere degli artigiani. Da una collina sopra Leh dominano un piccolo monastero, cupo e buio con affreschi un po’ trascurati e il Palazzo reale, edificato nel XVII secolo dal Re Senge Namgyal, ora vuoto e in parte diroccato. Su un’altra collina, alla fine di una lunga scalinata, si trova lo Shanti Stupa, costruito dai giapponesi nel 1991 e da cui si gode anche di una splendida vista.

I primi tre gompa che visitiamo sono Matho, Stagma e Thikse. Ogni complesso è formato da diverse sale che espongono thangka (uno stendardo dipinto o ricamato su seta e broccati), statue del Buddha e di Bodhisattva, reliquie e testi sacri. Ci sono anche lumini di burro, cembali, tamburi e trombe utilizzati dai monaci durante le preghiere. Fuori dalle sale, nei cortili, si vedono simboli religiosi quali daini con la ruota, gli affreschi dei quattro guardiani (uno rosso, uno blu, uno bianco e uno giallo) che rappresentano i punti cardinali, le raffigurazioni delle ruote della vita, chorten (piccoli santuari di pietra contenenti reliquie) e muri mani (pareti in pietra con iscrizioni sacre). Le ruote di preghiera si girano sempre in senso orario. Nello stesso senso si visitano i templi. Gli edifici, bianchi, grandi e piccoli tutti uniti, sporgono dalle montagne e sembrano un tutt’uno con esse. Hanno i tetti decorati e gli infissi alle finestre di color oro. Le case di campagna sono in mattoni di fango con il tetto piano e sopra di esso è messa la paglia a essiccare e le bandierine di preghiera.

 

 

 

 

Lungo la strada abbiamo incrociato un bambino vestito con una casacca color oro, un paio di pantaloni gialli e un cappellino blu che gli copriva le orecchie. Ci è stato spiegato, con grande stupore, che aveva solo tre anni ed era il nuovo Rinpoche (è un titolo onorifico che significa “il Prezioso” e che è dato ai Maestri buddhisti), riconosciuto un anno pima come la reincarnazione del precedente Maestro. Gli autisti delle nostre jeep si sono subito prostrati davanti a lui e noi abbiamo fatto altrettanto, così che potesse benedirci. Era tenuto per mano da un monaco che lo accompagnava a fare una passeggiata come un bambino qualsiasi, ma in realtà è un bambino cui è stato attribuito un ruolo molto importante. Ci siamo chiesti se sia giusto decidere il suo destino fin da così piccolo. Forse, per i suoi genitori, il distacco è stato meno triste, sapendo che avrebbe avuto un futuro agiato.

Raggiungiamo la Nubra Valley dopo avere superato il Khardung La di 5600 m (il passo carrozzabile più alto del mondo). L’aria rarefatta rende i movimenti lenti e il fiato corto. Scendendo a valle, scorti alcuni dzo che camminavano nella neve, il tentativo di raggiungerli di corsa per fotografarli, si è rivelata impresa difficile.

Lungo le strade di montagna se ne vedono tanti che pascolano liberi. Sui sentieri non trafficati s’incontrano anche cavalli e mucche allo stato brado. Nei campi d’orzo i contadini attaccano gli yak agli aratri. I colori di questa valle sono incantevoli e spaziano dal verde dei campi, al celeste dei fiumi e del cielo, al beige della sabbia, al grigio e marrone/rosso delle montagne, al bianco delle cime innevate e delle poche nuvole.

 

 

Le strade non sono ancora tutte asfaltate e questo duro lavoro spetta soprattutto agli indiani del sud. Tante donne, spesso accompagnate dai loro figli, trasportano carriole piene di sassi e sacchi di sabbia in spalla.

Eppure, così come le contadine nei campi, sono sempre sorridenti e salutano con un “jullay” che mette di buon umore.

Al monastero di Diskit, un enorme Buddha seduto, da una terrazza vigila sulla valle con il suo sguardo pacifico. In paese abbiamo ammirato i costumi tradizionali indossati da alcune donne che ci hanno intrattenuto con canti e balli. Le vesti nere erano decorate da collane di turchesi, coralli e altre pietre preziose, scialli colorati bordati di pelliccia e portavano babbucce con la punta rivolta verso l’alto e cappelli a cilindro o di forma triangolare. Si muovevano e cantavano con molta grazia.

 

 

 

Sul nostro tragitto abbiamo visitato anche i monasteri di Lamayuru, Thimishgang, Rizong, Likir, Basgo e Alchi. Grandi o piccoli, luminosi o bui, ognuno ha le sue peculiarità ed è, a modo suo, affascinante. Per visitare Alchi, a più di 3000 m d’altitudine con statue alte più di 4 m, è necessario portare una torcia per illuminare gli affreschi. A Rizong, il più recente dei monasteri, i monaci erano impegnati a scegliere i migliori thangka da appendere in occasione della visita del Rinpoche. Basgo sembra un castello di sabbia che si potrebbe sgretolare, appena si alza il vento. A Likir si ha l’onore di vedere i posti riservati al Dalai Lama e a suo fratello. Lamayuru, l’edificio più sacro tra i siti religiosi del Ladakh, posto su di una collina, domina un paesaggio da favola.

Un altro modo per visitare le bellezze del Ladakh è seguire un trekking. Camminando, anziché muovendosi con i mezzi di trasporto, si avrebbe più tempo per contemplare la natura, si potrebbero incontrare i nomadi che si spostano con le loro tende e le loro greggi. Si avrebbe più tempo per parlare con i monaci e, se ospitati dagli abitanti e vivendo a stretto contatto con loro, si scoprirebbe un’altra realtà, rispetto alla nostra.

Amando ancora di più questo popolo accogliente, e il suo territorio.

 

 

 

 

 

 

Claudia

claudiadisettembre4@yahoo.it

 

 

 

 

 

 

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