IL CAUCASO A MODO MIO 

di Massimiliano Gallina

 

PARTE PRIMA

 

 

ARMENIA

 

 

 

Erevan, 9 agosto 2006 

Sono arrivato in Armenia questa mattina con un volo da Praga; adesso sono seduto su una dura panca di legno in un atrio che non merita l’appellativo di “hall”, osservando la cameriera del piccolo bar rigovernare tavoli e sedie mentre aspetto che faccia giorno per uscire dall’aeroporto e raggiungere il centro. Già ieri sera, all’aeroporto di Praga, guardavo incuriosito gli altri passeggeri, ascoltando la loro incomprensibile lingua, osservando i lineamenti dei genitori che controllavano gli scatenati bambini, studiando i vestiti, gli sguardi, i volti di questo popolo per noi così misterioso. Come sempre, l’idea di andare in un paese pressoché sconosciuto, anche se non lontano, mi affascinava moltissimo. Durante il mio viaggio, ai tanti che mi hanno chiesto: “Why Armenia?”, ho risposto: “Why not?”. Sono sempre stato attratto dai paesi che non conosco. Non attratto turisticamente, nel senso di voler visitare musei o monumenti importanti; quanto dalle persone, dai popoli, dai volti, ognuno con la propria storia, le proprie idee, il proprio modo di vestire, di parlare, di comportarsi. Quando vado in un posto, cerco sempre di osservare la gente, capire come viva, quali problemi incontri, con quale spirito e con quali mezzi li affronti.

Viaggio sempre solo, ma mai impreparato. Questa notte alle quattro, quando l’aereo è atterrato in questo assurdo aeroporto rotondo che fa sembrare quello di Mosca l’ultimo ritrovato della tecnologia, sono stato subito assaltato dai taxisti che si offrivano di portarmi in città. Ma io volevo prendere l’autobus, e sapevo che il primo partiva alle otto, così mi sono armato di pazienza e mi sono seduto nella sala d’aspetto, facendo lentamente passare le ore e osservando la vita intorno a me: la cameriera del bar che serve i clienti buttando ogni tanto un occhio alla telenovela sul piccolo televisore appeso ad una parete; le donne delle pulizie che lavano il pavimento, un gruppo di ragazzi che aspettano l’arrivo dei loro amici, gli altri tassisti che ogni tanto si fanno avanti con me, che rifiuto gentilmente ma fermamente nel mio russo stentato (come mi aspettavo, sono pochissime le persone che parlano inglese) le loro insistenti offerte.

E non sono rimasto sorpreso quando ho scoperto che non c’erano indicazioni per la fermata dell’autobus, perché tanto questo non passava, e così ho dovuto improvvisare e salire su un taxi collettivo spiegando a gesti che volevo essere lasciato al capolinea della metropolitana.

Devo dire, però, che una cosa mi ha molto colpito in positivo: quando sono andato a ritirare il mio bagaglio, alcuni addetti hanno confrontato l’etichetta sulla borsa con quella sul mio biglietto, per essere sicuri che non mi stessi portando via la valigia di un altro. Questo sì che è un controllo utile, e che in nessun aeroporto, nemmeno nella tanto organizzata Europa occidentale, mi avevano mai fatto! E’ proprio vero che in ogni luogo c’è sempre qualcosa da imparare.

 Qui tutto è così vero, genuino, ordinatamente disorganizzato. Questo posto così lontano, almeno nell’immaginario, ed ancora immune al turismo di massa, che io mi accingo a visitare in solitario, senza conoscere nessuno né aver prenotato niente è davvero ciò che ci vuole per vivere un’avventura di quelle con la A maiuscola, e non vedo l’ora di cominciare a vivere e a raccontare le mille e mille difficoltà, persone, finestre sulla vita quotidiana che mi stanno aspettando in questo incredibile viaggio.

 

La prima cosa che colpisce qui a Erevan, capitale dell’Armenia, è il caldo. Un caldo asfissiante, soffocante, che impedisce di respirare e spinge a cercare riparo nei molti parchi e giardini che si trovano ovunque in città, e che almeno proteggono dal sole, ma non certo dall’afa.

In mezzo a uno di questi parchi c’è un bar con dei tavolini, quasi tutti occupati. Mi siedo per riprendere fiato e per mangiare qualcosa, mentre mi guardo attorno per osservare meglio gli armeni, popolo pressoché sconosciuto da noi. Le cameriere dai lunghi capelli scuri, prosperose e scollate, fanno svogliatamente la spola tra i tavoli e la cucina; anch’esse sembrano patire la calura. Quella che mi serve non capisce l’inglese, ma non è difficile ordinare un hamburger; poi, provo ad abbozzare un “grazie” in armeno (che ho avuto l’accuratezza di studiare prima di partire) sperando di generare un sorriso; ma non ottengo grandi risultati.

L’afa è soffocante: nel piccolo laghetto tra gli alberi alcuni bambini stanno facendo allegramente il bagno. Agli altri tavoli intorno a me, gruppi di famiglie chiacchierano svogliatamente, bevendo una coca o un te freddo e stando bene attenti a non uscire dall’ombra.

Forse è per via del caldo che Erevan è una città d’acqua: in ogni angolo ci sono fontane che rinfrescano l’aria e permettono di dissetarsi. Piazza della Repubblica, in centro, ne è l’emblema: due grandi getti d’acqua riempiono una grande vasca che occupa tutto lo spazio disponibile, riflettendo i possenti edifici che la circondano: la Galleria Nazionale, il Ministero degli Affari Esteri, il Marriott Hotel, l’ufficio postale. Tutti costruiti intorno a questa specie di lago per creare una vista spettacolare.

Ci sono anche delle fontanelle da cui bere; io all’inizio sono un po’ timoroso, non so se fidarmi; ma poi, vedendo che tutti bevono senza problemi e decidendo che non posso spendere un capitale in acqua, decido di approfittarne, tanto che verrò qui ogni giorno a riempire le bottiglie vuote.

Dopo mangiato mi rifugio presso l’ostello, dove non c’è l’aria condizionata ma le volonterose ragazze che lo gestiscono hanno installato dei ventilatori; dopo qualche ora di meritato riposo, alla sera, torno in piazza a fare due passi.

Resto a bocca aperta: tutti le costruzioni sono illuminate a giorno e si riflettono sull’acqua creando un effetto davvero magico. Potrei stare qui delle ore ad osservare lo spettacolo, e anche gli abitanti del posto non sono indifferenti: c’è un’incredibile affollamento di persone, soprattutto giovani, che vengono qui a passeggiare, si siedono sulle panchine, guardano la piazza illuminata mangiando un gelato: sembra di essere in una capitale europea tanta è la vita notturna che ruota intorno a questa piazza. Mi piace la gente, mi piace vedere tante persone che escono, si divertono, parlano, rendono vivo un luogo già esteticamente bello di suo.

Anch’io mi siedo, voglio farmi un’idea di questo popolo tanto lontano, e resto a guardare la gente che passa, soprattutto le ragazze, tutte vestite all’occidentale con borsette eleganti e gli immancabili cellulari. Quelle più giovani camminano a gruppi, schiamazzando allegramente; le trentenni, invece, si accompagnano a giovani alti e robusti, con capelli cortissimi e profondi occhi scuri.

Anche i lineamenti delle donne sono orientaleggianti, anche se non propriamente arabici: pelle leggermente scura, grandi occhi neri ed infossati, naso appena adunco, ed un generoso fisico che minigonne e vestiti attillati rendono molto attraente. Ma, forse, si tratta semplicemente di essere attratti dal diverso, da tutto ciò a cui non siamo abituati e che quindi stuzzica, a ragione o a torto, il nostro interesse.

 

Proseguo nell’esplorazione di questa città dove vivono oltre un milione di abitanti, così  a tarda sera scopro un’altra fantastica sorpresa: l’Opera. Non tanto per l’edificio in sé (pure notevole), ma per l’enorme piazza antistante, interamente pedonale,  affollata da centinaia di giovani che passeggiano, si siedono sulle panchine, ascoltano musica. Il retro della piazza è occupato da un altro enorme giardino, nel quale sono stati ricavati decine di bar, ristoranti, pizzerie, tutti all’aperto e tutti affollatissimi di ragazzi. In nessuna città avevo mai visto un simile centro di aggregazione: camminando per i sentieri del parco passo accanto ai vari locali stracolmi di clienti, con tavolini, fontane, musica dal vivo, uno addirittura attrezzato con tavoli da biliardo all’aperto. E poi gente, gente giovane: davvero incredibile la quantità di persone che vengono qui alla sera a svagarsi, ad ascoltare musica, a baciarsi sulle panchine. Sembra che l’intera Erevan si dia appuntamento qui alla sera, e noterò poi che ciò avviene ogni giorno, anche nelle serate da noi più “vuote” come la domenica o il lunedì. E’ fantastico stare in mezzo alla folla, una folla comunque ordinata, senza risse, senza scippi, senza ubriachi, formata solo da tanti giovani che hanno voglia di uscire di casa. Questo significa anche che, comunque, i soldi da spendere ci sono: tutti questi ragazzi e ragazze vestiti bene, col cellulare, che escono a divertirsi sono sicuramente sintomo di un paese con un futuro.

Certo, per strada si vedono anche mendicanti, o comunque gente che non ha niente da fare, soprattutto donne di una certa età; ma vedere tutta questa folla di gente serena, sorridente, fiduciosa per il presente e speranzosa nel futuro mi rallegra. Significa che le difficoltà del passato, legate soprattutto all’indipendenza da Mosca, sono in fase di superamento e che gli armeni hanno davanti a loro giorni migliori di quelli che si sono lasciati alle spalle.

 

 

 

Erevan, 10 agosto 2006

Oggi sono andato in giro per la città, e ne sono stato piacevolmente sorpreso. La prima cosa che colpisce è la quantità di verde: ovunque, in centro come in periferia, ci sono parchi e giardini dove la gente può ripararsi dal caldo, sedersi ad un tavolino, bagnarsi nelle fontane. E per fortuna, perché dopo aver percorso un breve tratto esposto al sole, ho dovuto sedermi a riprendere fiato, quasi spossato dalla calura che io soffro particolarmente. Ho notato, però, che nonostante il caldo gli uomini indossano sempre pantaloni lunghi: io, con la mia canottiera scollata e i calzoncini cortissimi, sono continuo oggetto di sguardi curiosi. Mi sento un po’ a disagio ed inquieto, ma Ani, la graziosa receptionist del modernissimo ostello a due passi dal centro, mi ha assicurato che la città è sicura e che non corro alcun pericolo: ed io non ho motivo per non crederle (un minimo di incoscienza ci vuole sempre…).

Raggiungo quindi la Cascata dove, a dispetto del nome, non si trova acqua ma un’imponente scalinata che sale in cima ad una collina da cui si vede tutta la città e sulla cui sommità è stato posto un glorioso monumento alla libertà. Alla base della salita c’è un altro giardino, decorato dall’allegra statua di un gatto gigante.

Per chi non ama faticare ci sono le scale mobili, ma io non mi perdo certo l’occasione di farmela a piedi finché, superato da poco il cinquecentesimo gradino, un inserviente mi ferma e mi dice che non posso proseguire: la cima si può raggiungere solo dall’interno! Potevano dirlo subito; ma non mi arrabbio, so che in questi paesi bisogna avere tanta pazienza…

 

* * *

 

Cerco di stare lontano dall’ostello, dove si è stabilito un gruppo di americani chiassosi che di notte schiamazzano per i corridoi ad alta voce, mentre di giorno occupano la sala ricreazione collegando il lettore DVD al televisore per guardare disgustosi film dell’orrore così cammino moltissimo, a dispetto del sole inclemente.

Passeggiando osservo che, per strada, ci sono molti poliziotti, la cui presenza però non è asfissiante, ma tranquillizzante. Si limitano a guardarsi intorno, soprattutto nei luoghi affollati, controllando la situazione come una madre affettuosa controllerebbe il figlioletto che gioca nel parco. Ogni tanto si fermano a chiacchierare con qualcuno, ma in generale non li si nota nemmeno. A differenza dell’Italia, dove la polizia serve solo a dare le multe, qui le persone si sentono protette, vigilate ma non sorvegliate.

In compenso, il traffico è assurdo e caotico: qui a Erevan l’unico vero pericolo è quello di essere investiti, perché le auto fanno quello che vogliono. Cambiano direzione all’improvviso, passano col rosso, non rispettano minimamente i pedoni che, a loro volta, se ne infischiano del traffico attraversando come e quando vogliono. E’ una specie di caos organizzato, in cui ognuno fa quello che vuole ma, nonostante tutto, non succedono mai incidenti seri (almeno, io non ne ho mai visti). Anche perché le auto non sono tante: quasi nessuno può permettersi di comprarne una, e così il mezzo di trasporto più usato è il mashrutka: un pulmino con una decina di posti che gira per la città caricando e scaricando le persone, più o meno come un autobus (di cui ho visto pochissimi, sgangherati esemplari). Non esistono fermate: ognuno sale dove vuole, semplicemente allungando un braccio all’arrivo del mezzo; paga una tariffa bassissima, e quando vuole scendere lancia un grido al conducente. Esistono decine di linee diverse, ognuna col proprio percorso e un cartello esposto sul parabrezza; gli autisti non sono proprietari dei mezzi, ma si riuniscono in cooperative con cui possono dividersi lavoro, ricavi e costi senza farsi concorrenza. E se da un lato questi pulmini che si fermano e ripartono all’improvviso ad ogni angolo di strada creano non poca confusione, dall’altro aiutano sensibilmente a ridurre il traffico, perchè con essi una persona può raggiungere qualsiasi angolo della città, anche il più periferico, e senza dover aspettare molto poiché i mashrutka arrivano a getto continuo. Mezzi come questi, sebbene con nomi diversi (in generale vengono indicati come taxi collettivi), ne ho visti dovunque, in Asia come in Africa, e non ho mai capito perché non abbiano preso piede in Europa occidentale, dove aiuterebbero di sicuro a ridurre buona parte del traffico urbano ed anche interurbano, dato che esistono linee dirette verso le altre città. Forse qui la gente ha minore esigenza di spostarsi rispetto a noi? Può essere in parte vero per le strade extraurbane, dato che quasi tutti vivono e lavorano in città, ma per quanto riguarda la copertura urbana sarebbero sicuramente utilissimi, veloci e comodi. Non posso fare a meno di pensare che ciò accade perché le case automobilistiche sarebbero molto poco contente di questa innovazione, così come la lobby dei taxisti “ufficiali”, pure anche qui presenti, ma ai quali io evito assolutamente di rivolgermi.

 

* * *

 

In giornata mi telefona Nana, una ragazza di Erevan che avevo conosciuto su Internet qualche settimana prima di partire e alla quale avevo lasciato il mio numero sperando di organizzare un incontro. Decidiamo di vederci per la cena: le lascio l’indirizzo dell’ostello e mi preparo come si deve. Ho visto molte belle ragazze in giro per la città, e spero che lei non sia da meno. Purtroppo resto un po’ deluso quando la vedo: non è certo uno schianto, ma non importa: non sono venuto in Armenia in cerca di avventure galanti, e comunque passare una sera in compagnia di una ragazza del posto sarà sicuramente piacevole.

Passeggiamo un po’ in centro, verso Piazza della Repubblica che è il posto migliore per rinfrescarsi. Nana non è certo una camminatrice, e coi suoi tacchi alti procede lentamente, tanto che devo stare attento a non lasciarla indietro. Il centro geografico della città è un grande cantiere: ci sono moltissimi edifici in costruzione, che, come la mia amica mi spiega, sono destinati a diventare uffici e centri commerciali. Dunque il progresso è in arrivo anche qui a Erevan; peccato che tutti questi lavori in corso, con tanto di gru, polverose impalcature e strade rovinate dai martelli pneumatici diano alla città un’aria di degrado che non merita.

Dopo aver fatto rifornimento di acqua, andiamo a cena nella zona dell’opera; nonostante siano quasi le otto, l’afa è ancora opprimente, così ci sediamo ad un tavolo vicino ad una fontana sul cui bordo sonnecchia una tartaruga.

Nana, che parla benissimo l’inglese, mi racconta un po’ di lei: figlia di padre russo e di madre armena, è nata a Erevan ma si considera russa a tutti gli effetti.

“Io parlo solo in russo, – mi spiega – leggo libri russi e i miei amici sono tutti russi. Non mi sento affatto armena, è solo il luogo dove sono nata, ma non mi ci sento legata. La mia cultura è russa.” Di lavoro fa la traduttrice, manco a dirlo, dall’armeno al russo.

Le chiedo cosa pensa dell’Armenia, se anche lei, come me, ritiene che il futuro sarà positivo.

“Non so, ci sono molti problemi”. Mi dice che la disoccupazione è alta, e che i giovani fanno fatica a trovare un impiego stabile. Ribatto di aver visto molti ragazzi vestiti bene, con il cellulare: significa che hanno soldi da spendere.

“Il cellulare da noi è praticamente obbligatorio – mi dice lei, sorridendo – perché i telefoni fissi non funzionano. Qui non funziona niente. La benzina scarseggia, e per molti anni dopo l’indipendenza, non avevamo nemmeno il gas per scaldarci d’inverno.”

Resto un po’ sorpreso: “Ma come, se ci saranno quaranta gradi!”

“In agosto sì, ma d’inverno cade un metro di neve”. Con questo caldo, mi sono dimenticato che Erevan si trova a quasi mille metri d’altezza.

Scherzi a parte, Nana mi racconta di come l’Armenia abbia effettivamente pagato un caro prezzo per l’indipendenza dall’Unione Sovietica. Con la sua svolta ad occidente si è attirata da subito le antipatie di Mosca, che per prima cosa ha chiuso tutti i gasdotti che portavano il metano dal Mar Caspio, costringendo il paese a passare gli inverni senza riscaldamento e senza nemmeno poter scaldare l’acqua per cucinare. Lei era una bambina allora, ma si ricorda benissimo i tempi duri che la sua famiglia ha dovuto affrontare.

“Mio padre voleva anche andarsene, tornare in Russia, ma non poteva perché le frontiere erano chiuse. Così siamo rimasti.” Dopo questo racconto, comincio a guardare lei e gli altri armeni con occhi diversi.

“Non sei arrabbiata per questo? – la incalzo – Non dovresti odiare i russi?”

Nana ci pensa un po’ su, poi risponde:

“No, io non mi interesso di politica, come quasi tutti i giovani qui. Il passato è alle spalle, ora tutti guardano al futuro”.

“E tu, come russa, sei mai stata discriminata, o trattata male dagli armeni?”

“No, - sorride – nessuno qui fa delle generalizzazioni. Certo, molti armeni non vedono i russi di buon occhio, ma io sono sempre stata trattata come una di loro. In fondo sono nata qui, vivo con loro, mangio con loro, solo le miei origini sono russe, ma nessuno mi hai mai disprezzata per questo”.

 

Nana si accende una sigaretta dietro l’altra mentre parla, cosa che ho visto fare a molti giovani; un pacchetto di sigarette russe costa mezzo euro, pochissimo per noi, molto in relazione allo stipendio medio locale.

La conversazione scivola su binari più leggeri; mostro alla mia amica la guida Lonely Planet del Caucaso, scritta in italiano, che lei prova a leggere e a tradurre con un discreto successo, avendo studiato anche il nostro idioma, oltre all’inglese e allo spagnolo. Nana rimane sorpresa da come io riesca a leggere l’armeno, una lingua indoeuropea molto particolare, che certo pochi stranieri si preoccupano di imparare. E’ una lingua molto strana: possiede sette casi, ma un solo genere. Il suo alfabeto, unico al mondo e completamente diverso da qualunque altro, è stato codificato dal monaco Mesrop Mashtots agli inizi del V secolo, principalmente allo scopo di tradurre i testi religiosi. Molti termini derivano dal persiano, o addirittura dal sumero, quindi l’armeno è pressoché incomprensibile per gli stranieri. Io, però, mi sono preoccupato di studiarlo un po’, almeno per saperlo leggere, perché è sempre molto utile sapersi orientare nelle stazioni o leggere i nomi delle strade.

Nana mi spiega che in realtà esistono due tipi di armeno: quello occidentale, più moderno, parlato dagli armeni che vivono all’estero, nei vari paesi del medio oriente; e quello orientale, più simile all’armeno classico, parlato nella madrepatria. Per me, naturalmente, è impossibile cogliere la differenza, anche se la mia amica dice che le due pronunce sono molto diverse, qualche volta persino incomprensibili tra loro. La divisione è nata quando l’Armenia era una nazione molto più vasta di quella attuale, e occupava buona parte di quella che oggi è l’Anatolia turca; in seguito alle varie guerre ed occupazioni, con la conseguente diaspora, i vari gruppi etnici si sono allontanati tra di loro e nel tempo anche la lingua è cambiata.

Le racconto dei miei propositi di andare a sud, dove però lei non è mai stata. Conosce solo i dintorni di Erevan, soprattutto il lago Sevan, dove in estate moltissimi abitanti della capitale vanno a cercare un po’ di refrigerio.

“Andrai anche al lago? Sì sta bene là.” mi domanda.

“Penso di sì, ma più avanti, anche se non ho un programma dettagliato. Prima andrò a sud, poi girerò per le montagne qui a nord”.

E’ stata anche lei sulle montagne, ma non ne sa molto. La sua vita si svolge quasi interamente qui, nella capitale.

La mia amica ha finito le sigarette, e anche la tartaruga ha completato il suo giro intorno alla fontana. E’ ora di andare. Arriva il cameriere, che scambia due parole con Nana, che lo conosce bene (allora la scelta del locale non è stata casuale!), e mi presenta il conto: dieci euro per una cena in due persone, comprese un paio di birre a testa! Ah, Dio benedica l’Armenia…

  

Erevan, 11 agosto 2006 

Echmiadzin è la sede della Chiesa Apostolica Armena (l’equivalente armeno, anche se molto più in piccolo, del nostro Vaticano). In questo luogo, nel IV secolo d.C., San Gregorio Illuminatore fece erigere la prima Chiesa Madre dell’Armenia (Mayr Tachar), scegliendo il posto perché gli era stato indicato da Gesù in una visione. Qui Papa Giovanni Paolo II celebrò una messa nel 2001, e sembra che il tesoro, custodito nel retro della Chiesa principale, contenga la punta della lancia usata per trafiggere il costato di Gesù, che però non è visibile al pubblico. Oltre a questa, vi sarebbero custoditi alcuni frammenti della Santa Croce e dell’Arca di Noè.

L’Armenia è stato il primo paese al mondo ad adottare il Cristianesimo come religione di stato, e gli Armeni sono tuttora molto credenti. In tutte le chiese che ho visitato ho visto molte donne, anche giovani, coprirsi la testa con uno scialle prima di entrare in Chiesa, farsi il segno della Croce a ripetizione e uscirne poi camminando all’indietro, per non voltare le spalle all’altare. Echmiadzin, in particolare, è un luogo fondamentale per tutto il popolo armeno che vi si reca spesso in visita, se non in pellegrinaggio. Avendo le spalle scoperte ed i pantaloncini corti, non mi è permesso entrare nella Chiesa principale, così mi aggiro nel cortile reso afoso dal gran caldo mentre i monaci, incappucciati nei loro lunghi abiti scuri e dotati di una lunga, folta, barba si aggirano silenziosamente tra i diversi edifici. Raggiungo anche il Monumento al Genocidio, un grande arco intarsiato costruito per ricordare il recente passato di questo tormentato popolo.

Il complesso è molto interessante, anche se il caldo si fa sentire costringendomi a diverse soste sulle panchine. Durate una di queste pause, mi si avvicina una vecchietta chiedendomi la carità, dalla quale non posso esimermi: mezzo euro per me non è niente, mentre qui una persona ci può mangiare.

Ho voluto spingermi fino ad un’altra chiesetta, quella di Santa Gayane, dove si trova la tomba di uno dei personaggi più celebri dell’agiografia armena, che fu ucciso insieme ad altre trentacinque ragazze per non essersi convertite al paganesimo. La storia è questa: nell’anno 306 d.C. l’imperatore romano Massenzio, preso il potere grazie ad una rivolta, aveva cercato una riconciliazione verso i Cristiani, brutalmente perseguitati dal suo predecessore Diocleziano, al punto da restituire alla Chiesa molti tesori precedentemente confiscati. Dietro questa facciata benevola, però, si nascondeva un animo molto meno nobile, tanto che egli faceva rapire spesso le nobildonne cristiane per abusarne. Una di queste, Hripsime (probabile alterazione di Crispina), dotata di straordinaria bellezza ma che conduceva vita monastica, decise di fuggire insieme ad altre trentatré fanciulle ed alla superiora, di nome Gayane (forse diminutivo di Gaia). Dopo varie peregrinazioni, le giovani donne giunsero nella cristiana Armenia, dove speravano di essere al sicuro. La bellezza della giovane Hripsime non sfuggì però all’attenzione del sovrano Tiridate, il quale fattala venire al palazzo, la invitò a diventare sua moglie; ma la giovane, essendo consacrata a Dio, rifiutò resistendo a tutte le offerte. Secondo la leggenda fu ingaggiata fra i due una lotta accanita, ma Tiridate, pur essendo noto per la sua straordinaria forza, si dovette arrendere. Egli parlò allora con Gayane, chiedendole di convincere Hrispime a sposarlo; la superiora dapprima finse di accettare, poi invece esortò la sua protetta a restare fedele a Cristo. Alcuni presenti, che parlavano latino, fecero la spia col re e Gayane fu imprigionata. Tiridate, arrabbiatissimo, ordinò quindi di ucciderla ma il boia, per un equivoco, fece invece lapidare proprio Hripsime insieme alle sue compagne. Quando il re lo venne a sapere, decise di far uccidere anche Gayane, intorno alla cui tomba fu costruita una cappella poi trasformata in chiesa. Il martirio di Hripsime, Gayane e delle altre giovani fece tanto scalpore tra la popolazione che gran parte di essa, ancora vicina al paganesimo, decise di convertirsi alla nuova religione.

Proprio in questa chiesa mi imbatto in un battesimo: una grande famiglia è vestita a festa, e mentre gli anziani restano seduti fuori, nel giardino, circondati da bambini che giocano e schiamazzano allegramente, all’interno i genitori del battezzato osservano commossi la cerimonia, molto simile alla nostra, che osservo da lontano senza disturbare.

 

Fuori dal complesso, la solita passeggiata sotto gli alberi mi ha rinvigorito, al punto da invogliarmi a telefonare a casa. Vedo un grande ufficio postale, e decido di fare un tentativo. Non ho altra scelta: col mio cellulare non riesco a chiamare verso l’estero (è la prima volta che mi succede), nonostante la rete mobile qui sia molto efficiente, anche se un po’ cara; in Armenia, infatti, c’è un solo gestore che, di conseguenza, può imporre i prezzi che vuole senza che gli utenti abbiano molta scelta.

Nel grande atrio cadente c’è una vecchietta seduta pigramente ad un bancone: nel mio russo stentato le spiego di voler chiamare l’Italia, le scrivo il numero, e lei mi indica una scassatissima cabina dove mi dice di entrare ed attendere. Mi ci infilo dentro, e quando il telefono squilla alzo la cornetta ma la linea cade. Dopo diversi tentativi finalmente riesco a parlare con mia madre, anche se la voce impiega molti secondi ad arrivare a destinazione, da una parte e dall’altra, rendendo la conversazione molto difficile. Alla fine vado a pagare, scoprendo che, nonostante la telefonata sia stata brevissima, esiste una tariffa minima da sborsare.

D’ora in poi manderò solo e-mail, anche se nemmeno questo è semplice: l’accesso Internet dell’ostello è sempre rotto, e trovare un altro Internet point funzionante è veramente un’impresa!

 

* * *

 

Nel pomeriggio sono andato alla stazione ferroviaria, per informarmi sugli orari e le destinazioni dei treni; quando possibile, preferisco sempre usare questo mezzo di trasporto che mi piace molto per la comodità, la tranquillità con cui posso guardare il panorama, la possibilità di venire a contatto con persone con cui parlare, scambiandosi chiacchiere, informazioni e cibarie. Inoltre è l’unico mezzo sul quale non soffro di chinetosi, mentre ho spesso problemi di stomaco quando uso pullman, auto e navi.

L’edificio si trova nella periferia meridionale, di fronte ad un piazzale in cui si tiene uno dei principali mercati cittadini. Per quanto grande, la costruzione era assolutamente deserta: biglietteria chiusa, atrio vuoto, binari inutilizzati. Nessun passeggero, nessun treno, nessun orario. Solo un’anziana donna delle pulizie che lavava il pavimento con uno spazzolone mi ha appena addocchiato, quasi seccata dalla mia intrusione; per il resto, mi sembrava di stare in un vecchio museo privato di tutti gli oggetti in mostra.

Dopo aver girovagato un po’, dando qualche occhiata agli incomprensibili annunci esposti qua e là, destinati a chissà quali utenti, ho finalmente trovato l’orario ufficiale: un pannello appeso sopra l’uscita che dà sui binari, composto da quattro righe scritte a mano, divise tra partenze e arrivi. Per me nessun treno utile: solo una connessione a giorni alterni per la Georgia, e un paio di treni locali diretti a nord, tutti ad orari per me impossibili. Dalle otto del mattino fino alla cinque di sera, niente. Speravo di trovare connessioni per Sevan: negli anni dell’Unione Sovietica era stata costruita una ferrovia che raggiungeva il grande lago e lo oltrepassava aggirandolo e spingendosi a sud fin quasi in Azerbaijan; oggi però è stata chiusa. Dovrò trovare un altro modo per andarci. In effetti, in Armenia (ma anche in molti altri paesi non occidentali), il treno è un mezzo usato molto scarsamente; le gente preferisce prendere i mashrutka, che partono a tutte le ore e ti fanno salire e scendere dove vuoi. Oltre a ciò, la manutenzione dei binari e dei vagoni è molto costosa, e lo stato non ha le finanze per accollarsi queste spese; in attesa di tempi migliori, i pochi investimenti vengono fatti per il trasporto su gomma, dove comunque i pulmini sono a carico delle cooperative, e una strada è molto più economica da mantenere piuttosto che una ferrovia.

Ricopio comunque l’orario in caso possa tornarmi utile più avanti; mi viene un dubbio, perché invece della parola “partenze” ce n’è una che credo significhi “destinazioni”. Lascio la donna delle pulizie al suo lavoro e torno in ostello, dove chiedo ad Ani una conferma sulle informazioni che ho raccolto. Quale sorpresa mi coglie quando scopro che la ragazza non capisce il russo! E io che mi illudevo che qui lo parlassero tutti… I giovani invece non lo studiano più, preferendo l’inglese. Come dargli torto?  Peccato però che per gli adulti sia vero il contrario, e mettere insieme i vari pezzi in questa babele di lingue ed alfabeti diversi sta diventando ogni giorno più difficile.

 

* * *

 

Questa sera a cena ho incontrato dei ragazzi francesi molto gentili, con cui ho fatto subito amicizia.

Ero andato a curiosare in una strada chiamata “strada dei barbecue” per via dei numerosi (o presunti tali) ristoranti specializzati in khoravats, un piatto tipico consistente appunto in una generosa grigliata di carne, soprattutto di maiale, ma anche di manzo, vitello, o pesce.

La mia guida ne parlava bene, invece sono rimasto molto deluso: più che una “strada dei barbecue” mi è sembrata una polverosa via periferica, soffocata dal traffico, sulla quale si affacciano semplici (e poco puliti) baracchini che offrono spiedini a basso costo da portar via o da mangiare in piedi, gestiti da loschi figuri che capiscono (o fingono di capire) soltanto l’armeno. Ho scoperto però che, non distante, anche se in un altro quartiere, c’era un localino molto interessante che ho raggiunto a piedi passando attraverso i soliti parchi, onnipresenti anche nei quartieri periferici: a Erevan, ovunque voi abitiate, non sarete mai a più di cento metri da un accogliente giardino con tanto di fontane e caffè all’aperto.

Anche il mio ristorante aveva i tavoli all’aperto, e seduti a uno di questi ho rivisto tre ragazzi francesi (una ragazza e due maschi) che avevo già notato qualche ora prima nell’ufficio turistico, locale semplice ma accogliente (e con l’aria condizionata!) dove ero andato per chiedere alle attraenti ma distratte addette alcune informazioni su possibili alloggi nel resto del paese.

Vado al loro tavolo a salutarli, e i gentili ragazzi mi invitano subito a sedermi con loro. Dev’essere quella particolare complicità che si crea tra backpackers, quel bisogno di trovare alleati in un paese sconosciuto, a far sì che ogni incontro, per quanto casuale, si trasformi subito in una possibile amicizia.

La ragazza, Corinne, è alta e magra, capelli neri a caschetto e due occhi azzurri che ti passano da parte a parte. I ragazzi, invece, si chiamano entrambi Jerome, il che semplifica le cose perché devo ricordarmi un solo nome. Lavorano tutti nel settore dell’urbanistica, così approfitto subito per chieder loro cosa pensano dell’architettura di Erevan; anch’essi, come me, approvano la presenza del verde in ogni angolo della città. Dove abitano loro, nei sobborghi di Parigi, tutto lo spazio disponibile è stato edificato, senza lasciare posto ad angoli verdi; mi viene in mente come, nelle nostre città italiane, la situazione non sia molto diversa.

Mi raccontano di aver girato l’Armenia per due settimane e di aver scoperto un paese bellissimo, con montagne, foreste, laghi, dove la gente riesce ad essere molto ospitale nonostante le barriere linguistiche, che costituiscono l’ostacolo principale nell’esplorazione del paese. Mi dicono che, fuori Erevan, nessuno parla inglese; loro non parlano russo e quindi i dialoghi spesso si sono svolti a gesti. Ma, ovviamente, quando c’è la buona volontà tutti gli ostacoli si possono superare, tanto che loro sono stati invitati più volte a mangiare in case private, presso gente del posto che non incontra spesso stranieri e che forse per questo li tratta sempre con molta ospitalità. Non vedo l’ora di verificare quanto ciò risponda a verità.

In seguito la conversazione si sposta sui paesi che abbiamo visitato. Uno degli Jerome ha viaggiato molto, è stato in molte parti dell’Africa e dell’Asia, e ha anche percorso la Transiberiana fino a Pechino, attraverso la Mongolia. Per conto mio gli spiego, senza mentire, che la Francia è il paese straniero che preferisco, dove mi sono sempre trovato molto bene sotto ogni punto di vista: accoglienza, paesaggi, persone. Ma quando comincio a parlare dell’Islanda subito Corinne si agita, incalzandomi: “Racconta, racconta” mi sprona sgranando quegli occhioni blu che mettono paura, tanto sono belli. Le racconto dei paesaggi meravigliosi, molto selvaggi ma assolutamente incantevoli; dei fiumi guadati in fuoristrada; dei vulcani nel cui cratere si può camminare; delle notti trascorse negli ostelli dopo aver nuotato nelle pozze d’acqua calda; non smetterei mai di parlare e di descrivere le mie avventure di fronte a quello sguardo magnetico, che mi sforzo di non guardare troppo perché ho timore che non riuscirei più a smettere di fissarlo.

La seconda birra comincia a farsi sentire, così il mio arrugginito francese si mescola troppo spesso con l’inglese costringendomi qualche volta a delle pause di silenzio mentre cerco le parole giuste. In una di queste pause si intromette nella conversazione un tale, seduto con la moglie al tavolo accanto: si tratta di Hamid, un armeno emigrato trent’anni prima in Siria dove ha imparato il francese. La conversazione si incanala presto nei binari della politica, argomento che per me non è di alcun interesse, per cui vengo a poco a poco escluso dal consesso.

Hamid si sofferma molto a lungo sulla questione della diaspora armena, iniziata nel 1915 in seguito al genocidio di massa compiuto dai turchi, i quali avevano per gli armeni la stessa considerazione che i nazisti provavano verso gli ebrei. Oggi sono oltre dieci i milioni di armeni che vivono all’estero, a fronte dei circa tre rimasti in patria. Il siriano ci spiega come i paesi medio-orientali attuino politiche molto diverse nei confronti del paese caucasico, alcune amichevoli, altre ostili. La conversazione si è trasformata ormai in un monologo, ma i miei amici sembrano molto interessati, soprattutto (sigh!) Corinne che ha una nonna armena e che quindi si sente coinvolta dai fatti narrati, intervenendo nella discussione e raccontando la propria esperienza. La situazione mi sta sfuggendo di mano, proprio quando avevo conquistato l’attenzione della ragazza! Dopo una buona mezz’ora di noia sono tentato di salutare e andarmene: capisco poco di quello che dicono (parlano in un francese molto fluente), e quel poco non mi interessa affatto, così mi limito a sonnecchiare, sorseggiando il vino e consolandomi notando che anche la moglie di Hamid, lasciata in disparte, sia ben poco entusiasta della piega presa dalla serata. Decido comunque di restare: un po’ per educazione, un po’ per non rinunciare a Corinne, un po’ perché il buon uomo ha avuto la gentilezza di offrirci da bere (oggi cade il suo anniversario di matrimonio); così rimango seduto ad ascoltare quello che ormai è diventato un barbosissimo monologo fino all’ora di chiusura, quando la stremata cameriera ci porta il tanto agognato conto. Dopo un lungo congedo di Hamid con tanto di scambio di indirizzi e-mail (non certo il mio), finalmente riesco a riappropriarmi dei miei amici (soprattutto dell’amica), con i quali faccio un ultima passeggiata. Uno dei ragazzi partirà dopodomani, mentre Corinne e l’altro resteranno ancora qualche giorno. Mi chiedono se domani sarò ancora in città, ma ho già in programma di partire, e nemmeno lo sguardo più magnetico del mondo può vincere la mia natura di nomade. La serata si chiude in Piazza della Repubblica, dove saluto affettuosamente Corinne sullo sfondo dei palazzi illuminati che si specchiano nel laghetto con un effetto che nemmeno Piazza di Spagna o Campo dei Miracoli possono vantare. 

 

 

Goris, 12 agosto 2006 

“Welcome to Armenia!” mi dice ridendo il mio vicino di posto sul mashrutka che, in teoria, dovrebbe portarci a Goris ma che in realtà sembra non volerne proprio sapere. Il ragazzone si chiama Armen e mastica un po’ di inglese, un aiuto prezioso in questi luoghi ed in questo genere di situazioni. E mai come adesso ho bisogno di un appoggio.

Goris è una verde cittadina dell’Armenia meridionale, costruita intorno ad un’oasi sperduta in mezzo ad un deserto roccioso. La città costituisce un’ottima base per esplorare la regione, ed in particolare per visitare il monastero di Tatev, che mi hanno detto essere magnifico e situato in una posizione davvero spettacolare. Ma poiché la città è lontana dai principali (si fa per dire) percorsi turistici, è visitata da pochi viaggiatori: per me, questo è certamente un motivo in più per andarci.

Quando il mashrutka arriva alla stazione di Erevan, viene preso d’assalto dai locali ancora prima che si fermi. Anch’io mi butto nella ressa, e riesco a trovare posto di fianco all’autista; e accanto a me ecco sedersi Armen, con cui faccio subito amicizia. Come tanti armeni ha i capelli scuri, tagliati corti, lo sguardo penetrante e l’aria simpatica. Ci sistemiamo tra i piedi i bagagli e quando il pulmino parte, alle dieci, sono molto eccitato. Fino ad ora il viaggio è stato facile, con ostello prenotato e tutte le comodità di una città; ma ora viene il bello. Un americano che ho conosciuto nei giorni scorsi, che vive nel paese da alcuni anni e lavora nei corpi della pace, mi ha detto che la vera Armenia non è Erevan, ma la provincia, la parte rurale; e io non vedo l’ora di scoprirla, andando all’avventura (ma non allo sbaraglio). Dopo pochi chilometri sono subito accontentato: l’autista sembra poco convinto riguardo ad alcuni strani rumori provenienti dal motore, così decide di fermarsi in un’officina per far controllare il mezzo. Si ferma in un cortile dove io scendo per fare due passi, ma poco dopo il mezzo riparte con a bordo i miei bagagli e tutti i passeggeri, lasciandomi a terra. Lo inseguo, ma per fortuna vedo che sta solo facendo manovra per entrare in un garage. Ne approfitto per fare un giro nei dintorni; subito dopo mi viene in mente che nella mia borsa incustodita ci sono il passaporto e tutti i miei soldi, ma non mi preoccupo più di tanto: mi sono bastati tre giorni per rendermi conto di come questo paese sia senza dubbio un luogo sicuro, dove uno straniero viene guardato come un amico da conoscere e non come un portatore di soldi da truffare o derubare. Gli armeni sono onestissimi, ed infatti quando il mashrutka riparte, dopo quasi due ore di sosta, verifico che nessuno dei passeggeri, che pure sono rimasti a bordo tutto il tempo mentre i meccanici riparavano il guasto, ha toccato niente.

Percorriamo altri quattro o cinque chilometri, quindi l’autista si ferma di nuovo. Non è convinto del mezzo, e non se la sente di imbarcarsi in un lungo viaggio (Armen dice che ci vogliono cinque ore per arrivare); così, armeggiando col cellulare, chiama la centrale affinché ci mandino un altro mezzo in sostituzione. Aspettiamo quasi un’ora, sotto il sole di mezzogiorno, che arrivi il nuovo pulmino, mentre io sono tentato di rinunciare e tornare indietro a piedi. Ma Armen, col suo sorriso gioviale, mi convince a restare. “L’altra macchina sta arrivando”, continua a ripetermi sorridendo, mentre gli altri passeggeri sonnecchiano pazienti.

Finalmente arriva un nuovo mashrutka sul quale traslochiamo armi e bagagli. Il veicolo a prima vista non sembra più affidabile del precedente, ed infatti, dopo una sosta per fare benzina, non riparte più. Il benzinaio spinge da dietro mentre l’autista cerca continuamente di mettere in moto, ma senza successo. Mentre sto riflettendo su come in Italia le persone avrebbero cominciato a protestare vivacemente e ad inveire contro l’autista, qui incredibilmente la gente… si mette a ridere! Evidentemente sono abituati a problemi di questo genere… E mentre mi guardo intorno, perplesso, ma sempre più contagiato da quest’aria di serena rassegnazione, Armen mi dice: “Welcome to Armenia!”. Ma sì, viva l’Armenia e tutti i suoi abitanti.

 

La strada bella, asfaltata, con due corsie per parte è un lungo nastro d’asfalto che corre dritto in mezzo ad una pianura verdeggiante. Raggiungiamo la città di Areni, famosa per i suoi vigneti, i migliori del paese, e per le annesse aziende vinicole. Poi, dopo una brusca curva, la strada improvvisamente si restringe e comincia a salire ripida. Il mashrutka, stracarico, rallenta vistosamente e arranca a fatica mentre, tutto intorno, il paesaggio diventa pietroso, brullo, desertico. Ora capisco perché il viaggio richieda così tanto tempo. Anche il traffico, prima molto intenso, diventa sempre più scarso; l’impressione di smarrimento, di isolamento nel nulla intorno a noi è forte, e sembra davvero di dirigersi verso la fine del mondo. Arrivati in cima ad un passo la strada scende altrettanto ripida e subito il pulmino accelera, tuffandosi in una picchiata vertiginosa verso la valle sottostante, tagliando curve strettissime e sorpassando alla cieca vecchi carretti che troviamo ogni tanto sulla strada. Il viaggio procede così, alternando faticose salite a spericolate discese, fino a quando, dopo quasi tre ore dalla partenza, ci fermiamo in un piccolo ristorante per il pranzo.

Non so quanto resteremo fermi, così decido di non allontanarmi troppo, tenendo sempre d’occhio il mashrutka dopo aver preso nota della targa: nel cortile, infatti, ce ne sono molti altri uguali al mio e non vorrei ripartire su quello sbagliato…

Il locale è piccolo ma confortevole, e soprattutto fornisce un ottimo riparo dal sole. Vedo molti passeggeri ordinare enormi spiedini che grondano grasso da ogni angolo, innaffiati con grossi boccali di birra. Personalmente, la corsa mozzafiato e il caldo opprimente non mi invogliano a mangiare, così prendo solo un succo di frutta, per poi sedermi ad un tavolo insieme ad Armen, che non parla molto ma mangia voracemente.

Esco a fare un giro nel cortile. Alcune donne vendono frutta e verdura esposte su cassette di legno rovesciate; accanto, una fontana da cui sgorga invitante acqua fresca è presa d’assalto da viaggiatori che riempiono bottiglie vuote: anch’io decido di farne scorta, liberandomi dell’acqua che avevo preso a Erevan e che ormai è diventata brodo. Più oltre, alcune siepi molto alte sono state ricoperte con delle frasche creando delle specie di camerette ombreggiate, dove alcune famiglie mangiano al riparo dal sole su dei tavoli installati appositamente.

Dopo circa un’ora di sosta ripartiamo, e il paesaggio intorno a noi diventa, se possibile, ancora più brullo. Ogni tanto attraversiamo qualche sperduto villaggio, costruito nei pressi delle oasi che crescono ai margini delle pietrose montagne. Superiamo il passo Vorotan, a 2.344 metri di quota, entrando nella regione di Syunik, al confine con l’Iran. Questa strada, l’unica della zona, ha origine da una diramazione dell’antica Via della Seta che da Tabriz, nell’Azerbaijan iraniano, portava verso il Mar Nero; ancora oggi si incontrano alcuni Caravanserragli, come quello di Selim, risalenti al quattordicesimo secolo e tuttora intatti. L’intera regione è costellata di antiche fortezze e monasteri fortificati, costruiti intorno a minuscoli villaggi di montagna le cui origini sembrano risalire alla notte dei tempi, e che oggi sono raggiungibili solo in fuoristrada.

 

Arriviamo a Goris verso le sette di sera. Non appena passiamo davanti alle prime case, comincia un’interminabile serie di soste: ogni tanto qualche passeggero scende, facendo spostare tutti per poter scaricare i bagagli; qualcun altro sale, approfittando di un passaggio per raggiungere il centro; altre volte ancora ci fermiamo perché l’autista deve consegnare dei pacchi ai relativi destinatari, oppure degli scatoloni di cibo a qualche negoziante. Il mashrutka infatti funziona anche da autobus, postino, corriere, messaggero delle ultime novità dalla capitale, e il suo arrivo rappresenta sempre un momento di agitazione, di curiosità, quasi di festa in un luogo tanto remoto e sonnolento.

Quando finalmente arriviamo alla stazione Anton, un quarantenne del posto che ho conosciuto durante la sosta, si offre di accompagnarmi a cercare un albergo, ma poi mi propone di fermarmi a dormire da certi suoi parenti che abitano in città. Accetto molto volentieri: sono curioso di vedere da vicino come si svolge la vita quotidiana in questo paese remoto. Anton mi accompagna in una casa antica, molto bella, con un grande cortile interno ed una veranda al primo piano, dove si svolge tutta la vita domestica. Vi abitano solo donne: la padrona di casa, Pendjk, è sui quarantacinque anni, coi capelli rossi tagliati corti e uno sguardo molto intelligente. Insieme a lei vivono l’anziana madre, la figlia Anja, una vicina molto simpatica di nome Djanna ed una ragazza stupenda, con capelli nerissimi, due occhi grigi da far gelare il sangue ed un nome impronunciabile che aveva viaggiato sul mio stesso mashrutka da Erevan. Sono tutti molto gentili, anche se non parlano inglese e mi è difficile farmi capire col mio russo molto stentato. Mi offrono una stanzetta in parte alla veranda, con un letto comodissimo, un tavolino ed una piccola finestra da cui la vista spazia su un ampio pergolato da cui pendono succosi grappoli di uva bianca.

Subito mi portano da mangiare, soprattutto verdura: cetrioli, pomodori, fagiolini, e pane accompagnato da un formaggio simile alla feta, ma molto piccante. Da bere, l’immancabile bottiglia di vodka: questa in particolare è stata prodotta in casa distillando la mora di gelso, frutto tipico della regione.

Queste donne sono molto semplici e gentili, e anche curiose (penso che non abbiano mai incontrato un italiano prima d’ora): mi fanno domande sulla mia vita, sulla mia famiglia, su cosa ho visto dell’Armenia, se mi è piaciuto e dove andrò in seguito. Quando chiedo il costo del soggiorno dapprima si guardano imbarazzate, senza sapere cosa rispondere; poi mi  propongono un prezzo irrisorio, che ho quasi vergogna a pagare. Espongo anche la mia intenzione di andare l’indomani al monastero di Tatev; la signora mi dice che c’è un pullman ogni mattina, e che sarà lieta di accompagnarmi a prenderlo. Sono molto contento di come stanno andando le cose: ho trovato una bella famiglia, accogliente, con cui posso parlare e capire molto riguardo alla vita quotidiana di questa gente.

Nonostante siamo in mezzo al deserto, il clima non è caldo come a Erevan; trovandosi in un’oasi, la zona è molto ventilata e stare seduti a parlare, al fresco della veranda, mangiando in compagnia è davvero piacevole: le mie ospiti mi insegnano un po’ di armeno, io condivido con loro qualche parola d’italiano. Certo, mancano molte comodità: al mio arrivo ho potuto solo sciacquarmi la faccia in un catino, ed il water non ha l’acqua corrente, ma bisogna riempire una brocca nella vasca da bagno e poi versarla nella tazza; ma nonostante la semplicità (o forse proprio grazie ad essa), questa famiglia è così gentile ed accogliente che sono sicuro ne verrà fuori una bellissima esperienza. 

 

Goris, 13 agosto 2006

 Il monastero di Tatev è certamente uno dei più spettacolari dell’Armenia, tanto da essere raffigurato su tutte le cartoline illustrate e sui vari dépliant turistici. La strada che lo raggiunge, in compenso, è terribile: non asfaltata, piena di buche e si avvolge in stretti tornanti su cui transita una quantità di traffico forse eccessiva per le sue capacità; sono tantissimi infatti i viaggiatori ed i gruppi di turisti che visitano il complesso per la sua spettacolare posizione abbarbicata in cima ad una montagna, da cui la vista spazia per chilometri sul paesaggio sottostante. In particolare si vede benissimo la stradina che si arrampica sulle pendici intorno alla gola del Vorotan, sulla quale arrancano faticosamente le vecchie auto che cercano di raggiungere questo posto tanto isolato. Ci sono arrivato in taxi, dopo aver scoperto che alla domenica non ci sono mezzi di trasporto pubblici e avendo contrattato con l’autista un prezzo comunque esorbitante (più di quello che pago per mangiare e dormire due notti in casa di Pendjk).

Il complesso, risalente al IX secolo, è formato da due chiese principali realizzate in pietra, molto semplici, ed una fortificazione in muratura su cui è possibile camminare ed osservare le montagne intorno a noi. Ci si sente quasi sospesi nell’aria, a picco sul grande canyon sottostante, che serpeggia a perdita d’occhio tra le alte montagne.

Anche qui trovo una messa al mio arrivo, così non posso aggirarmi molto a lungo dentro la chiesa. Non importa: questi monasteri sono tutti molto semplici, e spesso la parte più interessante non è l’interno degli edifici ma loro posizione; peccato solo per la grande gru da costruzione, piazzata proprio in mezzo al cortile, che rovina l’atmosfera.

In compenso posso ammirare una quantità incredibile di belle ragazze, tutte armene, che sono in gita qui e che valgono da sole questo viaggio. I tratti somatici sono quelli già visti a Erevan: lunghi capelli neri corvini, occhi penetranti, lineamenti severi ma che possono addolcirsi in un ampio sorriso, fisico asciutto e prestante. Ne vedo diverse, una più bella dell’altra, aggirarsi tra gli edifici scattandosi reciproche fotografie sul muro di cinta o acquistare souvenir dall’immancabile chiosco gestito dai monaci. Devo dire che la bellezza degli armeni (e delle armene) è pari alla loro cortesia, e anche se non riesco a comunicare molto sono contento di guardarli e di osservare la spensieratezza e l’ottimismo stampato sui loro volti, anche in questi tempi difficili.

 

Al pomeriggio ritorno a Goris, dove posso comodamente chiacchierare con Pendjk per saperne di più sulla sua vita e su quella degli innumerevoli ospiti che vanno e vengono dalla casa a getto continuo, forse anche incuriositi dalla mia presenza. In particolare l’onnipresente Djanna, una simpatica signora sulla sessantina, con folti capelli rossi e occhialini da maestra, mi racconta la sua storia: ha insegnato lingua e letteratura farsi all’università di Erevan per trentotto anni insieme a suo marito, docente di tedesco. Ha fatto anche la redattrice, così mi sembra di capire, in un giornale locale scritto anch’esso in farsi. Questa lingua è piuttosto diffusa qui: in effetti la frontiera con l’Iran è a soli 60 km in linea d’aria, anche se la tortuosa strada ne impiega quasi 200 per raggiungerla.

Mentre parliamo, Djanna mi offre delle zucchine che ha preparato lei stessa, molto più buone di quelle a cui sono abituato in Italia (che non mi piacciono affatto) e delle quali mi spiega la ricetta: prepara un pesto di aglio, aceto e nocciole, poi lo versa sulle zucchine tagliate a fette sottili e cotte alla griglia. E’ quasi ammirevole la pazienza che mette nel cercare sul mio dizionario tascabile i nomi di tutti gli ingredienti, in modo che io possa comprenderli.

 

Nell’arco della giornata, seduto al tavolo in veranda, posso osservare scene d’altri tempi: la figlia maggiore (che avrà una ventina d’anni) fa il bucato, china su di un catino appoggiato in terra: insapona i panni, li risciacqua, infine li appende al filo steso sul cortile. L’altra ragazza (quella mora, bellissima ma molto scontrosa, e con cui non sono mai riuscito a parlare) prima ripara una tenda che si era strappata dal sostegno, poi (incredibile!) cambia una lampadina: non avevo mai visto una donna farlo. Nel frattempo l’anziana nonna, seduta su una sedia a dondolo, ripara una scarpa a cui si era staccata la suola. Mi sembra di essere tornato indietro nel tempo di almeno cinquant’anni. Faccio notare a Pendjk come in Italia le ragazze (almeno quelle che conosco io) siano molto diverse: sono capaci solo di parlare al cellulare e di fare shopping nei centri commerciali.

Mostro alle donne le foto che ho scattato finora, facendole scorrere sul display della mia macchina fotografica digitale. Ci soffermiamo a parlare di Nana, della quale vogliono sapere tutto; poi guardiamo insieme le immagini di Erevan, di Echmiadzin, e della riserva naturale di Spendaryan che ho attraversato durante il viaggio di andata. Alla fine chiedo di poterne scattare qualcuna insieme a loro: accettano volentieri, anche se la nonna scherza, fingendo di lamentarsi perché non ha il tempo di acconciarsi i capelli a dovere… Mi faccio dare anche il loro indirizzo, con la promessa di spedir loro dall’Italia le foto una volta sviluppate. E alla fine del pasto, di nuovo a base di pane, formaggio, verdura e vodka, mentre le ragazze sparecchiano, Pendjk mi offre degli strani semi, simili a pistacchi, che tutti mangiano avidamente dopo averli sbucciati uno per uno, con molta pazienza. Notando il mio sguardo perplesso, la signora cerca a lungo di spiegarmi di cosa si tratti, poi va in cucina e torna mostrandomi una bottiglia di olio di semi. Ora capisco: sono semi di girasole tostati, specialità che io non conoscevo ma di cui gli armeni sembrano andare ghiotti.

 

Nel pomeriggio vado a fare un giro in città. Non è particolarmente interessante: una griglia di strade orizzontali e verticali, tutte in saliscendi, ai cui bordi ci sono basse costruzioni silenziose, all’apparenza disabitate. Il traffico è scarsissimo, e anche le vie sono deserte; vedo solo un gruppo di bambini intenti a giocare a pallone nell’immancabile parco, che al mio passaggio mi salutano con un gesto della mano. Camminando, incontro due ragazze che mi chiedono il nome e si fermano a chiacchierare qualche minuto. Ne approfitto per chiedere loro se in città ci sia un Internet point, dato che quelli segnalati sulla LP non esistono più. Mi dicono di sì, e mi spiegano la strada per trovarlo. Prima di andarci, mi spingo alla periferia orientale, dove in lontananza si possono vedere alcune grotte scavate nelle formazioni rocciose circostanti: si tratta della vecchia Goris, i cui abitanti già nel V secolo vi si rifugiavano a depositare le scorte di cibo o a nascondersi dagli invasori. Mi riporta alla mente le case troglodite di Matmata, in Tunisia, forse più spettacolari ma altrettanto affascinanti. Vorrei visitarle da vicino, ma il sentiero che le raggiunge è lungo e ho paura che nel frattempo diventi buio, così rinuncio.

Visto che a tavola si beve solo vodka, sulla via di casa mi fermo in un negozietto a comprare un paio di bottiglie d’acqua. Quella gasata è molto buona: si chiama Djermuk, dal nome del paese, non lontano da qui, dove si trova la fonte principale dell’Armenia, a oltre duemila metri d’altezza. Me le vende una ragazza molto carina: sembra che la città sia abitata solo da donne.

 

Dopo cena, nella tranquillità della sera, i bambini giocano per strada (!), e si sentono addirittura le voci dei passanti: qui il transito di un’automobile rappresenta quasi un evento, tanto che la gente si sporge dal terrazzo per guardarla passare…

 

 

 

Erevan, 14 agosto 2006 

A causa della mia natura romantica non mi sono mai piaciuti gli addii, perché tendo a commuovermi troppo, e faccio di tutto per renderli il più brevi e sbrigativi possibile. Così, al mattino presto, cerco di dileguarmi zaino in spalla, ma la nonna è così lesta da intercettarmi e da chiedermi di restare a colazione. Cerco di rifiutare, perché il mashrutka per tornare a Erevan parte tra poco e non posso permettermi di perderlo, ma l’insistenza della signora è tale che mi convince a trattenermi. Mangio qualcosa velocemente, quindi schizzo alla stazione preparandomi alla solita lotta corpo a corpo per accaparrarmi un posto; invece, scopro con stupore che esiste una biglietteria dove rivolgersi (l’uso di un mezzo pubblico presenta ogni volta delle sorprese!). Bene, penso: non dovrò lottare per avere un posto; ma quando entro per comprare il biglietto, scopro che il pulmino è già al completo. Quello successivo partirà alle 10, quindi (in teoria) dovrebbe arrivare a Erevan alle 15: un po’ tardi per andare direttamente al lago Sevan, la mia prossima destinazione; mi hanno detto che in agosto le sistemazioni intorno al lago sono piene, quindi decido che, giunto a Erevan, telefonerò a qualche residence per sapere se hanno posto. Alla peggio passerò la notte in città.

 

In ogni proverbio c’è sempre un fondo di verità. Uno dei miei preferiti recita: “Non tutto il male vien per nuocere”, e calza a pennello con la mia tranquilla natura di ottimista, indispensabile ad ogni viaggiatore indipendente. E infatti anche questa volta si concretizza: mentre aspetto il mashrutka successivo vedo avvicinarsi una coppia di backpackers, chiaramente occidentali, con i quali vado subito a fare amicizia. Sarà un altro viaggio in buona compagnia.

Erik e la moglie Trish vengono da Amsterdam, e stanno girando l’Armenia già da tre settimane. Il fratello di lei ha sposato una ragazza armena (come dargli torto?), e loro due sono stati invitati a partecipare al matrimonio, i cui festeggiamenti sono durati una settimana. In seguito sono ripartiti per visitare il paese, e ora stanno tornando a Erevan per trascorrere con la nuova famiglia gli ultimi giorni prima del ritorno a casa. Ci sediamo vicini, anche se è difficile parlare tra i continui scossoni, il rumore del motore e la cassetta di musica araba che l’autista fa andare a palla nell’autoradio. Ho notato che qui in Armenia questo genere di musica, di probabile provenienza iraniana, è molto più ascoltata rispetto al rock russo, che io ritenevo più diffuso ma che invece è molto lontano dalla cultura locale. Comunque, dopo neanche un’ora i due ne hanno abbastanza della stordente nenia che ci tocca sopportare, così tirano fuori i loro i-pod nuovi di zecca e cominciano a selezionare canzoni occidentali, sperando che possano dare un po’ di sollievo ai loro padiglioni auricolari.

La sosta per il pranzo avviene presso lo stesso ristorante dove il mashrutka si era fermato anche all’andata. Con i miei nuovi amici mi siedo ad uno dei tavoli ombreggiati dove ci scambiamo le scorte di cibo e mangiamo della squisita frutta fresca appena acquistata da una delle venditrici locali.

Ne approfitto per chiedere loro informazioni su Tbilisi, la capitale della Georgia, che intendo raggiungere tra qualche giorno e che non gode affatto di una buona reputazione. I due olandesi confermano i miei sospetti:

“Ci siamo stati qualche giorno fa, - mi racconta la ragazza – e l’atmosfera non è certo tranquillizzante: ovunque ci sono mendicanti, e anche molti zingari, tanto che quasi tutti i negozi hanno guardie armate all’ingresso.” La guardo un po’ preoccupato, mentre lei continua: “A noi personalmente non è successo niente; comunque penso che sia meglio non andare in giro dopo il tramonto”.

A sentire questa descrizione, penso che mi fermerò a Tbilisi il meno possibile. Solo un’altra volta, nell’arco di tutti i miei viaggi, sono capitato in una città con le guardie armate fuori dai negozi, ed è stato anche l’unico luogo in cui sono stato aggredito… ma questa è un’altra storia.

 

Intanto, il viaggio sul mashrutka riprende, ed i passeggeri non si annoiano di certo: in salita il pulmino va pianissimo, ma in discesa l’autista si scatena in sorpassi senza paura (da parte sua, almeno), curve cieche completamente tagliate invadendo la corsia opposta, improvvisi zig-zag per evitare le buche; il tutto, ovviamente, tenendo il cambio in folle per risparmiare benzina (Erik mi confessa che, durante il viaggio di andata, il loro mashrutka era rimasto a secco e hanno dovuto stare fermi per ore sotto il sole ad aspettare i rifornimenti). Il mio nuovo amico concorda con me su come sembri di stare sulle montagne russe, a parte le trascurabili differenze di non avere binari e di dover continuamente evitare le auto che arrivano dal senso opposto (o anche trattori, carri trainati da cavalli, sghangherate autocisterne piene di benzina, e tutto ciò che l’immaginazione dell’uomo è in grado di mettere su ruote). Nelle curve più strette, mentre cerchiamo di aggrapparci agli schienali dei sedili di fronte a noi per non rovinarci addosso l’un l’altro, ci consoliamo contando sul fatto che l’autista conosca la strada, visto che la percorre tutti i giorni, e che nemmeno lui, tutto sommato, ci tenga a schiantarsi. Anche i tentativi di Trish di fotografare il maestoso monte Ararat, che per lunghi tratti possiamo ammirare in tutta la sua grandezza, con la cima sempre coperta di neve, sono destinati a fallire miseramente. Tiriamo tutti un gran sospiro di sollievo quando arriviamo a Erevan sani e salvi; ma la soddisfazione dura poco perché, non appena apriamo lo sportello per scendere, la terribile afa della capitale ci toglie subito il fiato facendoci rimpiangere la frescura di Goris.

 

Saluto i miei amici che, come tanti altri prima e dopo di loro, hanno fatto parte della mia vita per poche ma serene ore, e affronto il problema successivo: trovare un posto per la notte. Faccio diverse telefonate ai resort sul lago, ma sono già tutti al completo: dovrò restare in città. Purtroppo scopro che anche il mio ostello è pieno; dovrò arrangiarmi in qualche altro modo. Sembra che ci siano degli affittacamere in città, dove forse posso trovare un letto a basso prezzo: tenterò questa strada.

Per i viaggiatori indipendenti come me, ogni giorno è una battaglia per la sopravvivenza: bisogna trovare un letto dove dormire, bisogna mangiare, bisogna prendere i mezzi pubblici nella giusta direzione, e tutto in luoghi dove comunicare con la gente può risultare molto difficile, se non impossibile. Bisogna capire di chi fidarsi e di chi no, distinguere tra quelli che ti vogliono aiutare e chi ti vuole derubare… Ma senza queste continue battaglie, senza questa giornaliera lotta per soddisfare i bisogni primari, nella quale possiamo contare soltanto su noi stessi, la nostra vita non sarebbe affatto degna di essere vissuta. E quando alla fine torniamo a casa, dove ritroviamo un letto caldo, l’acqua corrente, il frigorifero pieno, riusciamo ad apprezzare molto di più tutti questi beni che diamo troppo spesso per scontati, ma che in realtà non lo sono affatto.

 

 

Ijevan, 16 agosto 2006 

Dal grande terrazzo della casa di Gyulnara la vista è spettacolare, e spazia sull’intera valle del fiume Aghstev. Si vede anche la città vecchia, sull’altra sponda, mentre le verdi montagne circondano l’intero panorama come la degna cornice di un quadro naturalistico. Qui al nord la calura di Erevan è un lontano ricordo, ed è molto piacevole stare seduti a chiacchierare lasciandosi accarezzare dalla brezza della sera. Sono d’accordo anche Bert e Julia, due olandesi anch’essi ospiti in questa grande casa costruita su una collina; oggi sono andati a visitare la locale azienda vinicola, dove hanno comprato una buona bottiglia di vino bianco che stiamo sorseggiando, mentre il sole pian piano tramonta oltre le cime di fronte a noi, colorando la valle col classico colore rosso sfumato. Gyulnara, una signora sulla cinquantina, molto attiva e chiacchierona, ci ha preparato un’ottima cena a base di pizza gigante, verdure e alcuni pezzi di carne conditi con una salsa molto piccante. E’ la prima volta che mangio la carne in una casa privata: qui è un alimento che pochi possono permettersi. Il tutto è accompagnato da una strana bevanda verde, probabilmente un liquore a base di erbe, molto forte, quasi imbevibile.

 

Ijevan è una sonnolenta cittadina costruita nei boschi dell’Armenia settentrionale, animata soltanto dal grande mercato coperto intorno al quale ruota la vita quotidiana. In effetti, il nome stesso della città significa “locanda”, e mostra come questo luogo sia sempre stato considerato una tappa di sosta per le carovane dirette in Azerbaijan. Quando sono arrivato, stamattina, mi sono sentito completamente disperso; ho provato quella bellissima sensazione di smarrimento, di disorientamento che ti colpisce sempre quando arrivi in un luogo sperduto, dove non conosci nessuno, nessuno parla la tua lingua, non sai orientarti e fai appello a tutte le tue energie interiori perché comunque, in un modo o nell’altro, devi arrivare al giorno dopo. Una sensazione che non cambierei con niente al mondo.

In Armenia, dopo l’indipendenza, moltissimi nomi delle strade sono stati cambiati, sostituendo i personaggi dell’epoca sovietica con nomi di patrioti o di famosi personaggi locali: in ogni città piazza Stalin è diventata piazza dell’indipendenza; viale della rivoluzione è ora viale Mesrop Mashtots, e così via. Gli abitanti, però, non hanno percepito queste modifiche, e continuano a chiamare le vie con i nomi vecchi. Così chiedere a qualcuno dove si trovi una certa strada è assolutamente inutile, a meno che non se ne conosca anche il nome precedente, che però le guide non riportano; comunque spesso anche questo sarebbe uno sforzo vano. E’ molto più semplice dire nome e cognome della persona cercata: nelle città piccole tutti conoscono tutti, e questo è l’unico modo sicuro per essere indirizzati nella giusta direzione:

“Dove vive Irina Kosharyan?”

“In fondo alla strada vai a sinistra, prendi la prima a destra dopo il ponte, quindi cerca la terza casa, quella con le tende rosse”, e così via.

Solo che io non cerco nessuno in particolare, ma soltanto l’ufficio turistico; vengo così indirizzato all’ufficio postale, classico punto di riferimento per i forestieri, dove spiego che il posto che cerco si trova accanto al teatro. Per mia fortuna trovo una signora che sta andando da quella parte ed è così gentile da accompagnarmi. E’ stato in questo ufficio che una zelante impiegata mi ha trovato sistemazione presso la casa di Gyulnara, una elegante villa a due piani costruita sulle pendici di una collina. Al piano superiore, quello per gli ospiti, c’è un’enorme sala da pranzo su cui si aprono diverse camere da letto, con un grande balcone che dà sulla valle e anche la TV satellitare; sembra quasi una sistemazione lussuosa, fino a quando, stanco e sudato, vengo a sapere che in bagno l’acqua manca del tutto durante il giorno…

 

Bert insegna inglese a Rotterdam, mentre Julia è architetto. Lui è decisamente brutto: altissimo e magrissimo, con folti capelli bianchi che lo fanno sembrare più vecchio di quanto in realtà non sia, compone decisamente una strana coppia con la moglie, una ragazza minuta e carina, con due occhi verdi incastonati in un caschetto di capelli rossi, e un sorriso molto accattivante. Hanno girato il Caucaso per un mese, e tra pochi giorni ritorneranno in Olanda. Mi confermano come gli Armeni siano gentili e disponibili, e come anche qui al nord, sebbene sia difficile muoversi con i mezzi pubblici, abbiano sempre incontrato persone pronte ad aiutarli senza chiedere soldi. In mattinata hanno visitato alcune antiche chiese nei dintorni, molto belle ma anche molto isolate, e non hanno avuto alcun problema nel trovare passaggi in auto. Questa disponibilità disinteressata della gente è, finora, ciò che più mi è piaciuto di questa nazione. Non ho mai avuto l’impressione di essere oggetto di attenzioni “particolari”, o tantomeno di trovarmi in pericolo, nemmeno questo pomeriggio quando ho visitato la squallida e degradata zona vecchia della città, composta da polverosi edifici semiabbandonati in cui sembravano abitare più cani che uomini.

Mentre parliamo, chiedo loro qualcosa su Tbilisi, che hanno visitato un paio di settimane fa; purtroppo le notizie non sono rassicuranti.

“E’ un brutto posto, – mi conferma Bert - pieno di mendicanti, anche se è migliorata rispetto a tre anni fa, quando le persone andavano in giro armate”. Non so se sentirmi rassicurato o preoccupato. “A noi non è successo niente di brutto – aggiunge la moglie – ma abbiamo saputo di un turista che, in piena mattina, è stato assalito e picchiato da un gruppo di giovani nel parco Vake. Per fortuna i passanti sono accorsi ad aiutarlo.” Credo che la mia permanenza a Tbilisi sarà brevissima.

 

I due olandesi mi chiedono del lago Sevan, dove sono stato ieri. Si tratta di un enorme bacino, a 1900 metri d’altitudine, posto circa a metà strada tra qui e Erevan. In estate, e soprattutto la domenica, le sue rive sono molto affollate dagli abitanti della capitale, che vi si recano a cercare refrigerio dalla opprimente calura. In effetti l’acqua è molto pulita, ci sono spiagge libere e aree di campeggio. I bambini, muniti di braccioli e salvagente, nuotano vicino alla riva, sotto l’occhio vigile dei genitori, mentre più oltre tavole da windsurf si muovono eleganti all’orizzonte. Mentre passeggiavo, sono stato invitato ad unirmi ad un succulento barbecue che una famiglia aveva organizzato sulla spiaggia: l’ennesimo bell’esempio dell’ospitalità locale. Ho rifiutato solo perché avevo poco tempo, mentre sapevo che, se mi fossi seduto, poi sarebbe stato molto difficile andare via.

Salendo sulla collina adiacente al lago si trova l’immancabile monastero, anch’esso meta di carovane di turisti organizzati (ho incontrato perfino degli italiani, da cui mi sono tenuto bene alla larga) che possono acquistare souvenir dai venditori locali. La mia attenzione è stata attratta da un anziano signore, con barba e capelli bianchi, seduto in parte alla scalinata che porta alla vetta, che vendeva quadretti dipinti a mano raffiguranti il paesaggio lacustre. Ne ho comprato uno per mia madre (l’unico regalo che porterò a casa), e sono rimasto un po’ spiazzato quando l’uomo mi ha chiesto venti euro; ma ho deciso di comprarlo comunque: per me non è una gran cifra, mentre sono convinto che possa essere di grande aiuto per le persone della generazione passata, che ne hanno viste fin troppe nella loro vita.

Oltrepassato il monastero, ho camminato fino all’altro versante della collina, da dove si gode di una splendida vista del lago, che è tanto grande da non vederne la fine (nel punto più largo misura 80 km). Ho notato che molti alberi erano completamente ricoperti di fazzoletti o stracci colorati, annodati fittamente intorno ai rami. Ho chiesto spiegazioni ad una ragazza che vendeva souvenir accanto al monastero, che mi ha spiegato che questi nodi vengono fatti dagli zingari del posto, perché secondo loro tale usanza porta fortuna e fertilità.

 

Mentre parliamo, a casa di Gyulnara arrivano altri ospiti. Sono Thomas e Martin, due ragazzoni austriaci amanti della bicicletta che hanno trasportato i loro mezzi in aereo fino a Erevan e ora stanno pedalando per tutta l’Armenia. Alla media di centoventi chilometri al giorno hanno fatto il giro di tutte le province del nord, e ora stanno ritornando verso la capitale dove tra qualche giorno li aspetta il volo di ritorno. Resto molto sorpreso dal loro coraggio: finora infatti non avevo ancora visto, in nessuna città, né biciclette né motorini. A parte lo stato scadente in cui versano le strade, è lo stile di guida degli automobilisti ad impensierirmi. Infatti i guidatori armeni considerano i mezzi a due ruote come “inferiori”, e quindi non li rispettano minimamente. Un’auto non si sognerebbe mai di fermarsi per dare la precedenza ad una bici, indipendentemente dalla segnaletica: sarebbe un’umiliazione eccessiva anche per i tranquilli caucasici. Ripenso al traffico caotico di Erevan, dove le auto scartano continuamente a destra e sinistra senza guardarsi prima intorno; ai camioncini col carico che sporge pericolante dai cassoni e che ogni tanto si rovescia sugli incolpevoli passanti; alle strade di campagna, prive di guardrail e spesso usate dalle mucche come pascoli improvvisati. Ci vuole davvero un bel coraggio (e anche un po’ di incoscienza) a decidere di trascorrere una vacanza pedalando per questi luoghi!

Mentre Thomas, che parla bene il russo, sta contrattando con Gyulnara il prezzo dell’alloggio e cercando di capire se e quando ci sarà l’acqua per lavarsi, chiacchieriamo un po’ con Martin, che ci ha raggiunti sul terrazzo. Insegna matematica in un liceo alla periferia di Vienna, e sono curioso di sapere se anche lì si sia creata la stessa società multirazziale delle scuole italiane. Il ragazzo mi conferma che anche nelle sue classi, come in quelle di tutta l’Austria, ci sono studenti di pelle e religione diversa, ma che tutto sommato riescono a convivere pacificamente. In molti istituti i viennesi sono ormai una minoranza, e la presenza di ragazzi africani, asiatici, sudamericani e slavi è una realtà ormai consolidata, a cui tutti si sono abituati senza problemi. Mi riesce difficile pensare che una simile babele non crei alcun attrito, così cerco di approfondire la questione:

“Ma tu come fai a farti capire? Parlano tutti il tedesco?”

“Quasi tutti. Molti ragazzi vengono da famiglie di immigrati che vivono a Vienna da un paio di generazioni, e quindi hanno dovuto imparare il tedesco per forza, anche se tra di loro continuano a comunicare nella loro lingua. Gliela insegnano i genitori, e possono anche studiarla nelle loro scuole serali”.

Ho sempre apprezzato le comunità di immigrati che, pur vivendo in un paese straniero da diverse generazioni, e rispettandone le leggi, continuano a tramandare al loro interno la lingua, i costumi, le celebrazioni. Penso sempre agli italo-americani che ogni tanto si vedono in televisione, magari intervistati per qualche motivo nei telegiornali, che non capiscono una parola di italiano. Ritorno a chiedere a Martin:

“In aula non hai mai avuto problemi, casi di razzismo tra gli studenti?”

“No, le comunità sono amalgamate bene, almeno in periferia. Magari in centro, dove gli austriaci sono ancora la netta maggioranza, può succedere che gli stranieri siano visti male. Ma nell’hinterland le scuole sono tranquille.”

“Quindi riesci a gestire la classe da solo.”

“Certo che no - mi guarda un po’ sorpreso della domanda, come se gli avessi chiesto se in Austria sono già atterrati i marziani  - . In ogni aula ci sono sempre due insegnanti: uno principale, che insegna la propria materia, e uno di sostegno per aiutare gli studenti stranieri, favorire l’integrazione. Un maestro da solo non ce la farebbe”.

Mi rendo conto che in fondo il suo lavoro non è così facile come sembrava all’inizio. Mi domando se il suo stipendio sia all’altezza, e quando chiedo a Martin quanto guadagna, resto sconcertato. Sono sicuro che io, laureato in Ingegneria delle Telecomunicazioni ed ex capo-progettista presso una grande multinazionale del settore, non avrei raggiunto la sua paga nemmeno dopo molti anni e diversi scatti di stipendio. E lui è solo un insegnante di liceo! L’Europa sarà anche una Comunità, ma la qualità della vita è ancora molto diversa tra uno stato e l’altro.

 

Il vino di Bert è finito; fuori ormai è buio, e mentre raccolgo il bucato che ho steso ad asciugare mi accomiato dai miei amici, che domani proseguiranno verso ovest. Chissà, forse ci rivedremo ancora.

 

Ijevan, 17 agosto 2006 

Forse non tutti lo sanno, ma l’Armenia è un paese in guerra. Da oltre quindici anni combatte una “guerra non dichiarata” contro lo stato vicino dell’Azerbaijan, un conflitto che ha causato oltre centomila morti più una quantità incalcolabile di profughi, di senzatetto, di disperati. L’oggetto della contesa è un piccolo territorio chiamato Nagorno-Karabakh, nome che significa “giardino nero montagnoso”. Questo giardino è ancora oggi teatro di scontri tra due eserciti, ma soprattutto tra due ideologie, che non hanno proprio niente in comune.

In origine la zona era abitata dagli Azeri (così si chiamano gli abitanti dell’Azerbaijan), i quali la considerano la culla della propria cultura e civiltà. Nel XII e XIII secolo, però, il Caucaso fu occupato da molti popoli diversi: turchi, arabi, mongoli si contesero queste terre a furia di assedi, battaglie e distruzioni. Per scampare a queste continue invasioni, gli armeni fuggirono dalle pianure dove abitavano e si rifugiarono su questi altopiani poco popolati, diventando ben presto l’etnia principale. Poi venne l’Unione Sovietica, e Stalin, nel tentativo di amalgamare i vari popoli caucasici, assegnò il Nagorno-Karabahk, a stragrande maggioranza armena, all’Azerbaijan; quest’ultimo inviò subito migliaia di coloni ad occupare i territori riconquistati, dove gli armeni avevano costruito villaggi, chiese, monasteri.

La convivenza tra i due popoli non fu affatto semplice. L’Armenia va fiera di essere stata la prima nazione al mondo ad adottare il Cristianesimo come religione di stato: tale conversione risale, infatti al 301 d.C., dodici anni prima dell’editto di Milano con cui l’imperatore Costantino adottò la stessa religione nell’Impero Romano; tanto è vero che questo paese viene anche chiamato “la culla della cristianesimo”. Gli azeri, invece, sono musulmani sciiti, e, per quanto moderati, hanno sempre mal tollerato la convivenza forzata con gli scomodi vicini. La situazione rimase, per così dire, pacifica fino al crollo dell’Unione Sovietica; in seguito, venuta a mancare un’autorità superiore che tenesse la situazione sotto controllo, la regione è esplosa come una pentola a pressione lasciata sul fuoco troppo a lungo. La piccola repubblica del Nagorno-Karabakh si è subito dichiarata indipendente, cercando però l’amicizia dell’Armenia. L’esercito azero, appoggiato dalla Russia, intervenne subito a difesa della propria gente, bombardando senza tregua Stepanakert, la piccola capitale; il governo di Erevan rispose inviando il proprio esercito, e per cinque anni, dal 1989 al 1994, questa fu terra di nessuno: città e villaggi venivano ripetutamente bombardati, occupati e riconquistati ora da una fazione, ora dall’altra. Fu la ritirata dei russi a decidere le sorti del piccolo paese: la controffensiva armena costrinse gli azeri a fuggire, e anche la popolazione civile fu scacciata dalle proprie case e costretta a fare ritorno in Azerbaijan.

Oggi la situazione è più tranquilla, ma non ancora rappacificata: ogni tanto si registrano scontri armati nella striscia al confine e molte zone sono ancora off-limits per i civili. Politicamente il Nagorno-Karabakh si ritiene indipendente, anche se l’Armenia lo considera una parte di sé mentre sugli atlanti è ancora assegnato all’Azerbaijan. Erik e la moglie, i due olandesi che avevo conosciuto al ritorno da Goris, lo avevano visitato, dicendo che il paese (almeno nella parte orientale) era sicuro, anche se poverissimo. Io non avevo il necessario visto (quello armeno non è valido, e anzi bisogna procurarsene uno nuovo prima di rientrare in Armenia) e ho rinunciato; oltretutto l’Azerbaijan potrebbe essere una delle mie prossime mete, ma ne è vietato l’ingresso a chiunque abbia il visto del Nagorno-Karabakh sul passaporto. Ciò nonostante, ho potuto constatare gli effetti della guerra anche qui al nord.

Lo scontro militare, infatti, si è rapidamente esteso su tutto il lungo confine tra i due paesi, e se ne trovano ancora segni evidenti anche qui, nella montuosa regione settentrionale del Tavush. Thomas e Martin mi hanno raccontato di aver pedalato ieri lungo una strada che passa vicino al confine, una ventina di chilometri ad est di Ijevan, e di aver visto dovunque case distrutte e resti di villaggi in rovina. Così questa mattina ho chiesto alla padrona di casa, che ha molte conoscenze tra i tassisti del posto, se fosse stato possibile fare un giro in quelle zone. La signora, naturalmente, non ci ha messo molto a procurarmi una macchina, anche se ad un prezzo non proprio economico.

Lo scenario lungo il confine è davvero impressionante: ovunque si vedono case devastate, resti bruciati di steccati e di fienili, interi villaggi completamente abbandonati, scheletri di costruzioni: sono questi i monumenti che la guerra erige a sé stessa. Anche la strada è semidistrutta e Armen, il mio autista (sembra che in Armenia si chiamino tutti così), deve fare lo slalom tra le buche e le crepe nell’asfalto. Tre o quattro volte veniamo fermati dai militari, che ci chiedono i documenti e ci fanno un po’ di domande prima di ripartire. Li osservo bene: sono tutti ragazzi, alcuni appena maggiorenni, molto fieri della divisa che indossano; cercano di assumere un’espressione dura, ma negli occhi hanno quella luce stanca di chi ha dovuto crescere troppo in fretta.

Lungo la strada provo a scattare delle foto, ma Armen subito mi ferma con un deciso gesto del braccio: la mia macchina fotografica, da lontano, potrebbe essere scambiata per un’arma, e i cecchini potrebbero spararci. Perché qui, nel nord, la guerra non è ancora finita e si combatte sempre, metro dopo metro, albero dopo albero. Ufficialmente non è mai stato firmato nessun trattato di pace. La mia guida mi spiega che in Armenia il servizio militare è obbligatorio per tutti gli uomini e dura due anni. I soldati alternano quindici giorni di permanenza al fronte con altrettanti di licenza a casa.

“Ma non tutti tornano”, aggiunge tristemente l’uomo. Ogni giorno qualcuno viene ferito o ucciso. Dall’inizio della guerra si sono contati, solo dalla parte armena, trentamila morti, oltre ad un numero incalcolabile di profughi che hanno dovuto abbandonare tutto ciò che possedevano. Ma questi sono figli di una guerra minore, di quelle che non vanno in televisione, di cui non si parla sui giornali. Qui non ci sono inviati dei telegiornali che si collegano durante l’edizione serale per mostrare filmati sui combattimenti; non si vedono giornalisti col giubbotto fosforescente e la scritta PRESS che corrono ad inquadrare i feriti. Questa è una guerra poco importante, che non interessa a nessuno straniero, combattuta tra due stati tanto lontani, tanto sconosciuti da far sembrare tutto “ovattato”, insonorizzato, trascurabile. Ricordo che, pochi giorni prima di partire, avevo ascoltato da casa il notiziario di un canale satellitare azero, che aveva dato notizia di scontri al confine, in cui una ventina di soldati erano rimasti feriti. In Italia la notizia non era comparsa su nessun telegiornale, nemmeno sul televideo.

Chiedo ad Armen se sia pericoloso girare in macchina, ma lui scuote la testa. “Se ci fosse pericolo, i soldati non ci farebbero passare”, risponde con aria tranquilla. Anche quando non se ne vedono, so per certo che ci sono, nascosti da qualche parte, e che ci osservano con attenzione.

Mi piacerebbe scendere e girare tra le rovine, ma il mio tassista è irremovibile: “Nessuno cammina qui: tutta la zona è minata, soltanto la strada è sicura”.

Nonostante il lavoro di una compagnia britannica specializzata nella rimozione di mine antiuomo che, durante gli sporadici “cessate il fuoco”, porta avanti un lunghissimo lavoro di bonifica, avventurarsi per i villaggi è rigidamente vietato. Ancora adesso, ogni tanto, si sente in televisione di una mucca o di un contadino saltati in aria sopra una mina antiuomo. Sulla televisione armena, naturalmente.

 

 

Dilijan, 18 agosto 2006 

Nina mi chiama con un cenno, gridando “Mister! Mister!” mentre mi aggiro, incerto, per una polverosa strada di Dilijan, altra località del nord circondata da una verdeggiante foresta. Col mio zaino voluminoso e il mio sguardo incerto, la mia natura di viaggiatore è evidente a tutti; mi fermo allora davanti ad una casa col semplice cartello “B&B Nina”, dove la padrona di casa mi invita ad entrare e mi offre una stanza semplice ma pulita, come tutte quelle dove ho vissuto finora. Mentre Nina porta lenzuola pulite e comincia a rifare il letto, mi chiede di me e mi dà informazioni sui luoghi da visitare. Come molte altre città dell’Armenia, Dilijan non è interessante di per sé, ma rappresenta un ottimo punto di appoggio per visitare i vari laghi e monasteri situati un po’ dovunque, e molto diffusi qui nel nord. Nina parla, ovviamente, in russo, lingua che tutti usano con me subito dopo aver udito il mio “Zdrastvuitye!” (Buongiorno!), e alla quale ormai mi sto abituando. Come al solito non capisco quasi niente di ciò che mi dice, e mi limito ad assentire con la testa buttando qua e là un “Horosciò!” (Bene!), che fa sempre una buona impressione sui miei interlocutori. La casa di Nina è grande, ha un ampio cortile ed un piano rialzato con un bel soggiorno, cucina (che posso usare), un bel bagno grande (con l’acqua!), e una stanza da letto accogliente. Nei dintorni ci sono alcuni monasteri molto interessanti, ed anche un paio di laghi alpini che meritano una visita. Prima, però, decido di guardarmi un po’ intorno.

 

La stanza dev’essere appartenuta ad una ragazza: sulle pareti ci sono poster di Leonardo Di Caprio, segno inconfutabile che qui abbia vissuto un’ammiratrice. La parete di fronte al letto, invece, è tappezzata con foto di ragazzi e ragazze, tutti messi bene in posa per apparire il più possibile accattivanti. Le immagini sono prese da un programma televisivo russo, “Fabrika Zvezd”, la Fabbrica delle Stelle. E’ analogo al nostro “Amici di Maria”, dove giovani dotati di vari talenti cercando di farsi strada ballando o cantando. Tra le tante, mi colpiscono le foto di due ragazze: Aleksa, immortalata nel gesto di passarsi una mano tra i lunghi capelli castani; e Mascia Weber, una graziosa brunetta ritratta in una classica posa da copertina: in piedi, mani in tasca, sorriso rivolto all’obiettivo. Tutto intorno, altre foto di ragazzi e di gruppi musicali.

Non ho alcuna idea riguardo al successo che abbiano (o non abbiano) avuto questi giovani, ma tutto ciò mi fa riflettere su un particolare aspetto della globalizzazione: quello mediatico. Mi domando se, ai tempi dell’Unione Sovietica, nazione tanto isolata e chiusa a tutto ciò che provenisse dall’estero, fossero ammessi programmi come questo. La risposta che mi do è, ovviamente, negativa. Non ho avuto modo di conoscere personalmente quel paese di allora, perché fino a quando è esistito il turismo indipendente ne era bandito. Ma mi sono sempre immaginato una nazione in cui i giovani venivano spinti a eccellere nello sport, nella ginnastica, nella danza classica; e non solo per sviluppare un fisico allenato e prestante, ma soprattutto per mostrare al resto del mondo, durante le manifestazioni internazionali, la potenza e la superiorità del popolo sovietico e quindi dell’ideologia comunista.

Oggi, invece, la Russia non esporta più niente, non ha nulla da mostrare agli altri. Al contrario: anch’essa importa, copia, prende ad esempio ciò che viene realizzato negli altri paesi, specie quelli occidentali. Sono stato diverse volta a Mosca. Quiz, telefilm e programmi come “La Fabbrica delle Stelle” oggi riempiono i televisori delle case russe, laddove un tempo si potevano guardare solo documentari sulla storia del comunismo e telegiornali approvati dalla censura. A quei tempi era meglio o peggio? Non lo so, ma di sicuro era diverso: era un mondo con una mentalità alternativa alla nostra, buona o cattiva che fosse. Nel duemila, invece, tutto il mondo è uguale, e nei televisori di Mosca, Calcutta, Tokyo o Buenos Aires si vedono gli stessi programmi, gli stessi quiz, gli stessi attori. Ricorderò sempre quel giorno, in Cambogia, in cui alla televisione vidi un episodio di Alias appartenente ad una serie che in Italia dovevano ancora trasmettere. Come afferma il grande Tiziano Terzani, a cui cerco sempre di ispirarmi durante i miei viaggi, la “globalizzazione” è in realtà una “occidentalizzazione”, in cui tutti copiano l’Occidente, nelle cose buone come in quelle cattive, come se questa fosse l’unica via possibile per crescere, per porsi nei confronti del futuro.

D’altra parte si può obiettare come, vent’anni fa, Aleksa e Mascia Weber avrebbero trascorso la loro vita in qualche cotonificio, oppure montando bulloni in una fabbrica di Trabant, mentre oggi hanno l’opportunità di essere stelline della TV. Di più, hanno una possibilità ancora più grande: quella di diventare ciò che vogliono, di poter seguire liberamente le proprie aspirazioni, i propri sogni. Aleksa e Mascia diverranno belle, ricche e famose? O saranno soltanto meteore che transitano sullo schermo, destinate al dimenticatoio e al marciapiede di una strada? Dipende da loro: il destino è nelle loro mani, cosa assolutamente impensabile, prima, in un paese comunista, dove lo stato controllava ed indirizzava la vita di ogni singolo individuo secondo le esigenze del momento (coltivare cotone o costruire auto), dove (almeno in teoria) non esistevano né ricchi né poveri, perché c’era lo Stato pronto ad intervenire per evitare che ciò accadesse. E’ un bene? E’ un male? Non lo so; mentre ci penso, mi sintonizzo sul secondo canale russo e guardo “La Fabbrica delle Stelle”.

 

 

* * *

 

Nina mi procura un taxi per andare a visitare Haghartsin, uno dei più famosi monasteri armeni. Il suo nome significa “danza delle aquile”, e secondo la guida si trova in una splendida posizione, nascosto da una lussureggiante foresta. In Armenia non esiste montagna senza un monastero sulla vetta; dopo averne visti alcuni, devo ammettere che, per quanto belli, si assomigliano un po’ tutti: molto semplici e spogli, costruiti con mattoni resi scuri dal tempo e dall’umidità, attraggono molto più per la loro posizione che per gli edifici stessi.

L’autista, amico di Nina la quale lo chiama sempre quando ci sono turisti da scarrozzare in giro, sembra molto simpatico e cerca subito di fare amicizia. Si chiama Ararat.

“Come la montagna” dico io.

“Come il cognac” risponde lui, sorridendo. L’Armenia è molto famosa per questo liquore, prodotto nazionale esportato dovunque e delle cui bottiglie sono pieni tutti i negozi per turisti; anche se qui molti, erroneamente, lo chiamano brandy. La marca principale prende il nome dalla montagna che domina su tutta la regione; in realtà l’Ararat si trova in Turchia, ma dall’alto dei suoi 5.165 metri è visibile da molte zone dell’Armenia, tanto che la sua vetta perennemente innevata compare sulle etichette di tutti i prodotti locali.

Ararat (il tassista) parla senza freno, facendomi molte domande che io non capisco bene: vuole sapere del mio lavoro, di quanto si guadagna in Italia, e così via. Io cerco di capire e di farmi capire, anche se non amo molto parlare di me con gli sconosciuti. Lungo la strada vediamo due turisti occidentali che, zaino in spalla, camminano sotto il sole cocente, probabilmente diretti anch’essi ad Haghartsin. Ararat subito si ferma, invitandoli ad unirsi a noi. Così devo anche improvvisarmi traduttore tra l’estroverso autista e la simpatica coppia di belgi che declina l’invito, preferendo scarpinare sotto il sole per quindici chilometri. Ripartiamo, ma quasi subito Ararat si ferma di nuovo, chiedendosi se magari i due abbiano bisogno di una sistemazione; eventualmente li può portare al B&B Nina (i miei sospetti di connivenza si stanno rivelando fondati…). Sono più che sicuro che i due ragazzi siano già sistemati, ma i miei tentativi di convincere l’uomo sono inutili: prontamente inverte la marcia tornando alla ricerca della coppia. Quando li raggiungiamo, cerco più di scusarmi con loro per la rinnovata seccatura che di spiegargliene il motivo, ma loro molto gentilmente sorridono: evidentemente sono già avvezzi a questa procedura. In tutto il mio giro dell’Armenia Dilijan è stata l’unica città in cui ho trovato un minimo di “aggressività”, intesa ovviamente in senso buono, nei confronti dei turisti. In tutte le altre città nessuno si era mai fatto avanti a propormi alberghi, ristoranti, escursioni o altro; segno evidente di come questo paese sia (per fortuna!) ancora poco avvezzo al turismo di massa. Quando anche Erevan sarà diventata come Marrakech o Il Cairo, dove non puoi fare un passo senza essere tormentato da venditori poliglotti che quasi ti costringono a comprare collanine o fare foto sui cammelli (e non ho dubbi che prima o poi accadrà), allora avremo perso per sempre un altro piccolo pezzo di quel mondo semplice e genuino, ancora incontaminato, come oggi se ne trovano ben pochi.

Ad ogni buon conto, i due belgi mi confermano di avere già una sistemazione per le prossime due notti, così Ararat riparte a mani vuote, senza nascondere un po’ di delusione. Io, in fondo, lo capisco: in un paese dal passato difficile e dal futuro incerto, ognuno sopravvive come può. I turisti qui si vedono solo per tre mesi all’anno, e non arrivano certo a frotte: è normale che persone come Ararat e Nina facciano di tutto per accaparrarseli. Finché questo modo di fare resterà limitato a poche persone e a delle maniere cortesi, non farà male a nessuno e potrà rappresentare, forse, anche un modo per entrare in contatto con la vita locale di questa gente.

 

Immerso in un fitto bosco, il monastero è  bello anche se, come sospettavo, uguale a molti altri. E’ formato da due chiese molto ravvicinate, con cupole a pianta ottagonale dal tipico tetto rosso scuro, e una piccola cappella. L’interno è molto disadorno, con semplici ritratti di Gesù appesi vicino all’altare, e qualche candela accesa da pellegrini di passaggio. E’ molto più interessante camminare lungo un sentiero che, partendo dal monastero, risale una collina fino a raggiungere i resti di antiche costruzioni. Da lì si gode di una splendida vista sul piccolo complesso, con i tetti rossi che risaltano tra i fitti alberi. A differenza del sud, arido e desertico, queste regioni settentrionali sono molto verdi: le colline sono ricoperte di boschi a perdita d’occhio, e qua e là si intravede la strada che serpeggia attraverso i vari rilievi. Più oltre, in lontananza, la grande mole rocciosa delle montagne caucasiche si staglia contro il cielo azzurro, incorniciando il paesaggio con un effetto molto spettacolare. E non fa nemmeno troppo caldo, tanto che alla sera una maglietta con le maniche lunghe è d’obbligo.

Dopo aver scattato le foto di rito riparto con Ararat, salutando lungo la via del ritorno la coppia di belgi che ormai è quasi arrivata alla meta. Tutto sommato è stata una buona escursione, ma il meglio della giornata deve ancora arrivare. Ararat, infatti, mi dice di avere un figlia, Martina, che usa molto il computer; mi invita a passare la serata a casa sua: “così puoi insegnarle qualcosa”, mi incoraggia. Fissiamo un appuntamento per il dopo cena, quando il mio nuovo amico verrà a prendermi per portarmi da lui. Sono contento di poter vedere un’altra famiglia nella realtà quotidiana, così accetto volentieri.

 

* * *

 

Da Nina alloggia anche Hamir, un israeliano fidanzato ad una georgiana con cui ha trascorso due settimane nel suo paese. Ora sta girando da solo l’Armenia per una decina di giorni, deciso ad andare anche nel sud. Così gli do l’indirizzo di Pendjk, spiegandogli bene come arrivarci, come orientarsi a Goris e quali cambiamenti ho trovato rispetto alle cose scritte sulla LP. Quando si incontrano altri viaggiatori è sempre utile scambiarsi informazioni di viaggio: “Cosa hai visto?” “Era bello?” “Dove hai dormito?” “Quanto hai speso?” Sono tutte domande che ci si fa sempre a vicenda, in modo da poter imparare ognuno qualcosa di prezioso dalle esperienze dell’altro. In questi posti sperduti, l’unica fonte sicura di informazioni è costituita da persone che sono già state nei posti dove devi andare, e che ti possono dare pratiche “dritte” preziosissime, aggiornate e sicuramente imparziali.

Nina mi ha preparato una cena fin troppo abbondante, così invito il ragazzo a condividerla con me per chiacchierare un po’. Vorrei chiedergli della guerra che è da poco scoppiata nel suo paese, ma preferisco evitare argomenti scottanti, che potrebbero metterlo in imbarazzo. Così gli chiedo informazioni sulla Georgia, ed in particolare su Tbilisi. A differenza degli altri viaggiatori, Hamir è incoraggiante: la città gli è sembrata tranquilla e sicura, e non ha avuto problemi di nessun tipo.

“Tu, però, l’hai girata con la tua ragazza; – lo incalzo – magari lei sapeva dove portarti e dove non andare”.

“No, abbiamo girato tutta la città, e anche il paese, e non ho mai avuto problemi. Tbilisi è una bella città, non c’è nessun pericolo”. Un po’ rinfrancato da queste notizie, gli chiedo informazioni su altre città della Georgia, in particolare Kazbegi e Batumi, dove lui è già stato ed io intendo recarmi. Alla fine il buio cala sulla villa, e terminiamo la cena con della frutta fresca che abbiamo comprato insieme nel piccolo mercatino vicino al centro.

 

* * *

 

La casa di Ararat è piccola ma dignitosa: alcune porte si affacciano sul corridoio che percorriamo fino al piccolo soggiorno, dove l’uomo mi fa accomodare su un comodo divanetto. Nella stanza ci sono alcuni mobili con libri e oggetti vari: piatti, fotografie dei familiari, soprammobili. Un piccolo televisore trasmette una puntata de La Piovra in russo, mentre in fondo alla stanza vedo anche un pianoforte.

Ararat mi presenta la moglie, Julia, una graziosa signora sulla quarantina con capelli rossicci portati corti, un fisico minuto e un timido sorriso impacciato. La donna mi stringe la mano quasi con timore, forse non è abituata ad avere sconosciuti in casa; il marito, invece, prende subito in pugno la situazione, mandandola a preparare il tè mentre mi offre della frutta: alcune fette di anguria, del melone e qualche grappolo d’uva, che però lui non può mangiare poiché mi dice di essere diabetico. Della presunta figlia nessuna traccia.

Ararat mi fa parlare un po’ di me, spiegando alla moglie che insegno informatica ed inglese; mi chiede dove sono stato, cosa ho visto, dove andrò in seguito, e così via. Parla un russo molto veloce e colloquiale, tanto che spesso devo ricorrere al dizionario (che ho avuto l’accortezza di portarmi dietro) per capire cosa mi sta dicendo. A poco a poco l’oggetto delle sue domande si sposta in modo sospetto sulla mia vita: si informa sul mio lavoro, su quanto guadagno, su come si vive in Italia. Non mi piace parlare di me con gli sconosciuti, quindi resto molto sul vago evitando di rispondere direttamente alle domande. Fingo anche di non capire, cercando sul dizionario parole che già conosco per prendere tempo e pensare ad una risposta adatta. Mi dice che gli piacerebbe molto venire a vivere in Italia, che alcuni suoi amici lo hanno fatto e lui vorrebbe raggiungerli. Mi domanda quanto guadagna un tassista da noi.

“Tre, quattrocento euro al mese” rispondo io, stando molto basso per cercare di scoraggiarlo. Ma a lui anche una cifra simile deve sembrare altissima.

“Ma anche la vita costa molto”, aggiungo io. “E ci sono molte tasse da pagare”. Su questo non ho certo bisogno di mentire. L’uomo, pensieroso, continua ad assentire con decisi cenni del capo, mentre la moglie lo guarda con un’aria un po’ preoccupata.

“Come si fa per venire in Italia?” mi chiede infine. “Potrei abitare con i miei amici?”

Sento che stiamo venendo al nocciolo della questione. “Non lo so, è difficile. Ci vogliono molti documenti”. Cerco ancora di scoraggiarlo, ma Ararat sembra molto deciso.

“Ci sono tanti armeni in Italia, a Milano, e a Venezia. Potrei vivere con loro, lavorare lì.”

“Non lo so, io non ne conosco nessuno”.

“Mi serve una lettera d’invito”. Ecco la parola magica: priglaschenye, lettera d’invito. Una lettera che serve agli stranieri per ottenere il permesso di soggiorno. Dev’essere scritta da un italiano, che invita la persona a venire in Italia per un certo periodo di tempo, in modo che questa possa trovarsi un lavoro stabile e prolungare poi la permanenza. A questo punto la prossima domanda di Ararat è scontata:

“Puoi scrivere una lettera per me?”

Adesso mi è chiaro il motivo dell’invito e tutto il resto. Altro che figlia da farmi conoscere! Mi dispiace per lui, ma non ho intenzione di scrivere nessuna lettera. Ararat mi sembra una persona onesta, ma non voglio essere coinvolto in questioni legali che possono solo ripercuotersi a mio sfavore. Se io lo invito, e poi lui viene in Italia e commette qualche reato, chi ne sarà responsabile? Come posso fornire delle garanzie per una persona che conosco appena? Cerco di tirarmi indietro, con più tatto possibile.

“No, io non so come si scrive un priglaschenye. Non ho idea di come sia fatto”.

Lui insiste: “All’ambasciata ci sono i moduli. Ne chiedo uno, puoi compilarlo per me”.

“No”, ribadisco fermo. “Non posso farlo, non so come si fa”.

“Va bene”. Ararat capisce che da me non otterrà niente, così tenta un’altra carta.

“Mia figlia usa il computer. Tu puoi scrivere qualcosa con lei”.

“Scrivere cosa?” Comincio a sentirmi a disagio, spero che la cosa finisca presto.

“Le persone vengono qui. Tu scrivi su Internet, loro vengono”.

Non capisco bene cosa Ararat intenda dire, ma noto che mentre parla, sta cominciando a sudare. Sempre più spesso toglie un fazzoletto dalla tasca e se lo passa sulla fronte.

“Quando torni a casa, tu scrivi su Internet: le persone dormono qui.”

“Dove?”

“Di sotto c’è una grande stanza, loro dormono lì. Julia fa da mangiare”. Indica la donna, che assente decisa.

Credo di capire: Ararat mi sta chiedendo di creare un sito, o qualcosa del genere, dove scrivo informazioni su casa sua per informare i viaggiatori che possono dormire lì. Questo posso farlo: se non creare un sito, almeno scrivere su qualche bacheca che conosco.

“Quando torni a casa?” mi chiede l’uomo.

“Tra un mese”

“Tra un mese?”

“Sì. Dopo l’Armenia, vado in Georgia e poi in Turchia”.

“Tra un mese”, ripete Ararat tra sé e sé. Sembra perplesso; riprende ad asciugarsi la fronte, poi dice qualcosa alla moglie, che si alza ed esce dalla stanza. Dopo un paio di minuti torna con uno sfigmomanometro che subito stringe intorno al braccio del marito.

“E’ per la pressione”, mi dice. “Il caldo, mi fa male”, cerca di giustificarsi mentre lo vedo sempre più affaticato. La donna gli misura la pressione, poi lo tranquillizza. Ararat riprende un po’ di colore, poi mi chiede:

“Puoi scrivere su Internet? Mia figlia ti darà il suo indirizzo, tu le puoi scrivere.”

La figura della figlia non mi è ancora chiara. In ogni modo, anche volendo aiutarlo mi servono un po’ di informazioni.

“Quante persone puoi ospitare?”

Ararat si consulta con la moglie. “Dieci”.

Mi sembrano un po’ tante per una stanza sola, comunque proseguo.

“Quanto costerà?”

“Quindicimila dram”.

Sono trenta euro, decisamente troppi per condividere una stanza. Ma non voglio contraddire l’uomo per non farlo stancare oltre, così dico che si può fare.

“Sì, quando torno a casa posso scrivere. Dammi il tuo indirizzo preciso”.

Ararat chiede alla moglie di portargli carta e penna, poi mi detta il suo indirizzo di casa. Prendo nota. L’uomo sembra molto sollevato.

“Grazie, grazie mille. Tu hai un indirizzo su Internet?”

Penso che si riferisca alla posta elettronica. “Sì”.

“Scrivi qui, per favore”. Mi porge un pezzo di carta ed una biro. “Io lo do a mia figlia, poi lei ti scrive. Lei parla inglese. Quando ti può scrivere?”.

“A metà settembre”, rispondo mentre scarabocchio la mia e-mail su un foglietto spiegazzato.

 

Sono quasi le undici quando Ararat chiede alla moglie di misurargli ancora la pressione, poi si alza. “Bene, è ora di andare”, annuncia, con sollievo mio e un po’ di tutti.

Saluto la gentile moglie e scendo con lui in cortile, dove chiama la figlia, che era rimasta di sotto con gli amici. Allora esiste davvero! Arriva una ragazza molto carina, sui vent’anni, fisico slanciato, profondi occhi scuri e lunghi capelli che le nascondono parzialmente il viso. Il padre le chiede di scrivere la propria e-mail; lei corre in casa, e dopo qualche minuto torna con un bigliettino che mi porge sorridendo. La saluto velocemente, poi salgo sulla macchina di Ararat che mi deve riportare da Nina. L’uomo mette in moto, poi di nuovo prende il fazzoletto e si asciuga la fronte.

“Fa molto caldo”, si giustifica. Per un attimo penso: se questo si sente male durante il percorso, io che faccio? Per fortuna tutto finisce bene. Quando arriviamo a destinazione, Ararat mi chiede dove andrò domani.

“A Vanadzor”, dico io.

“Se vuoi, ti posso portare con la mia macchina”.

Non ci penso nemmeno! “No, grazie, vado con l’autobus”, rispondo gentilmente.

Prima di salutarmi, l’uomo è così gentile da indicarmi il punto da cui parte il pullman, piuttosto spostato dal piazzale della stazione. Poi parcheggia l’auto nel cortile di Nina che ci viene subito incontro, quasi sollevata di vedermi tornare sano e salvo. Mentre Ararat si siede al tavolo con lei a bere un tè, io mi congedo da entrambi. Tutto sommato è stata una buona esperienza, che mi ha permesso di conoscere un altro pezzo di questo paese e di questa gente venendone fuori senza danni; sono molto contento di come si sta mettendo il mio viaggio.

Ma domani si riparte.

 

Vanadzor, 19 agosto 2006 

La maggior parte dei cognomi armeni finisce in –yan, che equivale al nostro “di”, o “de”, in modo del tutto simile al tedesco von o all’irlandese o’ , prefissi che indicano quasi sempre l’origine di una persona. In Italia questo modo di creare cognomi nacque verso la fine ‘800, quando, in seguito all’unità d’Italia, tutti i cittadini vennero chiamati all’anagrafe per registrarsi. Moltissimi, però, non avevano un vero cognome (o non sapevano di averlo): si trattava per lo più di contadini, pastori, mercanti che non erano mai andati a scuola, magari avevano trascorso tutta la vita in una valle isolata sulle montagne, senza conoscere nessun altro mondo al di fuori del loro paesino. Al nord come al sud, questi uomini, analfabeti, che spesso non capivano nemmeno l’italiano, quando si presentavano all’ufficio comunale per registrarsi si guardavano intorno spauriti, senza sapere cosa rispondere alle domande dell’addetto al censimento. Questi, che pure doveva scrivere qualcosa alla voce “cognome”, chiedeva loro:

“Come ti chiami?”

“Giuseppe”

“Di chi sei figlio?”

“Di Pietro”

E così il timido pastorello da un giorno all’altro si chiamava Giuseppe di Pietro. Oppure veniva indicata la professione:

“Di chi sei figlio?”

“Del pescatore”

E allora il ragazzino coi vestiti lisi, indossati e rigirati mille volte, diventava “Antonio del Pescatore”. Ancora, in caso il padre fosse ignoto, si usava il nome della madre: “Lucio della Giovanna”, e simili.

Un discorso molto simile si applica ai cognomi armeni: Davidyan significa “figlio di David”; Najaryan “figlio del carpentiere”, Melikyan “figlio del re”. Oppure può essere indicata la città d’origine: Vanetsyan vuol dire “proveniente da Van”, e così via. Nell’armeno occidentale poi, caratterizzato da suoni più morbidi, -yan diventa -ian (la differenza nella pronuncia è incomprensibile per noi), ma il significato rimane inalterato.

Non fa eccezione la mia padrona di casa, Natasha Grigoryan: un suo antenato, evidentemente, era “figlio di Grigor”. La casa di Natasha è molto bella, nonostante dall’esterno sembri solo un casermone di cemento e l’entrata dia direttamente nel garage. Da qui si attraversa un cortile che dà su un giardino interno, dove una grande tenda ripara dal sole alcuni tavoli preparati, sembra, per un imminente banchetto. Poi si arriva in un atrio su cui si affacciano la cucina, piccola ma completa di tutto, ed un ampio salone, arredato con gusto, che non manca di nulla: televisore, telefono cordless, libreria. Superata un’elegante scala a chiocciola, tutta in legno, che porta al piano superiore, ecco la porta della mia stanza. Anche questa è molto grande: c’è un letto, un grande divano con un tavolino, un paio di librerie, e perfino un televisore in bianco e nero che riceve un paio di canali locali.

La figlia di Natasha, Kristine, con cui ho parlato al telefono per stabilire il prezzo del soggiorno, parla benissimo l’inglese, così mi sono sistemato per altri due giorni. Vanadzor, capoluogo della montagnosa regione di Lori, è un’ottima base per visitare i dintorni, ed essendo vicina al confine georgiano, sarà (spero) la mia ultima tappa in Armenia.

 

Sono arrivato qui con l’unico autobus giornaliero da Dilijan, che ho preso per miracolo dopo aver lottato nella calca per una mezz’ora buona alla biglietteria della stazione, scoprendo alla fine che l’autobus per Vanadzor partiva da un’altra parte e che i biglietti si compravano direttamente in vettura. Questo non è un mashrutka, ma un vero pullman di linea (si fa per dire); la folla, però, è sempre formata dal solito colorato, caotico, assurdo campionario di persone che si possono osservare soltanto su un mezzo di trasporto pubblico. Un anziano signore siede accanto alla grassissima moglie, che occupa da sola due posti; una famiglia, padre, madre e figlio piccolo vorrebbero sedersi vicini, ma non ci sono posti liberi a sufficienza, così il papà tiene il figlio in braccio, mentre in fondo all’autobus la mamma custodisce i bagagli. Sono soprattutto persone anziane ad usare il pullman, tutte col viso affaticato ma molto orgoglioso; indossano vestiti semplici, cercando però di darsi un tono con uno scialle o un fazzoletto colorato. Accigliate comari, perse nei loro chiacchiericci, indossano ampie gonne con motivi a fiori sopra lunghi calzettoni scuri, mentre con le braccia stringono al petto sporte lacere colme di verdure o di altre cibarie, i cui odori si spargono presto per tutto il veicolo. Tutti indistintamente sono stracarichi di bagagli: nei volti dalla pelle bruciata dal sole gli occhi si muovono continuamente in tutte le direzioni, controllando che gli enormi borsoni riempiti di chissà quale mercanzia non si rovescino sul pavimento in seguito ai mille scossoni cui sono soggetti.

Il pullman è partito quasi vuoto ma, durante il tragitto, come è consuetudine in molti paesi, si ferma continuamente per far salire persone che a fatica si tirano dietro borse, valigie, sacchi di vettovaglie forse destinati ai mercati dei villaggi regionali. E ad un certo punto, quando sembra impossibile che sul mezzo strapieno possa starci ancora qualcuno, ecco l’ennesima fermata: sale un vecchietto, vestito di tutto punto, che si fa largo sul predellino (l’unico posto rimasto libero), cercando poi di issare accanto a sé un enorme macchinario metallico, dall’aspetto alquanto misterioso (assomiglia un po’ alla batteria di un autotreno). Alcuni uomini, scavalcando gambe e borse, scendono dal mezzo per aiutare il vecchio a sollevare la pesantissima attrezzatura, che viene appoggiata in qualche modo sui gradini. Essendo seduto lì accanto, vorrei alzarmi per cedere il mio posto all’uomo, ma è davvero impossibile muoversi nella calca, così rimango sul mio sedile ad osservare per un po’ la folla pigiata, quindi mi dedico al panorama esterno.

E’ davvero rilassante: mentre l’autobus, stracarico, arranca in salita, intorno a me vedo soltanto boschi che si estendono a perdita d’occhio sulle montagne circostanti. Di quando in quando, un villaggio di poche case fa capolino nel verde, ma dopo pochi minuti scompare all’orizzonte lasciando nuovamente la scena alla natura, che in questa parte del mondo la fa da assoluta padrona. Più a sud, le imponenti vette dei monti Maymekh e Tekhenik, entrambe al di sopra dei 3000 metri, segnano il confine fisico della regione, che gode di un clima molto più fresco e ventilato rispetto ai caldi altopiani centrali.

Su uno dei pendii paralleli alla strada corre la ferrovia, costruita dai sovietici per collegare Erevan a Baku e chiusa in seguito alla guerra. I binari e i cavi dell’elettricità sono ancora integri, e infatti il governo sta pensando di riaprila, ovviamente solo nel tratto armeno, fino a Ijevan. Per il momento, però, il trasporto su gomma rimane l’unico possibile, anche se in queste zone poco abitate il traffico non rappresenta certo un problema. Addirittura, incontriamo un gruppo di mucche che camminano beatamente in mezzo alla strada, e il conducente deve fare rapide e precise manovre per non investirle, mentre passeggeri e borsoni vengono sballottati a destra e sinistra.

 

* * *

 

Trovare un ristorante a Vanadzor non è semplice; ci sono tantissimi negozi, piccoli supermercati, chioschi e bar dover acquistare del cibo, ma sembra che non ci sia alcun luogo per mangiare fuori. Il ristorante indicato sulla LP non esiste più, come altri suoi simili che, insieme a stazioni, uffici postali, Internet point, compaiono, scompaiono, si spostano vorticosamente senza lasciare scampo alle guide che inutilmente cercano di aggiornarsi: le informazioni riportate, per quanto recenti grazie ai continui feedback dei viaggiatori, dopo pochi mesi diventano già vecchie. Mentre mi aggiro per le vie del centro noto un gran trambusto. Vedo alcuni poliziotti deviare il traffico ai lati della strada principale, che è stata chiusa alle auto ed è affollatissima di persone che la percorrono a piedi, dirette verso la piazza principale. Dapprima penso ad una manifestazione, un corteo; mi unisco alla folla, e scopro invece un grande palco sul quale si sta per esibire una famosa cantante rock armena. La folla diventa sempre più numerosa, e mi sorprendo nel vedere così tante persone, quasi tutte giovanissime, in una città che invece fino a poche ore prima mi sembrava quasi deserta. Scopro una piccola pizzeria dove decido di fare uno spuntino veloce, in attesa dello spettacolo. Ordino e mi siedo ad un tavolino, ma mentre aspetto noto che la clientela aumenta continuamente, fino a quando tutte le sedie vengono occupate e si crea persino una ressa di persone in piedi, sempre più accalcate ad aspettare che si liberi un posto. Io, che per una volta mangio da solo (è la seconda volta che mi succede da quando sono partito), mi sento quasi in imbarazzo ad occupare un intero tavolo. Per fortuna, però, vedo due ragazzi alzarsi dai loro posti e sedersi accanto a me, per bere una birra in compagnia. A causa della mia “deformazione da occidentale” sono subito allarmato dal pensiero che stiano cercando di farsi offrire da bere, ma presto mi accorgo che non è così: queste gente genuina è semplicemente curiosa di conoscere i pochi stranieri che arrivano da queste parti.

Marcus parla bene l’inglese, a differenza del suo amico Artur che invece si limita per lo più a sorridere ed annuire. E’ ben vestito, porta i capelli biondi tagliati corti ed ha due occhi molto sinceri. Quando scopre che sono italiano, subito il suo volto si illumina: dice di amare l’Italia, anche se non c’è mai stato, ma di sapere tutto su di essa al punto di prendere lezioni private della nostra lingua. Gli mostro la mia guida, che lui cerca di leggere con un discreto successo, poi gli chiedo di lui. E’ un ingegnere e lavora nell’impresa edile di suo padre. Gli chiedo se sia facile trovare lavoro da queste parti.

“Non ci lamentiamo, anche se le cose potrebbero andare meglio. Negli ultimi anni, i ragazzi hanno potuto riprendere a studiare, così per loro diventa più facile trovare loro. Anche se non siamo ricchi come voi italiani”, ma lo dice sorridendo, quasi scherzando. E’ molto curioso dell’Italia: vuole sapere dove abito, qual è il mio lavoro, e non evita di affrontare l’argomento più popolare all’estero:

“Per quale squadra di calcio fai il tifo?”

“Atalanta.”

“Sì, la conosco. Giocherà in serie A l’anno prossimo!”

“Sei molto informato.”

“Sì, e la Juventus sarà in serie B”. Questa è una cosa che ormai sa tutto il mondo; sono sicuro che se mi trovassi presso una tribù indigena della Papuasia, che non conosce il telefono, l’energia elettrica e l’acqua corrente, la conversazione finirebbe sempre e comunque sulla Juventus e sul calcio italiano.

Marcus mi chiede se sono fidanzato. Quando gli dico di no, stranamente non mi chiede il perchè, come di solito fanno gli uomini adulti, sempre sorpresi dall’incontro con un single.

“E tu lo sei?” gli domando a mia volta.

“No”, risponde, gonfiando leggermente il petto in un gesto che potrebbe sembrare di vanto. Ma nei suoi occhi vedo una luce di malinconia. Voglio capire.

“Perché no? Con tutte le belle ragazze che ci sono!” Indico la folla di ragazzine che stipano il locale, molte vestite con magliette scollate e minigonne.

“Io sto bene da solo, non voglio una moglie. Anche se da noi è un problema, alla mia età”.

Questa non l’avevo ancora sentita. “Cosa intendi dire?”

“Io ho trent’anni, e sono considerato vecchio. Qui in Armenia, è d’abitudine che gli uomini si sposino al massimo a 27 anni.”

“E le ragazze?”

“Oh, loro si sposano molto più giovani, a venti, ventidue anni”.

Marcus mi spiega che per le donne è ancora molto importante arrivare vergini al matrimonio. Danno molto valore alla verginità, e nella società armena è raro (e difficile) per gli uomini essere dei “farfalloni”. Il sesso è un tabù di cui si parla poco e che si pratica ancora meno, prima delle nozze.

 

Quando i due ragazzi fanno per congedarsi, chiedo loro il motivo di tanta ressa.

“Sta piovendo”, mi rispondono.

Resto un attimo sorpreso. E’ la prima volta che piove da quando sono in Armenia, e sembra che questo abbia preso alla sprovvista anche i locali: in effetti osservo che tutti i ragazzi sono vestiti molto leggeri, senza niente per ripararsi dalla pioggia, e intuisco che si sono rifugiati al coperto non per mangiare, ma in attesa che smetta.

Quando esco dal locale sta letteralmente diluviando; cammino in fretta fino alla piazza, facendomi largo tra la folla zuppa e pressata contro le pareti delle case, o sotto le tettoie dei negozi. Gli eleganti porticati intorno alla grande rotonda sono gremiti di ragazzi e ragazze che si riparano dall’acqua, in attesa di sviluppi. Di nuovo, sono sorpreso dalla quantità di gente che mi circonda: sembra quasi che tutti gli adolescenti armeni si siano dati appuntamento qui come per un raduno epocale. Mi fermo anch’io sotto un portico, ad aspettare che la pioggia smetta o quanto meno si riduca; voglio vedere se il concerto riprenderà, e poi la casa di Natasha è lontana dal centro e non mi va di farmela a piedi sotto l’acqua. Dopo un altro quarto d’ora di diluvio, avendo delle cartoline da spedire, raggiungo l’ufficio postale il cui atrio è stato aperto per accogliere un’altra massa di ragazzi fradici che si strizzano letteralmente i vestiti di dosso. Imbuco le cartoline, quindi resto a guardarmi intorno. La pioggia non smette, anzi se possibile aumenta ancora di intensità; quando è chiaro che il concerto è stato annullato, i poliziotti riaprono la strada al traffico, ma le poche auto avanzano a fatica sotto il diluvio mentre l’asfalto si è ormai ridotto ad un’unica, immensa pozzanghera. Di quando in quando compare qualche taxi che subito viene preso d’assalto da uno sciame di ragazzine in minigonna alla ricerca di un mezzo per ritornare a casa. Alla fine anch’io devo rassegnarmi e, stretto nella mia giacca a vento, cammino lentamente per la lunga strada periferica, non illuminata e piena di buche, che porta verso il mio alloggio. E mentre inciampo nei marciapiedi, finisco nelle pozzanghere fino al ginocchio e sento in lontananza un sinistro latrato di cani, per scacciare il disappunto comincio a cantare a squarciagola la mia canzone preferita. Ed è sulle note di Io, vagabondo che mi convinco sempre di più di come l’avventura, il disagio, gli incontri, le esperienze da vivere e da raccontare mi facciano sentire vivo, felice, arricchito. Questa è la mia strada.

 

 

 

Vanadzor, 20 agosto 2006 

Oggi è il mio ultimo giorno in Armenia, o almeno così spero. Comincio ad essere stanco di questo paese che, pur semplice e genuino, ha ben poco da offrire al viaggiatore. E’ ora di cambiare aria, di andare in Georgia, ma prima ho ancora qualcosa da fare. Il mio programma di oggi prevede di prendere il treno fino ad Alaverdi, una piccola località di montagna, visitare i vicini monasteri di Sanahin e Haghpat, quindi ritornare col treno della sera. Poi, avrò due possibilità: partire per  Tbilisi già questa sera, col treno notturno che arriva da Erevan, oppure battermi per trovare un posto sul mashrutka di domani mattina. Deciderò col tempo.

Il treno per Alaverdi è formato da due sole carrozze, che vengono subito prese d’assalto da centinaia di viaggiatori ognuno col proprio seguito di bambini schiamazzanti, bagagli ingombranti, perfino qualche animale. D’altronde questo è l’unico treno che, ogni giorno, attraversa le montagne fino al confine con la Georgia per poi fare ritorno alla sera; essendo poi domenica, è naturale che molta gente abbia deciso di fare una gita fuori porta.

Definire il treno “scassato” significa fargli un complimento. Le porte non si chiudono, e rimarranno aperte per tutto il viaggio; molti sedili sono rotti, hanno l’imbottitura strappata o mancano del tutto; i serramenti sono arrugginiti da far paura, tanto che io cerco in tutti i modi di non toccarli, per paura di prendermi qualche strana malattia; i finestrini, dove esistono ancora, sono talmente lerci da impedire di guardare il panorama, che invece dovrebbe essere magnifico poiché il treno attraversa la profonda gola del fiume Debed, in uno degli scenari naturali più belli dell’Armenia; riguardo al gabinetto, infine, è meglio non esprimersi. In Italia molta gente si rifiuterebbe di salire su un mezzo simile, ma qui la gente non si formalizza più di tanto: in fondo, è già bello che un treno ci sia.

Faccio il viaggio insieme a Karl, un olandese di 36 anni che avevo visto di sfuggita già a casa di Natasha. Lui va fino ad Ayrum, il capolinea della corsa, da dove spera di prendere un autobus (o qualsiasi altro mezzo) fino a Tbilisi. Nella vita fa il giornalista free-lance per alcune riviste di elettronica, e, ogni volta che può, parte ad esplorare il mondo. Per dirla con parole sue: “When I have money, I go” (mi ricorda qualcuno che conosco…). Chiacchierando, mi rendo conto di avere di fronte un vero viaggiatore: Karl ha solo tre anni più di me ma ha già visitato ottanta paesi. Come ogni vero esploratore, cerca sempre si spostarsi via terra, o via mare, evitando il più possibile di prendere l’aereo, questa specie di macchina dello spazio-tempo che ti trasporta da un punto A ad un punto B privandoti del fascino di raggiungere la tua meta un po’ alla volta, di godere della soddisfazione per aver conquistato il sudato traguardo. Karl mi racconta che una volta ha fatto un viaggio via terra di due mesi dall’Olanda attraverso l’Europa orientale e tutta la Turchia fino in Siria, Giordania, Egitto, Israele, per concludere poi la sua avventura su mare con destinazione la parte turca di Cipro, dove è stato arrestato per essere entrato nel paese illegalmente. In un’altra avventura, ancora più incredibile, è arrivato, sempre via terra, fino in Indonesia, attraversando tutta l’Asia per quattro mesi su pullman, treni, battelli, mezzi di fortuna, e qualunque altro mezzo gli permettesse di muoversi tra la gente osservando man mano l’alternarsi dei paesaggi, dei volti, degli abiti, delle pietanze. Gli chiedo se abbia mai scritto articoli o libri sui suoi viaggi ma lui scuote la testa, sorridendo:

“Devo già scrivere quando lavoro; – mi dice – quando viaggio, non ci voglio pensare”. E’ giusto così, penso io: unicuique suum.

Ne approfitto anche per chiedergli di Tbilisi, dove lui è già stato; non mi stancherò mai di informarmi su quel luogo tanto affascinante quanto ambiguo. Karl mi rassicura: secondo lui è una città tranquilla e non pericolosa, anzi anche un po’ noiosa. Bene, un altro punto a favore degli “ottimisti”.  Tra l’altro Karl mi informa che in Georgia c’è un’ora in meno, perché di recente hanno abolito l’ora legale; queste informazioni pratiche (spesso non riportate sulle guide), sono davvero preziose per i viaggiatori indipendenti come noi, la cui sorte può spesso dipendere da dettagli all’apparenza insignificanti.

Mentre parliamo, alcuni ragazzi si avvicinano a noi per fare amicizia. Sono curiosissimi, vogliono sapere tutto: da dove veniamo, dove siamo diretti, perché siamo venuti in Armenia, e così via. Questo aspetto è senza dubbio quello che mi ha colpito più piacevolmente di questa nazione: la curiosità della gente nei confronti degli stranieri. Non una curiosità morbosa, finalizzata alla richiesta di soldi; bensì un interesse genuino, spontaneo verso chi viene da fuori, da un mondo lontano e sconosciuto che probabilmente questi ragazzi non visiteranno mai. Il nostro semplice dialogo è tutto un susseguirsi di domande, di espressioni stupite, di sorrisi che ognuno qui elargisce in abbondanza ai forestieri, e rappresenta di certo il bagaglio più importante che riporterò con me nel ritorno verso casa.

 

Quando il treno arriva ad Alaverdi saluto Karl e mi preparo ad accogliere ciò che la giornata avrà da offrirmi. Nel piazzale di fronte alla stazione vedo i soliti giovanotti oziosi seduti a chiacchierare e a guardarmi incuriositi, ma ormai non ci faccio più caso, e comincio a guardarmi intorno. Il paesaggio è stupendo: mi trovo nella stretta valle del fiume Debed, che scorre placido di fronte a me, sormontato da un piccolo e traballante ponte pedonale. Tutto intorno, sui due lati del fiume, si elevano alte montagne granitiche, dipinte di colori verdi e marroni dalle mille sfumature. Purtroppo lo scenario è rovinato da un’altissima ciminiera che si staglia netta tra il paese e le montagne, dalla quale una colonna di fumo si alza fino ad oscurare la vetta. Questo paradiso naturale è stato massacrato in un modo che non avevo ancora visto, almeno in Asia: di fianco alla stazione la mole enorme di una fabbrica abbandonata si estende a perdita d’occhio lungo la strada che porta in centro. L’enorme scheletro di acciaio arrugginito, le sue finestre infrante, i suoi portoni corrosi e divelti sono un perfetto simbolo della rovina che l’uomo può recare alla natura, e quindi anche a se stesso. Tutte queste strutture (compresa la stazione) furono costruite quando i sovietici aprirono delle miniere di rame nella zona; e, per poter accogliere tutti i minatori improvvisati che conversero qui in cerca di lavoro, edificarono anche un intero villaggio sull’altro lato della valle. Dopo qualche anno, però, le miniere si esaurirono e furono chiuse e, a parte il piccolo stabilimento collegato alla ciminiera, tutto è stato abbandonato senza riguardo. La stradina che dalla stazione conduce in paese scorre di fronte alle rovine, consentendo al passante di “ammirarle” in tutto il loro degrado. Gli armeni sono da sempre allevatori, frutticoltori, piccoli artigiani. A cosa mai è potuto servire un simile complesso industriale? A creare, sul momento, l’illusione di un lavoro sicuro e di stabilità economica e persone che l’avevano già (anche se sotto altre forme), per poi abbandonarle a loro stesse e alla loro disoccupazione quando gli impianti hanno chiuso? E l’aria che adesso respirano? E le falde acquifere inquinate? Coloro che hanno creato questo degrado avrebbero quanto meno dovuto “rimettere a posto” prima di andarsene, o mi sbaglio?

 

Per raggiungere il villaggio di Sanahin, abbarbicato su di un plateau sull’altro versante della valle, bisogna prendere una piccola funivia che da Alaverdi porta alle montagne di fronte. La prospettiva non mi attira molto: prima di tutto perché soffro di vertigini, secondo perché la manutenzione della cabina ha poco da invidiare a quella del treno. Però, come amo sempre ripetere, non penso che il manovratore ci tenga a schiantarsi al suolo, quindi se sale lui, posso farlo anch’io; in fondo il tragitto è molto breve. Acquistato il biglietto da una ragazza dallo sguardo magnetico mi decido a fare il grande passo.

Dopo tre o quattro minuti arriviamo con sollievo all’altro capolinea, da dove una strada in salita conduce attraverso un villaggio deturpato dall’edilizia selvaggia. Su entrambi i lati incombono enormi casermoni in stile sovietico che nulla hanno a che vedere con l’architettura tipica armena. Dai grigi balconi delimitati da ringhiere arrugginite, massaie di mezza età si sporgono per appendere il bucato su cavi improvvisati e pericolanti, o più semplicemente per stare a guardare la gente che passa per la via. Questi condomini, forse un tempo funzionali ma che ormai da anni non sono soggetti ad alcuna manutenzione, sono il classico esempio dell’edilizia comunista, secondo cui un edifico non deve essere bello, ma soltanto efficiente. Mi torna alla mente il giorno in cui, uscito da un parco alla periferia di Mosca, avevo preso un autobus per raggiungere una fermata della metro. Per tutto il viaggio non avevo visto altro che anonimi palazzoni tutti uguali, alti cinque o sei piani, edificati come un classico quartiere dormitorio, senza la minima attenzione per il senso estetico o l’impatto ambientale. Le case dovevano essere case, e basta. L’importante era che servissero al loro scopo, che ospitassero più famiglie possibile in uno spazio ristretto. Questo è sempre stato l’unico criterio seguito dagli architetti sovietici; ma questa idea, già deprimente in un quartiere periferico moscovita, mostra davvero il suo lato peggiore quando viene esportata in luoghi come l’Armenia settentrionale, un tempo paradiso incontaminato, abitato solamente da pastori e monaci.

 

Dalla cima della collina parte una stradina che porta al monastero. Come tante altre che ho già visto è abbandonata, dissestata, piena di buche e, come al solito, affiancata da mucchi di spazzatura abbandonati. Cani randagi frugano tra i rifiuti azzannando qualche sacchetto qua e là e trascinandolo in mezzo alla carreggiata; con questo caldo, poi, il fetore emanato dagli scarti in decomposizione è davvero nauseante. Nessuno però sembra curarsene, nessuno sembra essere responsabile della pulizia o della manutenzione delle strade: si comportano tutti come se l’inquinamento non li riguardasse, come se una persona potesse gettare sotto un albero una lattina vuota, o una bottiglia di plastica, o un qualsiasi altro rifiuto, e dopo di quella un’altra persona, e poi un’altra ancora, e così via, senza che questa catena di eventi avesse un’influenza negativa sulla loro vita e su quella dei loro figli. Mi chiedo cosa succederà quando comincerà a piovere, quando tutta questa immondizia scorrerà per le strade e poi giù per il pendio senza controllo. Dove giocheranno i bambini? Dove pascoleranno gli animali? Sinceramente, comincio ad essere stanco di questo paese così abbandonato a sé stesso.

 

Il monastero di Sanahin, dichiarato Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’UNESCO, occupa la copertina della Lonely Planet; anche se, a dirla tutta, non è diverso dagli altri monasteri che ho visto in Armenia tanto che, se non ci fosse la didascalia col nome, sarebbe impossibile dire di quale si tratti. Oltretutto Sanahin, nascosto com’è dal bosco, non offre di sé quelle vedute particolari tipiche degli altri suoi simili, e l’unico vantaggio del visitarlo sta nel riparo che gli alberi offrono dal solleone. Pur essendo uno dei monasteri più antichi del paese, risalente all’anno 928, oggi rimane ben poco delle antiche tombe, delle gallerie sotterranee usate dai monaci per nascondersi durante le invasioni, della grande biblioteca e della famosa scuola di medicina realizzate nel corso degli anni. Sanahin è stata anche sede di un arcivescovado, ma oggi la chiesa principale, la cappella secondaria e l’ampio porticato sono come gli altri privi di qualsiasi tesoro o reliquia, e appaiono desolatamente tristi e spogli in questo luogo tanto sperduto.

Qualche altro visitatore si aggira tra gli edifici: un paio di ragazze, una famiglia con bambini, un solitario anziano. Consumo un pasto frugale, poi mi preparo all’ultima visita armena: si tratta di un altro monastero, quello di Haghpat, situato nelle vicinanze ma comunque troppo lontano per andarci a piedi. Decido di tornare ad Alaverdi e cercare un mezzo di trasporto, probabilmente un taxi. E anche in questo caso, il meglio della giornata deve ancora venire.

Ridiscendo a valle con la funivia (sic!), e appena scendo dalla cabina vengo avvicinato da un ragazzone del posto che cerca di fare amicizia e si offre di accompagnarmi al posteggio dei taxi. Non parla inglese, quindi cerchiamo di capirci in russo. Mi sembra, però, che questa persona sia diversa dalle altre che ho incontrato: il sorriso a mezza bocca del furbetto, i suoi tentativi di prendermi per un braccio, gli occhi in cui intravedo una luce che non mi piace, un’ombra di malizia, o di bramosia. Tutti segnali che mi suggeriscono di stare all’erta. Armen, dapprima, mi pone le solite domande: da dove vengo, perché sono venuto in Armenia, ecc. Ma quando gli dico che le ragazze qui sono molto carine, mi prende per un braccio con aria compiaciuta e, ammiccando in modo molto malizioso, mi propone un incontro “particolare”. A questo punto non ci sono più dubbi: si tratta del primo “cacciatore” che incontro dalla mia partenza, e devo spostare il mio atteggiamento sulla difensiva. Siamo soli per la strada, non passa nessuno: in questa situazione comincio sempre a guardarmi bene intorno, pronto a veder sbucare all’improvviso, da dietro a qualche angolo, i compari della volpe che ha fiutato la preda. Mi libero della presa e riprendo a camminare affrettando il passo, e rispondendo alle sue insistenti proposte con semplici monosillabi. Finalmente arriviamo in centro, ma ancora non vedo nessuno in giro. Armen mi dice di sapere dove si trovano i taxi, e l’idea migliore mi sembra quella di seguirlo, pur con molta prudenza. Certo, se mi dovesse invitare in una casa o in un negozio, sono già pronto a battermela; ma finché siamo per strada, non ha senso che io me ne vada girando a caso per un paese che non conosco, mentre lui può andare a cercare amici. Così lo seguo ancora per un po’, finché arriviamo davvero ad una piazzola con un taxi parcheggiato all’ombra di alcuni alberi; di fronte, un gruppo di uomini attempati siede nell’ingresso di una casetta chiacchierando tranquillamente. Tra l’altro noto che si tratta di un taxi ufficiale, con tanto di insegne, non uno di quelli improvvisati che ti caricano e poi non sei mai sicuro di dove ti portano. Armen mi chiede se può venire con noi; l’idea non mi attira per niente, e so come liberarmi di lui in modo educato: gli rispondo di sì, che può accompagnarmi tranquillamente a patto che paghi la sua parte della corsa. Il suo sorriso si spegne subito, ma lui, tenace, fa un ultimo tentativo:

“Dai i soldi a me, così vado a trattare con l’autista” mi propone, con la naturalezza di chi mi avesse chiesto l’ora.

“Che c’ho l’anello al naso, io?” sono tentato di rispondergli; ma purtroppo il mio russo non arriva a tanto, così mi limito a rifiutare sorridendo e mi dirigo a grandi passi dal tassista con cui voglio intavolare una trattativa lontano da orecchie indiscrete. Vedo con sollievo che Armen rimane indietro, così’ posso patteggiare la corsa tranquillamente. Ma non ce n’è bisogno: scopro che il taxi è talmente serio da avere addirittura una tabella ufficiale dei prezzi! L’uomo mi indica la tariffa per Haghpat, che tra l’altro è stata cancellata e corretta più volte, ma è comunque più bassa di quanto mi aspettassi. Il vero sollievo, però, lo provo quando l’autista mette in moto e parte lasciando nel mio passato Armen e gli altri uomini che cominciavano ad aggirarsi intorno alla macchina con troppa curiosità.

A dire il vero, non mi sono mai sentito veramente in pericolo; Armen probabilmente era solo un ragazzo povero in canna che, trovatosi di fronte ad un turista solitario (di sicuro una rarità), ci ha provato, cercando di sfruttare l’occasione. Non è mai apparso minaccioso, anche se non ho mai abbassato la guardia perché quando si è soli si è sempre vulnerabili. Più che altro mi è dispiaciuto incontrare proprio l’ultimo giorno una persona invadente ed approfittatrice che ha molto stonato con la gentilezza realmente disinteressata di tutti gli altri armeni che ho incontrato sul mio cammino.

 

Il sito di Haghpat è davvero splendido, e ha cancellato la delusione che finora mi aveva colpito per essere arrivato così lontano quasi inutilmente. E’ certamente il più meritevole di tutti i monasteri armeni, insieme a quello di Tatev, e vale davvero la pena di visitarlo. La sua magnifica posizione in cima ad una montagna, da cui si gode una spettacolare vista della valle sottostante, e la sua particolare composizione architettonica lo rendono molto interessante, tanto che nel piazzale antistante non mancano i pullman dei viaggi organizzati. Haghpat è più recente di Sanahin (il cui nome significa, infatti, “più vecchio di quello”); fondato nel 976 dalla regina Khosrvanuch, il monastero conobbe un periodo di grande splendore nel XII secolo, quando alla chiesa centrale furono aggiunti una biblioteca, un refettorio ed una imponente torre campanaria, di certo l’edificio più mirabile di tutto il complesso. La chiesa principale, dedicata a Santa Nishan, è circondata da numerose croci di pietra scolpite, e intorno vi sono delle sale per lo studio. In effetti questo monastero, a differenza degli altri, appare vivo: alcuni monaci dalla folta barba, vestiti nei loro caratteristici abiti neri, si spostano da un edificio all’altro tenendo in mando grossi libri dall’aria antica, mentre i rosari pendono vistosamente dal collo; alcuni si scambiano qualche parola, e non sembrano affatto seccati dalla presenza dei turisti che sicuramente portano denaro utile alla manutenzione del complesso. Nel parcheggio antistante non manca nemmeno il negozio di souvenir, piuttosto raro a vedersi qui in Armenia, che vende cartoline ad un prezzo doppio dispetto ai suoi omologhi della capitale.

Mi soffermo volentieri in questo bellissimo sito, sia perché la veduta è davvero spettacolare, sia perché questa è la mia ultima gita in Armenia, prima di andare in Georgia, e voglio assaporare ogni attimo che questo paese mi sta offrendo. Alla fine riprendo il taxi, il cui autista mi ha pazientemente aspettato (ma dev’esserci abituato), e mi faccio portare alla stazione, dove dovrò far passare ancora tre ore prima dell’arrivo del treno.

 

Sulle pareti della sala d’aspetto spiccano dei coloratissimi mosaici che rappresentano, in perfetto stile comunista, scene di lotta sociale e di vita operaia. L’edificio è fin troppo grande per la funzione che svolge, tanto che una sezione è stata chiusa e transennata. Forse da qui, in passato, transitavano più dei tre treni giornalieri di adesso, e questa stazione ha vissuto tempi migliori. Anche ora, comunque, è assolutamente dignitosa; quando esco, mi soffermo a lungo ad osservare il quadro offerto dal lunghissimo treno merci fermo qui da chissà quanto tempo, nell’immobilità generale, mentre sullo sfondo l’imponente sagoma delle montagne svetta sul paese e sulla sua silenziosa valle, offrendo davvero la sensazione di essere in uno dei luoghi più remoti del pianeta.

Il taxista, al ritorno da Haghpat, mi ha chiesto più di quanto pattuito, accampando come scusa che la tariffa scritta si riferiva al solo viaggio di andata. Sono riuscito a tirare un po’ sul prezzo finale, ma ho fatto fuori tutte le monetine che avevo; in tasca mi resta solo una banconota da 5.000 dram per comprare il biglietto di ritorno, che costa appena 150 dram (più o meno trenta centesimi di euro). La biglietteria apre soltanto pochi minuti prima dell’arrivo del treno e, come temevo, quando tiro fuori la banconota il cassiere mi guarda sconcertato, rivolgendosi a me con una delle frasi che ho imparato meglio studiando il russo:

U vas est’ melochy?” (Ha degli spiccioli?)

“Istvinitie, u menya net melochy” (Mi dispiace, non ne ho)

Io già mi aspettavo che mi restituisse la banconota dicendo di arrangiarmi a cambiarla; invece l’uomo si precipita di corsa fuori dalla stazione, ritornando dopo alcuni minuti con un borsellino pieno di monete che rovescia sul tavolo per contare quelle del mio resto. Penso che sia stato davvero gentile, e la mia prima impressione su questo popolo è ancora una volta confermata.

Arriva il treno. Il solito assalto di gente stracarica di merci, borse, cassette di frutta, pesanti attrezzature, ingombranti arnesi, tutto ciò insomma che può essere trasportato. Il tragitto di ritorno a Vanadzor richiede almeno due ore, che sfrutto cominciando a studiare l’alfabeto georgiano, diversissimo da quello armeno. Queste due lingue, infatti, non hanno niente in comune: la seconda appartiene al ceppo indoeuropeo, mentre la prima è una lingua kartveliana, una famiglia linguistica che non ha alcun legame con nessun altro idioma conosciuto. A questo gruppo appartengono anche lo svan e il mingreliano, lingue parlate soltanto da poche migliaia di persone nelle remote regioni montagnose del Caucaso settentrionale.

Ho anche deciso di dormire qui a Vanadzor questa notte (la stanza da Natasha è già pagata) e di prendere un mashrutka per Tbilisi domattina presto (o almeno provarci). Se non dovessi trovare posto, me ne andrò a Gyumri, un’altra sonnolenta città del nord che pare avere un interessante centro storico. Questa, comunque, sarà l’ultima alternativa: sono più che mai convinto che sia ora di cambiare aria.

Ciao, Armenia, e grazie per ciò che mi hai dato. Sono contento di averti visitata, di aver aperto una finestra su un paese lontano che, fino a poco tempo prima, era solo un insieme di scritte e di linee tracciate su un atlante. Ho scoperto una nazione lontana da noi nel tempo, ho conosciuto un popolo onesto e gentile, in parte simile a me ed in parte molto diverso. Certo, non ho viaggiato in ogni angolo, ma penso di essermi creato un’idea piuttosto completa e sicuramente positiva di una luogo prima sconosciuto e misterioso, adesso più chiaro e concreto; non mi pento mai di andare in un posto dove non sono mai stato, perché ogni città, ogni incontro, ogni percorso ha sempre qualcosa da insegnarmi, qualcosa di diverso dal mondo in cui vivo normalmente e che ogni volta aggiunge un nuovo tassello al grande puzzle del mondo. Sono contento di essere stato qui, di aver conosciuto questa realtà. Ma adesso devo andare. Nuove avventure mi attendono in un nuovo paese.

 

....................................................................................................

 

 

 

PARTE SECONDA

 

 

GEORGIA

 

 

Tbilisi, 21 agosto 2006 

“Quando esci devi dirmelo, che chiudo a chiave la porta. Ci sono molti criminali in giro!”. Così mi sgrida Nasi, la mia padrona di casa, al mio ritorno da una rapida serie di commissioni. Questa è la prima cosa che mi colpisce qui a Tbilisi, la famigerata capitale della Georgia, su cui ne ho sentite di tutti i colori. Quale differenza con l’Armenia, dove la gente lascia aperta la porta di casa giorno e notte! La città ha un’aria di opulenza e di miseria insieme, e qui sembrano convivere ricchi giovani con cellulare e occhiali da sole firmati insieme a vagabondi senza fortuna. La folla è  consistente, il traffico caotico, e si ha in ogni caso l’idea di una città viva, pulsante, moderna, quasi una metropoli del Caucaso con tutto ciò che, nel bene come nel male, ne può derivare.

 

Stamattina sono riuscito a trovare posto su un mashrutka da Vanadzor; ho viaggiato schiacciato come sempre tra persone, sacchi, borse, bambini che strillavano, alimenti dall’aspetto nauseabondo attraverso le montagne fino al posto di frontiera, dove mi hanno semplicemente timbrato in uscita il visto armeno senza nemmeno guardarmi in faccia. Dall’altro lato del confine mi hanno invece fatto scendere, ma solo per comunicarmi che gli italiani non hanno bisogno del visto per entrare in Georgia, cosa che già sapevo. I poliziotti mi hanno timbrato il passaporto e mi hanno fatto risalire sul pulmino senza nemmeno controllarmi lo zaino, mentre altri viaggiatori, soprattutto donne georgiane di ritorno da visite presso i mariti che vivono in Armenia, sono stati oggetto di controlli molto più minuziosi. Evidentemente i poliziotti cercavano qualche merce di contrabbando che a Tbilisi può essere rivenduta a prezzi molto più alti rispetto all’Armenia. Il peggio, però, è venuto dopo: la strada sul versante georgiano è veramente scassata, e per ore ho dovuto sopportare i sobbalzi del piccolo pulmino che non mi hanno permesso di mangiare né di dormire. Arrivare a Tbilisi è stato, inizialmente, un sollievo; poi alla stazione dei pullman, dopo essermi fatto strada tra centinaia di persone che mi offrivano biglietti per Erevan, Istanbul, Baku e altre località della regione, sono riuscito a raggiungere la sala d’attesa, dove ho cambiato i soldi e ho cercato di telefonare a Nasi, un’anziana affittacamere molto famosa tra i backpackers. Non avendo ottenuto risposta, non mi è rimasto che prendere un taxi (ad un prezzo esorbitante) e farmi portare sul posto di persona. Mentre mi aggiravo per strada, nella calca, cercando l’ingresso giusto, i passanti mi indicavano a gesti un piccolo cancello che dava sulla strada: non c’è stato bisogno di chiedere, hanno capito subito chi stavo cercando.

La grande casa è stata adattata a dormitorio. Ci sono letti dappertutto: in cucina, nel corridoio, anche fuori dalla porta del bagno. Io sono ancora fortunato: mi spetta un grosso e scomodo letto nell’anticamera, dove una tenda pesante pende da una grossa corda appesa a due mobili a mo’ di séparé dal corridoio. Almeno non devo dividere il mio spazio con nessuno, ma temo che stanotte, quando gli altri ospiti cominceranno ad uscire ed entrare, ci sarà molto trambusto.

Nasi prende accuratamente nota dei miei dati personali (in Armenia nessuno mi aveva mai chiesto nemmeno il nome), poi mi dice che vuole essere pagata in anticipo. Dopo che l’esoso tassista mi ha prosciugato devo uscire per cambiare altri soldi, così ne approfitto per mangiare qualcosa in un McDonald’s, il primo che vedo da quando sono partito (in Armenia non ce ne sono). Il menu è scritto solo in georgiano, ma le belle inservienti parlano un perfetto inglese così non ho problemi ad ordinare un sandwich che comunque si chiama allo stesso modo in tutto il mondo.

Mi siedo vicino alla grande finestra al primo piano, e guardo la gente che cammina per la strada, sotto di me, osservandone l’atteggiamento. Non mi dà l’idea di essere un posto pericoloso, ma sono appena arrivato ed è sicuramente presto per emettere giudizi.

Dopo quello che mi hanno raccontato, e che avevo letto prima di partire, mi aspettavo una città dove le persone camminano armate mentre scippi e aggressioni avvengono ad ogni angolo di strada. Niente di tutto ciò: è pieno giorno ed i marciapiedi sono colmi di persone che camminano tranquillamente; molte ragazze indossano magliette scollate e corte minigonne, e non hanno paura di portare a tracolla vistose borsette che certamente attirerebbero l’attenzione di eventuali scippatori. La gente va e viene: donne con la borsa della spesa si fermano nei numerosi negozietti che vendono un po’ di tutto; uomini in giacca e cravatta vanno di fretta parlando al cellulare; ragazzine munire di lettore di mp3 camminano tenendosi per mano fermandosi ogni tanto a guardare le vetrine dei negozi di moda. Vedo, però, proprio sotto la finestra, un’auto parcheggiata in doppia fila che ha tutta l’aria di essere stata rubata e poi abbandonata. Un poliziotto la osserva sospettoso, poi chiama qualcuno al telefono mentre cerca di regolare il traffico, già molto caotico, che sta impazzendo perché l’auto sta ostruendo il passaggio. Questa città è tutta da scoprire, e non vedo l’ora di farlo.

 

* * *

 

Camminando per strada, dopo aver schivato le auto presso un’enorme rotonda priva di qualsiasi segnaletica, mi guardo continuamente intorno, esaminando ogni persona, ogni sguardo, ogni mano con un’aria eccessivamente nervosa che di sicuro dà molto nell’occhio. Ad ogni angolo rallento, aspettandomi che salti fuori qualche brigante armato di randello.  E’ assurdo, ma non riesco a farne a meno; dopo tutte le storie che ho sentito, sono prevenuto verso questa città che non conosco ma che mi incute timore senza un’apparente ragione. E’ vero che in giro ci sono tantissimi mendicanti, soprattutto persone anziane, che tendono una mano speranzosa verso i passanti, o se ne stanno semplicemente appoggiati al muro con una ciotola tra le gambe; probabilmente molti sono profughi dell’Abkazia, dalla quale sono fuggiti a causa della guerra. Nessuno però mi importuna, o mi appare minaccioso.

Vicino alla casa di Nasi c’è una stazione della metropolitana, molto comoda per muoversi velocemente in questa città dalla forma stretta e molto  allungata. Mi hanno detto che prendere la metro è pericoloso, anche di giorno. Possibile? Fuori dalla stazione c’è un altro nugolo di questuanti, mescolati tra persone che cercano di vendere qualsiasi cosa in un mercato raffazzonato: donne dal volto segnato mostrano tende o tappeti, agitandoli al mio passaggio per invogliarmi a comprare; uomini anziani siedono dietro a banchetti improvvisati ricoperti di noccioline, datteri (?), pupazzi, sigarette, bottiglie d’acqua, qualsiasi cosa possa essere venduta. Alcuni mi offrono giornali dalle incomprensibili scritte; altri cantano a squarciagola una canzone, stonatissimi, nella speranza di una ricompensa. Qualcuno semplicemente bighellona senza far niente, in attesa che succeda qualcosa. Per strada si respira miseria, la si può vedere e toccare mentre, con un forte contrasto, giovani ragazze con ampie scollature e vistosi occhiali da sole, borsette eleganti e scarpe firmate, camminano disinvolte tra i mendicanti con noncuranza, quasi con avversione.

Vorrei dare qualcosa, ma non mi fido a tirare fuori i soldi in mezzo a questa confusione. E quando arrivo alla cassa dei biglietti, mi guardo bene intorno prima di estrarre le monete che conservo in una tasca separata da quella delle banconote.

 

Percorro a piedi tutto Rustaveli, il lunghissimo viale alberato che unisce la città nuova a quella vecchia. Anche qui, una interminabile fila di mendicanti tende la mano; vedo molti vecchi, alcuni storpi. Tra loro passeggia la gente “normale”, ragazzi e ragazze che hanno avuto la fortuna di non conoscere la guerra, o almeno quella vera. Nel novembre 2003 anche le strade di questa città furono teatro di scontri, anche se di breve durata; il presidente uscente Eduard Shevardnadze fu duramente contestato dalla massa mentre celebrava la vittoria al termine di elezioni chiaramente falsate. Da una iniziale, piccola folla di studenti, la sommossa si estese a tutta la città, al punto che lo stesso parlamento fu letteralmente assediato ed infine invaso dalla moltitudine rabbiosa finché Shevardnadze, in evidente difficoltà, decise di fuggire evitando inutili spargimenti di sangue.

Il nuovo presidente, Mikhail Saakashvili, gode ora di un’indiscussa fiducia tra la gente. Sotto la sua guida la criminalità è notevolmente diminuita (si pensi che, all’inizio del duemila, molte ambasciate straniere sconsigliavano vivamente ai loro cittadini di recarsi a Tbilisi), l’economia è ripresa, l’erogazione dell’energia elettrica e del gas per riscaldamento si interrompe molto più di rado. L’hanno chiamata “La rivoluzione delle rose” per via del carattere non violento che la sommossa ha avuto. Di certo il presente è migliore del passato; ma il futuro? Quello, nessuno può conoscerlo. Mentre faccio queste riflessioni, vedo due ragazzi dare qualche moneta ad un vecchio stretto intorno ad un logoro abito scuro, con una foltissima barba bianca che gli conferisce quasi l’aspetto di un prete ortodosso. Il vecchio intasca i soldi, poi manda dei baci ai suoi benefattori con ampi gesti della mano. Forse la Georgia può ripartire da questo, dalla consapevolezza che la generazione giovane deve avere verso i problemi di oggi ed alle loro cause, e sul fatto che per arrivare a dei risultati buoni ci vogliono delle persone buone, come molti di questi ragazzi mi sono sembrati. Come sempre, il futuro è in mano ai giovani, che prima di tutto non devono ripetere gli errori della generazione precedente.

 

* * *

 

Dalla fortezza di Narikala, costruita dai Persiani nel IV secolo, si gode una splendida panoramica della città. La profonda gola scavata dal fiume Mktvari, che attraversa la città da ovest verso est, sembra una ferita inferta alla terra stessa, che taglia nettamente Tbilisi in due parti ben separate. Si racconta che nel 1552, quando i persiani riconquistarono la città, costringessero la popolazione a convertirsi all’islam gettando nel fiume tutti quelli che si rifiutavano. Sull’altra sponda si stagliano le sagome gialle delle grandi chiese cattoliche costruite in epoche diverse, ma tutte col tipico tetto ottagonale molto spiovente, a sembrare quasi una matita rovesciata con la punta appena rifatta.

Una scala permette di raggiungere la sommità delle mura della fortezza, dove cammino osservando il panorama. Raggiungo una campana appesa a delle travi collocate a formare un’elegante torretta: un cartello multilingue avvisa che è proibito suonarla. Dietro di me sopraggiunge un gruppo di chiassose ragazze, che continuano a ridere e a scherzarsi a vicenda. Una di loro, ovviamente, suona il batacchio; un’altra subito la rimprovera. Resto fermo per qualche attimo, per vedere se magari la fortezza crolli improvvisamente in seguito alla profanazione del divieto. Non succede niente. Deluso, scendo per la ripida strada che mi riporta verso il fiume.

Raggiungo la Cattedrale di Sameba, la più grande del Caucaso, costruita sulla sommità di una collina in modo da essere un punto di riferimento per tutta la città. In realtà l’edificio è recentissimo, terminato appena l’anno scorso con molte polemiche dei cittadini perché il luogo era, in origine, un cimitero armeno. Il sito è imponente, e dalla piazza antistante si ha un’altra, diversa, panoramica della metropoli. Vedo molte ragazze coprirsi il capo con un velo prima di entrare, e farsi continuamente il segno della Croce all’ingresso come all’uscita, in modo frenetico, esaltato. Anche qui come in Armenia, dopo tanti anni di ateo comunismo, il Cristianesimo ha ripreso il posto che per secoli aveva occupato nel cuore della gente.

 

Devo fare presto. Non essendoci l’ora legale, in Georgia viene buio un’ora prima rispetto all’Armenia, e quando ciò avverrà voglio essere già a casa. Mangio un khachapuri, una focaccia al formaggio, in un ristorantino all’aperto situato in una piccola piazza pedonale, confondendo il nome del piatto col khoravats armeno. Quindi ritorno a casa, affrettando il passo fino alla stazione della metropolitana che prendo senza timore: in tutte le fermate ho visto poliziotti aggirarsi per i corridoi, e onestamente mi sono sembrate i luoghi più sicuri della città. Alla fine la giornata è andata bene, non mi è successo niente; ma quando alla sera faccio ritorno da Nasi, vedo che la porta-finestra della mia camera, che dà sul cortile, è chiusa a chiave; una seconda porta, subito dietro, è anch’essa chiusa; e, per maggiore sicurezza, una pesante spranga di legno è stata messa di traverso.

 

Kazbegi, 22 agosto 2006 

Dopo alcuni tentennamenti decido di andare a Kazbegi, l’unica località montana della Georgia che sembra non essere affetta da banditismo, e dove pare che si possano compiere bellissime escursioni a piedi. Mi è sempre piaciuta la montagna, e ogni volta che posso andare a camminare, a scoprire nuovi angoli e villaggi caratteristici non ne perdo l’occasione.

Sul mashrutka sono quasi tutti turisti: un estone con la fidanzata israeliana, che però intendono fermarsi un po’ prima, perché hanno sentito che di recente nella zona ci sono state manovre militari (Kazbegi è a pochissimi chilometri dal confine con la Russia, un posto non sempre tranquillo); un’attempata coppia di Hannover, anch’essa intenzionata a scendere prima, perché ha prenotato un comodo albergo nel villaggio di Gudauri da cui esplorare la regione; ed una famiglia slovacca ma residente a Vienna composta da madre, due figlie sui vent’anni ed un ragazzino; con queste persone faccio subito amicizia, ma purtroppo scopro che hanno intenzione di tornare a Tbilisi già in serata.

Sul pulmino la conversazione cade sulla religione, prendendo spunto dalle numerose croci, icone e altre immagini religiose che l’autista ha appeso allo specchietto retrovisore, appiccicato al cruscotto e appoggiato al parabrezza al punto da ostruire buona parte della visuale. Secondo Corinna, la madre delle slovacche, la religione qui non è molto sentita come tale, ma piuttosto vissuta come una moda, qualcosa che soprattutto i giovani seguono perché si sentono dire che “è giusto farlo”. Durante il periodo sovietico la religione, in tutto l’impero, è stata fortemente osteggiata: moltissime chiese furono chiuse, qualunque espressione di culto vietata o comunque scoraggiata, e nelle case le persone tenevano le immagini sacre ben nascoste, tirandole fuori solo per le preghiere; ma c’era sempre qualche mattone smosso o qualche materasso svuotato dove nasconderle in caso di un’ispezione improvvisa, o magari della visita di qualche vicino ficcanaso. Partendo dalla ben nota frase di Karl Marx secondo cui la religione è l’oppio dei popoli, i comunisti si opposero fermamente a qualsiasi culto, dal cristianesimo all’ebraismo, dall’islam ai culti tribali delle popolazioni siberiane temendo che il nome di qualsiasi dio potesse essere usato dalla popolazione per raccogliersi e ribellarsi al regime. Così tutte le religioni vennero proibite, mentre nelle scuole si insegnava che ai bambini che “Dio non c’è, non esiste. Non dovete credere in qualcosa che non esiste. L’unico vostro amore dev’essere per il vostro paese”.

“Ora che il comunismo è caduto – continua Corinna – la gente ha di nuovo molta voglia di religione; ma la sente più come una moda, o come un obbligo imposto dai genitori, non come una vera credenza. Le ragazze vanno in chiesa ma senza capirne il significato. Lo fanno solo perché ci vanno anche le loro amiche”. Io non sono d’accordo, e anche la signora di Hannover la pensa come me. La Georgia, così come l’Armenia, mi sembra un paese con una profonda cultura religiosa. Avendo visitato diverse chiese, mi sono fermato ad osservare le persone che le frequentavano. Ho visto moltissime donne, non solo anziane ma anche ragazze giovani, entrare in chiesa coprendosi testa e spalle con un velo, simile al chador musulmano. Le ho viste farsi il segno della Croce ripetute volte, senza mai smettere, come possedute dal desiderio di grazia, chinandosi e prostrandosi continuamente davanti ad ogni immagine di Gesù o dei santi, in certi casi arrivando addirittura a baciare i disegni stessi. Anche al momento di uscire tutti camminano sempre all’indietro per non voltare mai le spalle all’altare, quasi Cristo si potesse offendere di un simile gesto. Anche, basta trovarsi su un mashrutka che passa davanti ad una Chiesa che subito si vedono tutti i passeggeri cominciare a farsi il segno della Croce a ripetizione, mentre le labbra si muovono rivolgendo silenziose preghiere a chissà quali santi. Un senso cristiano tanto insito nelle persone, soprattutto in quelle giovani, non può essere pensato solo come una moda (le mode sono destinate a passare, e ad essere sostituite con altre); secondo me si tratta di vera convinzione in ciò che si onora. E forse è stata proprio la repressione comunista, durante la quale la brace del credo ha sempre continuato ad ardere sotto la cenere delle credenze oppresse, a far sì che ora la gente, sentendosi di nuovo libera, abbia voglia di dare sfogo all’amore verso Dio, a quei sentimenti religiosi di cui ha davvero bisogno in un periodo incerto e niente affatto semplice da affrontare. In tutte le guesthouse in cui ho soggiornato in Armenia ogni stanza era arredata con immagini sacre; dovunque ho visto, appesi alle pareti, fogli con preghiere da recitare, spesso arricchite da immagini di Cristo con scritto “Gesù ti ama”. Una simile diffusione del credo non può essere puramente propagandistica; alla base deve avere radici molto profonde, molto sviluppate nella coscienza delle persone che vedono nella religione una strada, un aiuto per affrontare questo presente incerto e per costruire un futuro migliore.

 

* * *

 

Kazbegi si trova al termine di un percorso costruito dai soldati russi all’inizio dell’800 per favorire gli spostamenti degli eserciti attraverso le montagne. Da qui fu chiamata Strada Militare Georgiana, e oggi rappresenta una delle principali vie d’accesso alla Russia, anche se il confine è chiuso agli stranieri, che possono arrivare solo fino a Kazbegi. Per i primi chilometri la strada è bella, e risale pian piano la valle del fiume Aragvi con curve e controcurve che l’autista prende a tutta velocità. Arriviamo quindi al lago Zhinvali, un magnifico specchio d’acqua su cui si riflettono le montagne circostanti, in un paesaggio idilliaco non ancora deturpato dall’edilizia di massa. E, non appena superato il lago, ecco sbucare alla nostra destra la bellissima fortezza di Ananuri, un doppio castello rinascimentale che fu spesso al centro di guerre, insurrezioni e intrighi di corte. Ci spintoniamo tutti a vicenda nel tentativo di fotografare una simile meraviglia, ma il mashrutka passa talmente veloce che il castello dopo pochi attimi scompare dietro ad un curva, lasciandoci un po’ di amaro in bocca.

Poi la strada comincia a salire, arrampicandosi sulle alte montagne con tornanti che mettono a dura prova il motore del pulmino. I giri del motore salgono vertiginosamente mentre il piccolo mezzo affronta i passi a più di duemila metri su un asfalto ormai diventato sterrato, con qualche buca, molti sassi e alcuni passeggeri che cominciano a dare segni di malessere, tanto che per due volte dobbiamo fermarci per permettere a qualcuno di liberare lo stomaco.

 

Finalmente, dopo quattro ore di viaggio, arriviamo a destinazione. Per quanto sperduto, Kazbegi è un paese sorprendentemente grande e popoloso. Quando scendo dal pulmino mi trovo circondato da montagne maestose: a est si staglia, nettissimo, il monte Kuro, 3250 metri, mentre ad ovest il panorama è ancora più maestoso e culmina nella vetta del monte Kazbek, a 5047 metri d’altezza. Nel paesaggio spicca anche una collina (relativamente bassa rispetto alle montagne intorno), su cui si trova la chiesa di Tsminda Sameba (Santissima Trinità), meta dell’escursione che ho in programma. Anche le ragazze slovacche restano impressionate, tanto che stanno considerando l’idea di passare qui la notte, nonostante si siano portate dietro un bagaglio leggero. L’ultimo mashrutka per Tbilisi parte alla cinque, ed essendo già l’una dovrebbero fare le cose molto di corsa.  Andiamo alla ricerca della casa di Vano, un affittacamere indicatomi da Nasi che ospita i numerosi viaggiatori che transitano da queste parti. La sua casa non ha un indirizzo: basta fare il suo nome ai passanti, e quelli subito ci indicano la strada.

Vano è un personaggio a dir poco bizzarro: vive da solo in una casa grandissima, dove il disordine regna sovrano. Nella stanza principale, un grande salone adibito a cucina/soggiorno/dormitorio, spicca un tavolino ricoperto di pentole, piatti, scatolame, tazzine sporche e tutto ciò che una fervida immaginazione può collocare in una cucina. In fondo allo stanzone vedo un piccolo televisore in bianco e nero, che dubito funzioni e che serve più che altro a dare un tono all’ambiente. Accanto campeggia un enorme ritratto di Stalin, davanti al quale le ragazze fanno subito a gara a mettersi in posa affinché possa scattare loro una foto memorabile.

Vano ha trentacinque anni e un’aria bonacciona che lo fa sembrare un bambinone. Gira sempre a torso nudo, parla bene l’inglese ma ha una pronuncia molto strana, perché tiene sempre la bocca semichiusa. Con lui c’è una ragazza: dapprima penso che sia la sua compagna, ma poi scopro che si tratta di una turista israeliana di nome Mahrit che abita lì da ben tre settimane.

“Così tanto? – le domando sorpreso. - E cosa fai tutto il giorno?”

“Assolutamente niente”, mi risponde col sorriso beato di chi ha capito tutto della vita.

Mahrit mi spiega che la strana pronuncia di Vano è dovuta ad un’operazione chirurgica che ha subìto da bambino, quando gli hanno tolto le tonsille. Purtroppo i medici hanno lesionato alcuni nervi, facendogli perdere parzialmente l’uso dei muscoli facciali. L’operazione sbagliata ha procurato a Vano anche un altro curioso problema: ogni volta che beve una bibita gassata oppure un liquido caldo come tè o caffé, perde l’uso dell’udito per qualche ora. Così a cena, dopo aranciata e tè, chiacchieriamo a gesti più che a parole. Sembra che esista anche un rimedio a questo problema: se Vano fuma della marijuana le orecchie gli tornano subito a funzionare.

“Una volta ne coltivavo un po’ nel giardino sul retro – mi spiega -, ma adesso non ce l’ho più perché la polizia mi ha fatto storie; e poi ogni tanto i vicini la rubavano”. Uno come Vano, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo.

 

Mahrit mi assicura che non pioverà, nonostante il cielo si stia facendo scuro, quindi decido di andare subito a visitare la chiesa della Tsminda Sameba, abbarbicata su un’altura che sembra una collina, ma che in realtà si trova a quota 2.170. Vano mi disegna una piantina per trovare l’inizio del sentiero, che parte da un piccolo villaggio sopra il paese. La ragazza ha dei dubbi sulla precisione del disegno, e aggiunge alcune correzioni di sua mano; prima di partire faccio anche rifornimento dell’ottima e fresca acqua che scorre da una fontanella nel giardino del mio ospite.

In effetti la mappa non è precisissima, e giunto ad un bivio alla fine della strada asfaltata mi guardo intorno spaesato finché alcuni bambini mi indicano un sentiero che si inerpica tra le semplici case. A metà salita incontro nuovamente la famiglia slovacca, che si era incamminata prima di me avendo deciso di salire e scendere in giornata (inoltre, penso che l’arredamento della casa di Vano abbia influito molto su questa decisone). Anche se la loro andatura è molto lenta decido di salire insieme alle ragazze, per fare quattro chiacchiere. Corinna abita a Vienna insieme alla figlia Miriam (sui vent’anni) e all’ultimo arrivato Beniamino (non più di dodici), mentre l’altra figlia Franka (anche lei sui vent’anni e nettamente la più carina) abita in Germania, a Baden-Baden, dove studia medicina alternativa. Sono arrivate in Georgia una settimana fa e hanno ancora qualche giorno a disposizione così la madre, che conosce bene il paese essendo questa la sua quarta visita, vuole sfruttare il poco tempo rimasto per mostrare ai figli più cose possibili. Gli racconto di me, e restano impressionate quando dico loro di essere arrivato a quota trentanove stati visitati; anche loro provano a contarli e Corinna rimane imbarazzata quando si ferma a quota trenta.

Quando la salita si fa più impegnativa Miriam, che negli ultimi giorni ha accusato dei malori a causa del cibo, rimane indietro; madre e fratellino restano con lei ad aiutarla, e io posso continuare da solo insieme a Franka, che ha un ottimo passo e con la quale spero di creare una bella amicizia. Mi dice di amare molto la montagna, e che non appena può cerca sempre di andare a camminare, di fare gite in bicicletta, o anche di nuotare, tutte attività che la tengono in contatto con la natura. Il suo passatempo preferito è quello di leggere libri stando appoggiata ad un albero in mezzo a un bosco. Ne sono colpito; vorrei trovare delle ragazze come questa anche nella mia città, mentre tutte quelle che conosco pensano solo ad andare in discoteca, stordirsi e tornare a casa alle sei del mattino.

Durante il percorso ci scattiamo molte foto reciproche, e dato che la sua macchina fotografica sta finendo la memoria, mi viene un’idea brillante… ma è ancora presto; meglio tenerla per dopo.

 

La chiesa della Tsminda Sameba è probabilmente lo spettacolo più bello che io abbia mai visto in tutti e trentanove gli stati che ho visitato. Compare davanti a noi all’improvviso, quando arriviamo in cima alla salita, costruita su un piccolo rilievo a circa un chilometro davanti a noi. La sua magnifica sagoma si staglia contro l’imponente complesso roccioso del monte Kuro, che la circonda come un anfiteatro, con la stessa maestosità che una corona ingioiellata conferisce ad una degna regina. Anche Corinna e gli altri, man mano che arrivano in cima, restano senza parole. Su questo altopiano battuto dal vento, dove non crescono alberi né arbusti, dove tutto il paesaggio è brullo e pietroso, il profilo della pur semplice chiesetta risalta magnificamente, molto più di quanto la Tour Eiffel possa amplificare la bellezza dello skyline di Parigi. Le foto si sprecano.

 

Giunti in cima alla collinetta finale, lo scenario si presenta ancora più imponente: vette tra i 4.000 ed i 5.000 metri ci circondano da ogni lato, mentre lontano sotto di noi vediamo il paese col suo piccolo fiume, che ha scavato una impressionante valle nel corso dei millenni. Si narra che Prometeo, dopo aver rubato il fuoco agli dei, sia stato incatenato alle pendici del monte Kazbek, dietro di noi rispetto alla chiesa. La sua prigione sarebbe stata una capanna eretta a oltre 4.000 metri di quota vicino ad una grotta contenente alcune sacre reliquie come la mangiatoia della stalla dove nacque Gesù, che però gli uomini non potevano guardare pena l’accecamento. In effetti molti tabù hanno tenuto a lungo gli abitanti del posto lontani da queste vette, e solo di recente la zona è stata scoperta da viaggiatori, soprattutto alpinisti, che pernottano in un rifugio costruito vicino alla grotta per poi scalare il ghiacciaio perenne sulla cima del Kazbek.

La chiesa trecentesca, molto semplice all’interno, è importante soprattutto per essere stata costruita in un luogo tanto impervio, proprio per simboleggiare la fiducia incrollabile di queste genti nella fede cristiana. Durante le invasioni straniere della Georgia, i tesori più importanti delle varie città venivano portati qui per essere messi al sicuro, e i governatori locali si riunivano nel prato sottostante per tenere le riunioni. Mentre visitiamo l’edificio, un monaco ci rimprovera a causa dei nostri pantaloncini corti, e ci porge una specie di sottana da legare in vita per coprire le gambe. Le ragazze mi chiedono di scattare loro molte foto da diverse angolazioni, così posso mettere in pratica il mio semplice piano: approfitto per chiedere a Franka di scambiarci le e-mail, in modo da spedirle da casa le immagini nel caso la sua macchina avesse finito le batterie; lei ringrazia ma gentilmente rifiuta… pazienza, almeno ci ho provato.

 

Alla fine della visita l’intera famiglia riparte di corsa: sono le quattro passate, e non vogliono perdere l’ultimo mashrutka. Io resto ancora un po’ a guardarmi intorno, immerso in questo spettacolo impressionante; poi durante la discesa le incontro ancora perché si sono fermate a riposare. Nell’ultimo tratto Corinna mi parla di Mtskheta, una cittadina vicino a Tbilisi che rappresenta il centro spirituale della Georgia. Lì si trovano le chiese più rilevanti della nazione, ed è un importantissimo luogo di culto e di pellegrinaggio. Vi fu costruita nel IV secolo la prima chiesa georgiana, dopo che la nazione si convertì al Cristianesimo in seguito ai miracoli di Santa Nino, la santa più venerata della Georgia. Costei era una schiava romana, ma di fede cristiana, che viveva in Cappadocia (il nome originale era forse Nounè); le sue azioni virtuose, sempre rivolte all’umiltà e alla preghiera, le suscitavano l’ammirazione e il rispetto di tutti, tanto che la sua fama giunse fino in Iveria (l’antica Georgia, di cui Mtskheta era la capitale), la cui regina era gravemente malata. La schiava riuscì a guarirla con le sole preghiere, e la corte rimase tanto impressionata da convertirsi subito alla nuova religione. Il re ordinò quindi ai suoi operai più abili di costruire una chiesa sotto le direttive di Nino, che durante i lavori operò un nuovo miracolo. Il luogo scelto per la costruzione era particolare: secondo la tradizione, un ebreo georgiano che si trovava a Gerusalemme durante la Crocifissione di Cristo era tornato a Mtskheta portando con sé la tunica di Gesù. La sorella, vedendola, l’aveva voluta per sé, ma non appena l’aveva toccata era morta all’istante. Poiché nessuno era riuscito a staccare la tunica dal cadavere, la donna era stata sepolta insieme alla veste in un luogo su cui poi era cresciuto un albero. Questo luogo era stato scelto appunto per la costruzione della prima chiesa georgiana; ma quando gli operai tagliarono il tronco a metà questo non cadde, rimanendo fluttuante nell’aria. Solo in seguito alle preghiere di Santa Nino il tronco tornò a posarsi sul terreno e rifiorì subito, producendo un olio medicamentoso. Oggi al posto dell’antica chiesa si trova la cattedrale di Sveti-Tskhoveli, costruita nell’undicesimo secolo e il cui nome significa appunto “colonna che dà la vita”.

Non so ancora se visiterò Mtsketa anche se Corinna, che la conosce bene essendoci stata più volte, me lo consiglia assolutamente.

Quando la discesa finisce, ci separiamo: loro corrono alla fermata dei mashrutka, io torno da Vano.

Ciao belle ragazze, e grazie di aver fatto parte della mia vita per qualche ora. E ciao anche a te, Chiesa della Tsminda Sameba: se mai un giorno io dovessi vedere qualcosa di altrettanto bello, stai certa che mai cancellerò dal cuore il tuo bellissimo ricordo.

 

 

Tbilisi, 23 agosto 2006

Questa mattina ho avuto uno dei migliori risvegli della mia vita: aria freschissima, uccellini cinguettanti, imperiose montagne svettanti nell’azzurro di un cielo che solo a duemila metri può essere tanto terso. Non si sente il minimo rumore: non un’auto, non una sirena; solo i suoni di un villaggio che pian piano si risveglia per cominciare una giornata uguale a tante altre. Qui a Kazbegi non esistono scadenze, orari da rispettare, tabelle di marcia; qui il ritmo della vita è dettato dalla natura, dagli animali da nutrire, dai campi da coltivare, dalle stagioni che si alternano con la loro bellezza ed i loro capricci. Uscendo sul grande terrazzo che dà sulla vallata sottostante, vedo i bambini scortare le pecore al pascolo, aiutati dai fedeli cani. Altrove, giovani uomini robusti armati di falce mietono l’erba alta destinata ai covoni delle cascine. Mi sembra di essere tornato sulle mie montagne, nelle alte valli bergamasche, dove negli ampi spazi aperti intorno a piccoli paesini la vita scorre ancora molto simile a cento anni fa.

La mia stanza è molto spartana: due brandine fornite di pesanti coperte (questa notte ne ho avuto davvero bisogno) occupano un ambiente piccolo, molto semplice. La finestra non si chiude bene; il parquet è sconnesso; in fondo alla stanza fanno bella mostra di sé nell’ordine: un lavandino arrugginito dal cui rubinetto non esce niente, una lavatrice adibita a ripostiglio, un fornello abbandonato il cui tubo del gas, prima di scomparire nel soffitto, è stato avvolto in una specie di zanzariera che ogni tanto prende sinistramente vita. All’apparenza il posto può sembrare squallido; nonostante tutto però, questa è stata sicuramente una delle notti in cui ho dormito meglio in tutta la mia vita.

Mi alzo a perlustrare la casa, pensando di essere stato il primo ad alzarmi. Non ci sono molti ospiti: oltre a me, Vano e Mahrit c’è un ragazzo spagnolo, Albert, che è tornato ieri sera da un’escursione di due giorni fino al ghiacciaio. Il gabinetto della casa non ha lo sciacquone: dopo aver fatto i propri bisogni si deve riempire un secchio da una grande tinozza per poi svuotarlo nella tazza. Sposto il coperchio di legno massiccio della tinozza, ma è così pesante che mi sfugge di mano cadendo pesantemente a terra con un frastuono assordante; resto immobile per molti, lunghissimi istanti, aspettandomi che qualcuno arrivi di corsa incazzato per averlo svegliato; ma non succede niente e posso riprendere tranquillo le mie operazioni.

Vado nel salone dove trovo Vano già alzato, che mi invita a giocare a scacchi stracciandomi quasi subito, dopo di che accende il bollitore per preparare il tè: è bene farlo subito, perché qui la corrente elettrica è alternata nel vero senso della parola (ogni tanto c’è e ogni tanto manca). Intanto mi racconta di lui: sua nonna era italiana; era andata in Armenia come missionaria, ma poi, a causa di una delle tante guerre, aveva dovuto scappare in Russia dove era rimasta uccisa. Lui ha vissuto a Tbilisi per un po’ di tempo, dove lavorava come perito chimico.

“Ma il lavoro era duro – mi racconta -, dovevo alzarmi presto alla mattina e tornavo a casa la sera tardi. Così l’ho lasciato”.

Lo capisco bene, perché è la stessa cosa che ho fatto io. Ora Vano vive così, solo come un eremita, in questa grande casa di montagna, dove ogni tanto sua madre viene a trovarlo e gli prepara un po’ di cibo, che lui fa durare per diversi giorni. Ma qui sostano anche tantissimi viaggiatori, interessati soprattutto a scalare le montagne dei dintorni, tanto che questa casa è citata anche sulla Lonely Planet. Per tutto l’anno c’è un continuo viavai di persone.

“Anche d’inverno?” gli chiedo.

“Sì, anche d’inverno. Arrivano turisti dall’Australia, dal Sud Africa e dall’Iran per fare alpinismo; si fermano qui a dormire e a mangiare, poi ripartono. La scorsa primavera c’era così tanta gente che tutto il soggiorno era occupato dai sacchi a pelo”.

Così Vano non è mai realmente solo, e non esita a dividere con chi passa da casa sua tutto ciò che possiede. La casa, il cibo riscaldato e perennemente accatastato sul tavolo, le scodelle, l’acqua della sua fontana, ma soprattutto il calore di una persona aperta e disponibile con tutti. Vano ti accoglie sempre con un sorriso, ti ripete sempre: “Fai come se fossi a casa tua”, non esita ad offrirti quel poco che ha, o ad uscire in piena notte per riempirti la bottiglia con la sua acqua (sempre a torso nudo, naturalmente).

Arrivano altri turisti: sono anche loro israeliani, di ritorno da una tre giorni sulle montagne, con tenda e sacco a pelo. Ma io sto partendo, devo tornare a Tbilisi. Mentre scatto le foto di rito, mi fermo a pensare a quante persone, quante storie sono passate da questa casa rimasta immutata nel tempo da chissà quanti decenni. Appare quasi un paladino del romanticismo contro la frenesia del nostro mondo, delle nostre città, dove tutto succede talmente in fretta che non ci accorgiamo nemmeno che sia successo; dove la mattina è subito seguita dalla sera, e poi dalla mattina successiva; dove le persone che incontri hanno sempre addosso un’espressione stanca, stressata, ostile. Vano, invece, è sempre qui, pronto ad accoglierti con un sorriso senza nemmeno chiederti chi sei; ti da il suo cibo, ti offre il suo letto perché sa che sei stanco ed affamato, e questo basta a fare di te un suo amico. Certe volte mi domando se il progresso della nostra civiltà valga davvero il prezzo che lo paghiamo.

Sfrutto la mattinata per fare una passeggiata nei dintorni; il cielo è azzurrissimo, e le valli intorno al paese offrono lo scenario a magnifiche escursioni. Cammino per un’oretta fino a raggiungere una specie di piscina scavata nella terra, dove alcune famiglie con bambini sono venute a fare il bagno e a prendere il sole. Scatto molte foto, anche se, purtroppo, quando riesco a inquadrare la vetta del Kazbek, spesso nascosta dietro altri monti, alcune nuvole l’hanno già ricoperta impedendomi così di ritrarre uno scenario da favola.

Mi dispiace dover ripartire; potrei restare qui un’intera estate, ma altre tappe mi attendono ed è meglio non restare troppo nello stesso posto, perché  l’abitudine e la noia, presto o tardi, ne rovinerebbero di certo il fascino.

 

Arrivo a Tbilisi nel pomeriggio, dove l’afa mi assale con i suoi invisibili tentacoli, facendomi subito rimpiangere di aver lasciato le montagne tanto fresche ed accoglienti. Il nome stesso della città deriva da tbili, che in un’antica lingua significa caldo, e mai un toponimo è stato più azzeccato. Nella zona si trovano infatti numerosi sorgenti sulfuree, che attirano migliaia di visitatori (non certo me). Secondo la leggenda, la città sarebbe stata fondata nel V secolo dal re Gorgasali, il quale durante una battuta di caccia stava inseguendo un fagiano che, caduto in una di queste sorgenti, fu ritrovato cotto a puntino; secondo un’altra variante, invece, fu un cervo ferito a cadere nella sorgente e ad uscirne miracolosamente guarito. In ogni caso, l’aria è quasi irrespirabile, anche peggio che a Erevan.

Non ho voglia di tornare da Nasi. Sono diversi giorni che non mi lavo, e una volta tanto voglio fare una bella doccia e dormire in un letto decente; così mi dirigo verso un alberghetto che avevo visto già l’altro ieri, all’apparenza pulito ed economico. Quando entro mi accoglie una ragazza carina e gentile, che mi mostra una bella camera spaziosa, con un letto matrimoniale, un tavolino posto di fronte ad un grande divano dall’aspetto accogliente, ed un bel bagno arredato di tutti gli accessori. Solo per dormire mi chiede cinquanta lari, circa venti euro, un prezzo decisamente esagerato (da Vano avevo speso dieci lari compreso il cibo), ma so che gli altri alberghi mi chiederanno ancora di più così, per una volta, decido di accettare. La ragazza mi accompagna in fondo al lungo corridoio, dove mi fa entrare in un cubicolo di pochi metri quadri che dovrebbe essere la reception, ma che in realtà funge da abitacolo/cucina/dormitorio: una ragazzo dorme buttato su un divano, un bambino fa i compiti chino su un piccolo tavolo che gli arriva alle ginocchia, una donna allatta un neonato. Nella confusione generale, la ragazza annota i dati del mio passaporto, quindi mi dà la chiave della stanza. Non ho visto altri ospiti, né penso che ce ne siano. Solo dopo aver pagato scoprirò che c’è solo l’acqua fredda; per un attimo penso di andare a protestare, poi mi convinco che non servirebbe.

 

Oggi devo fare un po’ di commissioni. Prima di tutto devo riparare gli occhiali: una delle piccole viti che tengono le asticelle attaccate alla montatura è andata persa, e sono diversi giorni che continuo a tenere insieme gli occhiali con accrocchi improvvisati; così decido di approfittare della pausa per escogitare un rimedio serio. Seduto sul comodo divano,  strappo un filo di tessuto che penzolava da una maglietta cercando di infilarlo nelle crune della montatura per legarvi la bacchetta; non è così facile come sembra, e mi ci vuole più di un’ora per farlo passare. Alla fine faccio un paio di piccoli nodi, stringendo più che posso per non lasciare troppo gioco. Non è un granché, ma almeno per qualche giorno dovrebbe tenere.

Decido poi di andare alla stazione ferroviaria per studiare l’orario dei treni; ci sono ancora molte mete che voglio raggiungere, e spero di trovare un convoglio utile: preferisco sempre usare le ferrovie quando c’è scelta, e so di un comodo treno notturno che ogni giorno raggiunge Batumi, sul Mar Nero.

La stazione è un edificio enorme, costruito su due piani per dare un’impressione di grandezza del tutto immeritata. Ovunque ci sono mendicanti, soprattutto zingari che tendono la mano verso tutti quelli che passano, tenuti d’occhio da attenti poliziotti in un clima quasi surreale da guardie e ladri. Giro per molto tempo in lungo e in largo alla ricerca del tabellone con gli orari, e quando infine mi siedo esausto su una panchina nel grande atrio della biglietteria scopro che non esiste; l’orario è scritto a mano su alcuni pezzi di carta appiccicati alle vetrate accanto alle casse. Mi rassegno quindi a trascrivere sul mio taccuino i nomi delle città e gli orari per guardarli poi con calma in albergo, imitando al meglio che posso i caratteri georgiani mentre una zingarella non mi lascia in pace con le sue insistenti richieste di denaro. Alla fine riesco a liberarmene, ma sono talmente scoraggiato dalla confusione e dalla mancanza di informazioni che mi rassegno a usare ancora il trasporto su gomma.

 

Mentre cerco un locale per cenare, mi accorgo che in tutta la città non esiste un solo posto dove comprare cartoline. Ci sono molti negozi di souvenir, dove vendono magliette, portachiavi, bambole o plastici della città, ma da nessuna parte sono riuscito a trovare una sola cartolina, nonostante i turisti stranieri siano molto numerosi: ho incontrato perfino dei pisani, ai quali ho tenuto d’occhio la macchina fotografica mentre si ritraevano con l’autoscatto davanti ad una delle principali chiese della città.

Passo la serata in un locale all’aperto, dove bevo una fresca birra georgiana accompagnato da un duo che suona dell’ottimo jazz. In questa città non sono ancora riuscito a togliermi di dosso la sensazione di allarme, a non abbassare mai lo sguardo vigile con cui mi scruto sempre intorno alla ricerca di un pericolo che, oggettivamente, non è mai arrivato. Se prima di partire non avessi letto tutte quelle brutte storie sulla città, avrei considerato Tbilisi un posto tranquillo e sicuro come tutti gli altri, e probabilmente l’avrei apprezzata di più.

Ma la serata, naturalmente, non è ancora finita e non bisogna mai parlare troppo presto. Quando esco dalla stazione della metropolitana vicina al mio albergo, scopro che l’intero isolato è al buio. L’energia elettrica è mancata, facendo precipitare una parte di città nell’oscurità più totale: le finestre di tutti i palazzi sono buie, ma non solo quelle: le insegne dei negozi, i lampioni, perfino i semafori sono completamente spenti, abbandonando a sé stesse le auto e i pedoni che (come me) devono attraversare la strada. Stranamente (o no?), il McDonald’s è l’unico edificio illuminato, isola felice nell’oscurità del quartiere. Cammino evitando il marciapiede per non inciamparci, e stando attento nello stesso tempo a non farmi investire. Quando finalmente raggiungo l’entrata dell’albergo, trovo ad accogliermi una signora (forse la madre della ragazza di prima) che è rimasta ad aspettarmi sui gradini munita di una piccola torcia elettrica. Mentre mi fa strada fino alla mia stanza vorrei chiederle se succede spesso di restare al buio, ma il mio russo non arriva a tanto. Ci fermiamo di fronte alla porta, dove la signora illumina la serratura per aiutarmi a infilarci la chiave; quindi mi domanda: “Dormire?”, e io rispondo meccanicamente di sì. Rifletterò poi, steso sul letto ad ascoltare i rumori del traffico, su quali fossero le alternative a mia disposizione.

 

 

Sighnaghi, 24 agosto 2006 

Sulla Lonely Planet c’è scritto chiaramente: la gente del Caucaso è molto ospitale, ma bisogna stare attenti al pericolo numero uno: la cultura del bere. Oggi ho potuto verificare quanto ciò sia vero.

Sono arrivato a Sighnaghi, antica cittadina nell’est della Georgia, vicino al confine con l’Azerbaijan. Il viaggio da Tbilisi è stato piuttosto scomodo: arrivato alla immensa stazione degli autobus di Tbilisi, dove i mashrutka si confondono tra i banchi del mercato, i venditori ambulanti, i mendicanti, gli strilloni che vendono biglietti per Istanbul, Mosca o Erevan, le auto private che arrivano e partono senza sosta, ho chiesto informazioni a decine di persone che mi hanno indirizzato ogni volta nella direzione da cui arrivavo; mi sono fatto strada tra le ceste, le casse, il bestiame caricato e scaricato dai furgoni; ho arrancato sotto il sole, attraversato strade e piazzali a mio rischio e pericolo finché ho trovato il mashrutka per Signaghi nel momento stesso in cui stava partendo. Subito uno nuovo ha occupato il posto lasciato libero, ma ci sono volute due ore prima che si riempisse. Due ore passate ad aspettare sotto il sole cocente, continuamente importunato da un’anziana signora che, a turno, faceva il giro di tutti i pulmini mostrando un grande piatto ricoperto da fette di ananas ormai rinsecchite.

Sono quasi le undici quando il mashrutka si riempie, ma sono arrivate troppe persone tutte insieme; l’autista non le ha certo mandate via, così ci siamo stretti in tre su due soli sedili. Nonostante siamo seduti sulla fila anteriore, ben visibili di fianco all’autista, nessuna delle tante pattuglie di polizia che vedo lungo la strada ci degna di uno sguardo; mi chiedo cosa succederebbe in Italia nella stessa situazione.

Avevo programmato di fare qui solo una breve sosta, per poi ripartire e passare la notte a Telavi, centro principale di questa regione, il Kakheti, nota soprattutto per le sue zone vinicole. Invece, vista l’ora, la stanchezza dopo il viaggio, e la scarsità di mezzi di trasporto, decido di fermarmi per la notte. Nella piazza principale c’è un piccolo ufficio turistico (il primo che vedo in Georgia), dove mi accolgono molto gentilmente, anche se parlano solo in russo: mi informano sugli orari dei mashrutka, mi danno dei depliant con la piantina del villaggio e mi offrono una tazza di tè. Nel frattempo arriva Lali, una simpatica ragazza che abita in città e che viene spesso chiamata per fare da interprete con i turisti dato che parla inglese; quando le dico che intendo trattenermi per la notte mi trova posto presso una famiglia del paese, e mi accompagna fino a casa loro. Si tratta di una simpatica coppia di mezza età: il marito, Guram, è alto e magro, con capelli grigi e una faccia simpatica; la moglie Natalia, detta Nati, è una donna piccola e bruttina, che mi sembra un po’ sottomessa al marito e si sforza di sorridere mentre apparecchia veloce la tavola per il pranzo. Mi portano subito da mangiare: insalata, pomodori, patate e anche qualche fetta di carne, segno che se la passano bene. Come al solito mi fanno molte domande, e anch’io mi informo su di loro chiedendo dei figli, che vedo ritratti in molte foto e che, come scopro, vivono e lavorano a Tbilisi.

 

Sighnaghi merita senz’altro una visita: è un piccolo paese di circa duemila abitanti, ma costruito sulla sommità di una collina da cui lo sguardo, nelle giornate limpide come oggi, può spaziare su tutta la campagna circostante, fino all’Azerbaijan e alla repubblica russa del Dagestan. Il villaggio è circondato da alte mura, perfettamente intatte, lunghe più di cinque chilometri e intervallate da ventiquattro torri: secondo la gente del posto (ma io credo che possa essere vero) si tratta della seconda muraglia più lunga al mondo dopo quella cinese. Nei tempi antichi, in caso di attacco nemico, la gente dei villaggi vicini si rifugiava in queste torri, ognuna delle quali porta il nome del villaggio cui era stata assegnata.

Faccio il giro completo della città, passando sotto gli archi in muratura e raggiungendo ogni angolo della cinta, da cui si gode di un panorama davvero eccezionale.

Il centro storico, invece, ha tutto un altro stile: le case sembrano quelle dei film western americani, tutte disposte sui due lati di una lunga e stretta strada polverosa. Ai piani alti si aprono ampie balconate color pastello che poggiano su alti porticati di legno, e ci si aspetta che da un momento all’altro compaia sul tetto il pistolero di turno il quale, come in ogni sparatoria che si rispetti, viene immancabilmente colpito per poi cadere rotolando fino a terra.

Mi piacerebbe anche andare a visitare il Monastero di Bodbe, che si trova qui vicino, dove sono conservate le spoglie di Santa Nino. E’ un luogo molto venerato, e so che diverse comitive di turisti, sia georgiani sia stranieri, vi si recano in visita. Il problema è che si sta facendo sera, e non mi è chiaro quanto sia lontano. La LP dice due chilometri; i depliant turistici che mi hanno dato all’arrivo parlano di cinque; Guram, a cui ho chiesto prima, mi ha detto dieci. Sono stanco dopo aver camminato diverse ore sotto il sole, e penso che rimanderò a domani. Compro dell’acqua fresca e dei biscotti in un negozietto, e mi siedo a prendere fiato su una panchina nel grande parco costruito nel centro della piazza principale, dove posso godermi un po’ d’ombra aspettando l’ora di cena, e pensare alle tappe successive. Le alternative per domani sono di andare a Telavi o tornare a Tbilisi per poi proseguire verso l’ovest del paese, eventualmente dopo aver visitato il monastero. Tra l’altro Lali, prima di lasciarmi, mi ha avvisato che stasera i miei ospiti andranno ad una festa di paese qui vicino, e io non potrò rifiutarmi; quindi molto dipenderà dall’esito della serata.

La sera, aspettando che anche Guram torni dal lavoro, mi siedo nel soggiorno con Nati, che guarda con intenso coinvolgimento una telenovela brasiliana, in cui la protagonista sembra essere una signora di mezza età che organizza intrighi a non finire. Come da noi, ogni volta che un situazione raggiunge il pathos viene trasmessa la pubblicità, e Natalia si scoccia vistosamente per l’interruzione. E’ la classica donna di casa, che si occupa dei lavori domestici regolando i propri orari in base a quelli del marito, che lavora e porta a casa l’unico stipendio.

A cena viene il bello. La tavola è stata preparata all’aperto, su una terrazza da cui si vede tutta la valle. Ci sono molti piatti, anche di carne, e vedo con piacere due fresche bottiglie di birra; subito dopo, però, Guram fa comparire dal nulla un’ampolla dall’aspetto esotico: secondo lui contiene un liquore molto forte che noi italiani chiamiamo “grappa”. Dubito dell’autenticità del prodotto, e comincio ad insospettirmi. Per noi due, oltre ai bicchieri per la birra, ci sono due bicchierini mignon che l’uomo subito riempie di “grappa”, quindi subito vuota il suo tutto d’un fiato invitandomi a fare altrettanto. Essendo ancora a stomaco vuoto, decido di assaggiarne solo un goccio, e lo sguardo di Guram diventa scuro quando si accorge che il mio bicchiere è ancora pieno. So bene quanto nei paesi caucasici l’ospitalità sia sacra, e quanto sia offensivo verso il padrone di casa rifiutare ciò che ci viene offerto; d’altra parte non voglio passare la notte sul cesso dopo una gara a “bevi di più” (che tra l’altro sarebbe sicuramente impari). Così decido di respingere gentilmente, ma fermamente, ogni sua insistenza a darci dentro. Per tutta la durata della cena l’uomo continua a riempirsi il bicchiere, proponendo un brindisi dopo l’altro: a mia madre, agli amici che mi aspettano a casa, alla fidanzata che un giorno spero di trovare. Ogni volta, regolarmente, svuota il bicchiere tutto d’un fiato, mentre io mi limito a fingere o al limite ad assaggiare un goccio, giusto per farlo contento. Dopo il terzo bicchiere la voce di Guram si fa impastata; dopo il settimo perdo il conto, mentre Natalia comincia a fissarlo con uno sguardo che non promette niente di buono. Intanto, dopo aver ascoltato allo stereo “Caruso”, cantata da Andrea Bocelli, il mio ospite mette un CD di musica classica, sfidandomi a riconoscere i brani. Ma la gara, tra me che non sono certo un intenditore e lui che ad ogni incipit cerca di richiamare al cervello brandelli di lucidità, perde subito di significato. Alla fine esco sconfitto, ma ho portato a termine il mio intento di non bere.

Per fortuna sembra che la fantomatica festa di paese di cui mi aveva parlato Lali non si faccia più. In compenso, dopo mangiato Guram mi invita a fare una passeggiata per il paese, e io decido di seguirlo con prudenza; la mia curiosità di vedere persone è sempre insaziabile, e in casa poi non saprei proprio cosa fare. Prima di uscire però, lo sento litigare animatamente con la moglie: non capisco una parola, ma non mi è difficile immaginare i motivi della lite.

La strada, appena usciti dal cortile, si fa buia e dissestata, e Guram, che a mala pena si regge in piedi, mi prende a braccetto indicandomi uno per uno i vari edifici e spiegandomene la storia col suo alito non esattamente profumato. La piazza è una piacevole sorpresa: tutti i palazzi attorno sono illuminati, ed è piena di giovani che passeggiano nel piccolo parco ricavato all’interno. Questa è una grande differenza con l’Armenia, dove, a parte Erevan, le altre città sembravano disabitate; in questo semplice paese di campagna, privo di locali o di qualsiasi attività ricreativa, vedo una quantità incredibile di ragazzi e ragazze che cercano di dare un senso alla serata, chiacchierando sulle panchine, passeggiando mano nella mano, e creando una mini vita notturna semplice ma molto allegra e coinvolgente. Su un lato del parco c’è un grande muro dove è stata incisa una lunga serie di nomi. Guram mi spiega che sono i nomi delle 4.301 persone originarie della provincia di Sighnaghi che sono state deportare da Stalin in quanto dissidenti o presunti tali. A quanto pare il grande dittatore, che pure era nato a Gori, qui in Georgia, non fece particolari favoritismi nemmeno per i suoi conterranei. Più avanti incontro un ragazzo turco che avevo già conosciuto alcuni giorni prima a Tbilisi, nella casa di Nasi. E’ in compagnia di due belle ragazze, due sorelle presso cui alloggia. Una delle due parla un po’ di italiano, e  si ferma a chiacchierare con me della sua città, lodandone i monumenti e la storia. Si offre anche di accompagnarmi l’indomani a vedere il monastero di Bodbe, dove tra l’altro il giorno prima aveva trovato una comitiva di italiani. Io però ho già deciso di ripartire, così il trio si congeda prima che io riesca a chiedere al turco come ha fatto a trovare una simile sistemazione, mentre io sono stato appioppato a questo vecchio ubriacone. Mentre ci rifletto, ecco che Guram prontamente mi afferra per un braccio e mi trascina via, chiedendomi se voglio andare a bere qualcosa con lui. Rifiuto cercando di essere il più gentile possibile, e invitandolo a dirigerci verso casa. Sulla via del ritorno, ci imbattiamo in un gruppo di uomini anziani uno dei quali, visibilmente alticcio, sta tentando di cantare a squarciagola O Sole Mio, senza azzeccare neanche una parola. Mentre trascino via il mio accompagnatore, che già mi invitava a sedermi con loro, arriva Nati, che squadra il marito con un’occhiataccia di quelle che solo le mogli furenti sanno scoccare, per poi proseguire a testa alta nella direzione opposta. Comincio a chiedermi se la Georgia sia un paese di ubriaconi; forse no, ma se l’unico svago dopo il lavoro è quello di intontirsi con l’alcol, temo che per le ragazze di Sighnaghi ci sia un futuro difficile dopo il matrimonio.

 

Borjomi, 26 agosto 2006 

Borjomi rappresenta per la Georgia quello che San Pellegrino rappresenta per l’Italia: il paese dell’acqua minerale. Nei supermercati di tutta la nazione si trovano bottiglie d’acqua di marca Borjomi: quella naturale, di qualità discreta, e quella gassata, ripugnante col suo fortissimo sapore di zolfo.

Sono giunto qui ieri sera dopo un lunghissimo viaggio da Sighnaghi, cambiando mashrutka a Tbilisi. Durante il tragitto ho osservato con dispiacere l’ennesimo segno di incuria ambientale. Spesso, seduto sul pulmino, sentivo degli scoppi, dei suoni sordi simili a botti, che le prime volte mi avevano fatto temere una foratura. In realtà questi scoppi erano troppo frequenti per essere dei guasti meccanici, e infatti dopo un po’ ho capito di cosa si trattava: bottiglie di plastica vuote, che i passeggeri buttano tranquillamente fuori dal finestrino dopo averne bevuto il contenuto. Giorno dopo giorno, mashrutka dopo mashrutka, i bordi delle strade si riempiono di questi rifiuti abbandonati, che inevitabilmente finiscono sotto le route degli automezzi con un continuo stillicidio. PUM! PUM! PUM! è la incessante colonna sonora di ogni spostamento, suonata da un’orchestra di centinaia di bottiglie che esplodono sotto le route. Nessuno, però, sembra preoccuparsene, e anche i passeggeri del mio pulmino, dopo essersi scolati la coca-cola o l’acqua minerale di turno, abbassano il finestrino e buttano fuori la bottiglia, come se la strada non fosse di nessuno, e quindi tutti fossero autorizzati a sporcarla quanto vogliono; senza contare poi il rischio di incidenti che aumenta esponenzialmente con tutti questi ostacoli, i quali magari ogni tanto qualche gomma la fanno scoppiare davvero. Anche qui nel Caucaso, come in quasi tutti i paesi del mondo, le bottiglie di plastica rappresentano un problema ben lungi dall’essere risolto, o anche sono affrontato seriamente.

 

Questa cittadina è molto rinomata tra i georgiani, per i quali è una meta di villeggiatura tra le più gettonate; non soltanto per le sorgenti di acqua e per i centri termali, ma anche per il parco nazionale che si estende sulle montagne dei dintorni. Borjomi ricorda (a parte il mare, che ovviamente non c’è) le classiche località turistiche della riviera romagnola, costruite intorno ad una lunghissima strada su cui affacciano due ali di casette basse, molte delle quali adattate ad alberghetti o con il cartello “camere in affitto” esposto all’esterno; qualche negozietto di souvenir, un supermercato, e di fronte alla stazione dei pullman vedo perfino un casinò in bella mostra, affacciato sulla piazza principale.

La LP consiglia un buon albergo molto economico, ma purtroppo non c’è la cartina della città, e orientarsi è come sempre difficile perché gli abitanti conoscono i nomi vecchi delle strade, mentre le indicazioni sono fornite usando quelli nuovi e quindi sono del tutto inutili. Quando chiedo a una passante dove si trovi uliza Kostava (la strada dell’albergo che cerco), mi fissa allibita come se le avessi domandato la strada per Marte. Per fortuna incontro Sasha, un giovane del posto che parla francese, avendo vissuto per alcuni anni nei pressi di Parigi, e che mi offre un passaggio sulla sua auto. Non sa dove si trovi l’albergo, però comincia a chiedere in giro fin quando mi porta di fronte all’ingresso. Naturalmente scopro che si trova a un centinaio di metri dal punto di partenza, ma in questa cittadina collinare, con le stradine che sono tutte un saliscendi e priva di ogni segnaletica, orientarsi è veramente difficile. Non ho dubbi sul fatto che Sasha non mi chiederà soldi per il passaggio, e infatti si accontenta di una stretta di mano.

L’albergo, come tutti quelli di Borjomi, è un ex-sanatorio. In epoca zarista prima, e in quella sovietica poi, la città è sempre stata meta di villeggianti, soprattutto ricchi esponenti dell’aristocrazia russa (o, più tardi, del partito comunista) ed ha conosciuto un periodo molto florido; oggi è un po’ depressa, ma molti alberghi funzionano ancora, e sono gestiti nello stile dei vecchi impianti termali. Ad ogni piano un’anziana babushka ti accompagna alla tua stanza, ti viene a prendere quando ne esci, ti informa sugli orari di funzionamento delle docce e della sauna. Infatti, dopo pochi minuti che sono entrato in possesso della mia camera, sento bussare alla porta; apro e vedo entrare una donna sulla quarantina, vestita come una cameriera, che scopro essere una delle proprietarie. Mi chiede quando partirò, e mi informa che, ogni volta che lascio l’albergo, devo consegnarle la chiave della stanza. Le chiedo se abbia una piantina del paese, e lei scompare verso la reception per tornare poco dopo con un depliant che dovrò riconsegnare alla mia partenza. I modi decisi, lo sguardo serio ed i corti capelli rosso fuoco la rendono molto affascinante; sul momento ricambio i suoi modi spicci, ma dentro di me spero di rivederla più avanti.

Nonostante il tempo si stia mettendo al peggio, vado a visitare il Parco delle Acque Minerali, dove passeggio tra le sorgenti di acqua calda mentre premurose addette mi riempiono la tazza che mi è stata fornita all’ingresso. Qui si può camminare per ore, lungo i sentieri acciottolati che si inerpicano su per le colline, tra i gruppi di ragazzi, le famiglie coi bambini, gli anziani che passano qui le serate, comprando da mangiare nei numerosi chioschi di dolci e di spiedini e sedendosi ai numerosi tavolini, curatissimi nella loro pulizia ed eleganza. Mi ricorda un po’ la località di Karlovy Vary, in Boemia, anch’essa nota per le sorgenti d’acqua che sgorga calda (fino a 70 gradi) dai muri o dal marciapiede, e che si può raccogliere in una tazza per poi berla con tutta tranquillità. Vorrei stare qui più a lungo, ma il temporale che temevo arriva e mi costringe a tornare di corsa in albergo, dove i miei affannosi tentativi di chiudere una finestra rotta non  impediscono al pavimento di trasformarsi in un lago.

In albergo ritrovo anche Albert, il ragazzo spagnolo che avevo conosciuto a casa di Vano, a cui è stata assegnata la camera in parte alla mia. Ogni tanto capita di rivedere le stesse persone anche senza darsi appuntamento: i viaggiatori indipendenti usano quasi sempre la Lonely Planet, e di conseguenza vanno a visitare gli stessi luoghi, dormono negli stessi alberghi, mangiano negli stessi ristoranti, e si finisce col reincontrarsi sempre qua e là. Troviamo un piccolo ristorante dove mangiamo insieme, e mi faccio dire qualcosa di lui. Viene da Barcellona, dove studia architettura e si mantiene gli studi dipingendo dei semplici quadri che poi rivende ai turisti. Sta viaggiando nel Caucaso da una settimana, e tra pochi giorni ripartirà alla volta della Turchia dove lo aspetta il volo verso casa. Vuole anche fermarsi a Vardzia, un’imponente città rupestre risalente al XII secolo composta da decine di case ricavate nella roccia, alcune anche di diversi piani. Sembra che nel suo periodo di massimo splendore ospitasse cinquantamila abitanti, e vi fossero anche una caserma ed un monastero, tutti ricavati in grotte scavate nella nuda roccia. Ne ho sentito parlare, ma non so se ci andrò perché si tratta di un posto molto isolato, lontano dai percorsi che vorrei seguire. Invece mi faccio raccontare di Batumi, la mia prossima meta, dove Albert è già stato e che mi conferma essere davvero un bel posto. Questa Georgia mi sorprende ogni giorno di più, e le difficoltà che i viaggiatori incontrano in questo paese così poco organizzato per accogliere turisti sono davvero ripagate dalla vista di meraviglie della natura e dell’uomo. Anche la cena è squisita: uno shashlik, succulento spiedino di carne e verdure grigliate in un letto di cipolle, straborda dal mio piatto mentre il mio amico ha ordinato i khinkali, delle squisite polpette ripiene di carne, formaggio, uova e qualsiasi altro ingrediente che possa rimpinzare uno stomaco a dovere. Alla fine della cena, quando chiediamo il conto, non riesco a credere ai miei occhi: la padrona sta facendo i conti usando un abaco! Per chi non lo sapesse si tratta di una piccola tavoletta con un pallottoliere, che veniva utilizzata dai nostri antenati quando le calcolatrici non esistevano. La donna usa l’attrezzo con disinvoltura, spostando rapidamente a destra e a sinistra le piccole palline e riportando su un pezzo di carta i risultati parziali, seguendo movimenti che da noi sono andati dimenticati nella notte dei tempi. Resto a fissare la signora mentre usa quello strumento tanto antico con la stessa bravura con cui un ragazzino italiano saprebbe inviare foto digitali con un telefonino… Dopo alcuni minuti, scarabocchia il totale su un pezzo di carta che ci porge con gentilezza; mentre paghiamo mi sorprendo a pensare a come nella vita non si finisca mai di stupirsi.

 

* * *

 

Oggi ho visitato il Parco Nazionale Borjomi-Kharagauli, una riserva protetta che occupa l’uno per cento dell’intero territorio nazionale. Il Parco comprende una decina di sentieri ben segnalati che si snodano attraverso le foreste della zona, dove è possibile incontrare animali selvatici che vivono in assoluta libertà: scoiattoli, castori, ma anche cervi, stambecchi e perfino piccoli orsi. I sentieri più lunghi si arrampicano per diversi chilometri fino a raggiungere rifugi di montagna costruiti fin sopra i tremila metri di quota, dove, prenotando in anticipo, è possibile mangiare e dormire. Io mi accontento di un semplice giro sul sentiero numero uno, quello più breve, che partendo dagli uffici centrali del parco, costruiti qui a Borjomi, compie un giro ad anello percorribile in un paio d’ore. Il percorso sale in cima ad una collina, da cui si gode di un bellissimo panorama dell’intera regione, con la piccola città chiusa tra le montagne circostanti, ed il fiume che la taglia in due serpeggiando sinuoso sotto i numerosi ponti. Il tracciato è ben segnalato, e spesso incontro dei cartelli multilingue che descrivono la fauna e la flora locale; ogni tanto si vedono anche delle panchine, o addirittura dei tavolini da pic-nic con annesso cestino dei rifiuti. E’ un peccato, però, che tutto questo patrimonio naturale sia poco utilizzato; in tutto il mio giro, durato diverse ore, ho incontrato solo un’anziana signora a passeggio con la nipotina, che mi ha indicato un sentiero secondario diretto ad una piccola cappella costruita tra gli alberi; per il resto, ho camminato in solitudine nel silenzio più assoluto.

Verso le undici, quando il mio giro è finito e sto uscendo dal parco, incontro Albert che, fatta scorta di acqua e cibo, sta entrando negli uffici a chiedere informazioni. Lo accompagno; troviamo un’impiegata molto gentile che, parlando inglese, ci dà una cartina molto dettagliata dei percorsi e ci spiega come raggiungerli. Il mio amico vuole percorrere il sentiero numero quattro, uno dei più lunghi, raggiungere il rifugio al centro del parco e poi ritornare in serata. Scopriamo però che il sentiero non comincia a Borjomi, ma in un paese ad alcuni chilometri di distanza, quindi Albert dovrà prima trovare un mezzo che lo porti lì, quindi cercare l’inizio del percorso, raggiungere il rifugio, tornare indietro per un altro sentiero (si può fare un giro ad anello), quindi trovare un mezzo per ritornare a Borjomi. Questi imprevisti complicano i suoi piani, ma non si lascia scoraggiare e, zaino in spalla, mi dà l’arrivederci e comincia a camminare lungo la strada, sperando in qualche mashrutka di passaggio.  

Nel pomeriggio, dopo il solito improvviso acquazzone (penso ad Albert che se lo sarà sorbito tutto), devo prelevare un po’ di soldi. Ci sono voluti quindici giorni, ma alla fine i 350 euro che avevo con me quando sono partito dall’Italia sono terminati, e ho bisogno di contanti. Entro in una banca, dove trovo uno sportello che fornisce contanti dietro presentazione di una carta di credito. Dall’altra parte del vetro, una vecchietta dall’aspetto arcigno mi guarda male, poi si mette a fare altro. Deposito la mia carta nel carrello, ma quando lo faccio scorrere dall’altro lato del separè la vecchia prima prende in mano la carta, esaminandola con disprezzo, poi la rimette nel vassoio spingendolo verso di me con un secco gesto di disprezzo, quasi di odio, blaterando alcune parole che non capisco. Rimango un attimo perplesso, mentre un impiegato di passaggio le chiede spiegazioni, quindi mi dice che l’orario di chiusura è passato da quattro minuti. Questo certo non giustifica la maleducazione dell’impiegata! Rifletto, comunque, su come vivano gli abitanti di questo paese, che sono soggetti a questo modo di fare ogni giorno della loro vita. D’altronde i cittadini che abitano in un paese comunista, ogni volta che entrano in un ufficio statale (banche comprese), si trovano di fronte a tristi impiegati che lavorano poco e male, poiché il loro magro stipendio non dipende in alcun modo dal loro rendimento.

Trovo una seconda banca, non lontano dalla prima, dotata di uno sportello bancomat all’esterno. Mi avvicino, ma quando sto per inserire la carta sento picchiettare sul vetro, e vedo un signore che, dall’interno della banca, mi fa cenno di no con un dito spiegandomi poi, sempre a gesti, di ritornare alle quattro.

Non avendo altro da fare decido di fare un giretto per il paese. Lungo il cammino assisto alla scena sicuramente più triste e deprimente di tutto il mio viaggio: alcune mucche “randagie” hanno vagato senza padrone né guida per la strada, fino a raggiungere un cassonetto dei rifiuti dal quale stanno “brucando” tutto ciò che trovano. Coi loro lunghi musi sollevano i sacchetti di immondizia dal cassone per poi rovesciarli sull’asfalto e mangiarne il contenuto. Sono passato diverse volte da quella strada, tra l’altro una delle principali, e ogni volta ho ritrovato le mucche sempre lì a mangiare. Nessuno, né i passanti né i poliziotti sembrano interessarsene minimamente; e davvero non so se provare più pena per quei poveri bovini abbandonati a loro stessi, e ridotti a cibarsi di rifiuti pur di sopravvivere, o per un paese che sprofonda ogni giorno di più in un degrado ambientale che prima o poi darà i suoi frutti amari a tutti coloro che lo popolano.

 

Alle quattro ritorno in banca. Non faccio nemmeno in tempo a salire i gradini di fronte all’ingresso, che l’omino di prima mi si fa incontro, facendomi nuovamente segno di no e dicendomi di tornare alle cinque. Ho capito che sarà meglio prendersela comoda, così faccio ritorno in albergo.

Scopro che Albert è stato spostato nella mia stanza, perché la sua era già prenotata e deve liberarla. Io non ho problemi: nella mia c’è un letto singolo, che uso io, più uno matrimoniale che lascio tutto a lui. Inoltre, è sempre piacevole avere un compagno di camera con cui scambiare quattro chiacchiere. Lo spagnolo, invece, non è tanto contento: non tanto per la nuova sistemazione ma perché, dopo essere tornato fradicio dalla sua camminata (ha preso in pieno il temporale), ha scoperto che l’orario della doccia è terminato e che dovrà aspettare due ore prima di potersi lavare.

 Scendo nella piccola cucina del seminterrato, nel cui frigorifero ho lasciato un po’ di cibarie che avevo comprato ieri. Un uomo sulla quarantina si sta preparando da mangiare sul grande tavolo, e mi invita a fargli compagnia. Si chiama Anton e viene dallo Svaneti, la regione più remota, arretrata e affascinante della Georgia. Non ci sono strade che la raggiungono, ma soltanto mulattiere; i suoi piccoli villaggi distano ore e ore di fuoristrada l’uno dall’altro, e sono caratterizzati da alte torri di guardia, costruite interamente in pietra, la cui facciata è interrotta solo da qualche feritoia costruita subito sotto il tetto. Ce n’è una per ogni casa; sono usate per avvistare i nemici e per offrire rifugio agli abitanti in caso di attacco nemico, oppure per ripararsi in caso di faide tribali, avvenimenti molto comuni in questa terra priva di leggi scritte, dove la vita è regolata da un codice d’onore basato sui legami di sangue e sulla giustizia sommaria. Anche Ella Maillart, famosa viaggiatrice del Novecento, ci era passata in una delle sue interminabili peregrinazioni, descrivendone gli abitanti come poverissimi ma estremamente ospitali. Chiedo al mio nuovo amico di parlarmene, perché le informazioni che possiedo sono molto scarse. Gli uomini vanno a caccia calzando i caratteristici mocassini, che vengono riempiti d’erba per attutire il rumore dei passi; le donne, vestite sempre di nero, si occupano della casa con grande dignità, e cuociono la carne procacciata dai mariti. Molte case però non hanno il camino, e il fumo esce passando tra le assi di legno e le pietre, dando l’impressione, guardando dall’esterno, che l’intera casa stia andando a fuoco.

Mi piacerebbe molto visitare lo Svaneti, ma la sua posizione tanto remota e la presenza del banditismo mi scoraggiano. Mentre racconta, Anton stappa un fiasco di vino e ne riempie due grossi bicchieri da acqua, uno per me e uno per lui; come al solito, scola il suo tutto d’un fiato invitandomi a fare altrettanto. Ne bevo alcuni sorsi, mangiandoci sopra alcune fette del buon formaggio che Anton mi offre, insieme a pezzi d’anguria. L’uomo lavora al parco delle acque minerali, dove è una specie di factotum: guardiano, addetto alle pulizie, gestore della distribuzione d’acqua, giostraio (?). Parla anche un po’ di italiano, perché certi suoi zii vivono in Sicilia e ogni tanto lo vengono a trovare, portandogli dei dolci e altri prodotti tipici. Intanto il suo bicchiere continua a riempirsi e a svuotarsi ritmicamente, e, dietro le sue insistenze, il mio lo imita anche se ad un ritmo più blando. Comincio a temere che dovremo finire l’intero fiasco per fare contento Anton, quando finalmente l’uomo lo richiude e si alza per andare a lavorare. Ne ha bevuto da solo una buona metà, ma sembra che non gli abbia fatto alcun effetto. Raccoglie le sue cose, mi saluta e comincia a salire le scale senza la minima esitazione.

Quando mi volto vedo la signora di ieri, quella dai capelli rossi, che, senza che me ne accorgessi, è scesa in cucina a lavare i piatti. Qualcosa si risveglia dentro di me; mi offro di aiutarla, e cominciamo a parlare. Si chiama Irina, è di chiare origini russe e vive a Borjomi da sempre, dove fin da bambina si è occupata di gestire sanatori. Si ricorda di quando gli alti dirigenti del PCUS venivano a soggiornare negli alberghi di lusso, e lei era incaricata di far entrare e uscire di nascosto le altissime bionde che andavano a visitare le stanze ogni notte. Mi domando se anche lei sia stata una prostituta, anche se non ne ha affatto l’aria. Questi pensieri cominciano a farmi girare la testa: non so se sia conseguenza del vino, o di quello sguardo così severo ed allo stesso tempo eccitante, o di quei capelli che fanno venir voglia di accarezzarli per ore, o il fatto che mi piacciano le donne più grandi di me, così mature, così esperte…

 mentre asciuga gli ultimi piatti, fingendo di aiutarla chiudo le mie mani sulle sue… lei mi guarda, sorpresa, io la fisso intensamente; le tolgo dolcemente di mano il piatto poggiandolo nel lavello, le accarezzo il viso meraviglioso, la sua freddezza si scioglie, io la stringo e avvicino le mie labbra alle sue…

 

Batumi, 27 agosto 2006 

Quando viaggio da solo, cioè quasi sempre, ci sono due cose che mi spaventano: gli incidenti d’auto e le malattie degli organi interni; e in questo viaggio mi sono capitate entrambe. Ma andiamo con ordine.

La mia ultima tappa in Georgia è Batumi, nota località turistica sul mar Nero, molto frequentata dai giovani. Mi fermerò qui qualche giorno, per poi proseguire in Turchia.

A Borjomi trovo subito il mashrutka giusto ma, quando infilo lo zaino nel solito scompartimento sotto i sedili posteriori, l’autista me lo fa togliere e lo carica sul tetto. Questa nuova posizione non mi convince molto: il bagaglio non è assicurato al portapacchi, e col suo volume ha tutta l’aria di cadere giù alla prima curva; come già altre volte, devo sperare che l’autista sappia quello che fa (forse da noi siamo semplicemente abituati troppo bene). Quando partiamo, fortunatamente, il portapacchi sul tetto è strapieno di valigie e sacchi vari, tutti ben legati ed assicurati (almeno spero). Non mi sento molto tranquillo, ma non posso ancora immaginare che questa sistemazione sarebbe stata invece la salvezza per il mio zaino!

Il mashrutka parte per un viaggio che, nelle previsioni, dovrebbe durare circa quattro ore. Come sempre procediamo a velocità folle zigzagando tra gli altri veicoli e facendo strage delle solite bottigliette di plastica. Percorriamo il principale asse stradale del paese, la direttrice Tbilisi-Kutaisi-Batumi, che sulle carte stradali sembra una grande autostrada; invece si tratta di una normalissima strada a due corsie, dove il pulmino fa un continuo slalom fra tir stracarichi di qualsiasi cosa, carretti trainati da cavalli, buche che compaiono all’improvviso nel manto stradale, e tutto evitando di scontrarsi con i mezzi che arrivano dall’altra direzione, i quali ovviamente compiono le nostre stesse spericolate manovre. Dopo un paio d’ore il mashrutka deve svoltare a sinistra, dove una stradina conduce ad uno spiazzo con annesso ristorante. Dovendo dare la precedenza alle auto che arrivano dall’altra parte, il pulmino si ferma in mezzo alla strada, in un punto che non mi piace per niente: siamo nel bel mezzo di un lunghissimo rettilineo, dove tutti vanno sparati come pazzi, e ho una brutta sensazione. Dopo pochi istanti sento dietro di noi l’inconfondibile stridio di una frenata disperata: qualcuno ci sta venendo addosso. Mi faccio piccolo piccolo, staccando la schiena dal sedile e aggrappandomi a quello di fronte a me, nella speranza di attutire l’urto; per alcuni, interminabili, secondi prego che tutto vada bene, finché arriva l’inevitabile schianto, così forte che il mashrutka, carico di quindici persone e relativi bagagli, viene proiettato in avanti di un paio di metri fin nella corsia opposta, dove, per grazia di Dio, non stava arrivando nessuno. Mentre tutti gridano spaventati, l’autista riesce a guidare il mezzo fuori dallo stradone, parcheggiando in un prato. Io e gli altri passeggeri ci guardiamo in faccia, pallidissimi: siamo tutti interi, anche se una donna grassa, seduta sull’ultima fila (quella colpita direttamente) si sente male dallo spavento e viene sollevata di forza per farla uscire dal veicolo. Uno alla volta scendiamo tutti, facendoci ognuno un sommario check-up. Sul momento sto bene, non ho alcun dolore, ma nutro un certo timore per i prossimi giorni; spesso i postumi degli incidenti stradali si avvertono non subito, ma a distanza di alcuni giorni. Sto pensando che forse a Batumi farò bene a farmi visitare in un ospedale, ammesso che ce ne siano di affidabili: mi converrà chiamare l’assicurazione in Italia e sentire cosa mi dicono. Per ora, comunque, l’importante è che stiamo tutti bene; lo stesso vale per i nostri tamponatori, che incredibilmente scendono illesi da un’auto completamente distrutta, e subito cominciano a litigare furiosamente col nostro autista. Io non capisco una parola, e sinceramente non vedo quali ragioni possano accampare a loro favore, ma assisto ad una lite furiosa che temo possa degenerare in una scazzottata. Gli autisti degli altri mashrutka, che hanno assistito alla scena, arrivano a dar man forte al nostro, e la discussione diventa sempre più animata finché arriva un’auto della polizia a sedare gli animi. Mentre il guidatore compila le carte burocratiche, gli altri tizi spingono quel che resta della loro auto verso una carrozzeria nei paraggi.

Nel frattempo io e gli altri passeggeri controlliamo i danni al nostro veicolo: niente di irreparabile, soltanto una gran botta nel portellone posteriore, proprio nel punto in cui avevo inizialmente sistemato il mio zaino… come diceva sempre mio padre, non bisogna mai opporsi al destino quando sembra schierarsi contro di te (se ne convinse quando da giovane, durante la guerra, aveva cercato di imbarcarsi clandestinamente su una nave diretta in Italia ma per ben due volte era stato scoperto e rispedito a terra; deluso ed arrabbiato, aveva saputo poi che la nave era stata silurata durante il viaggio e che tutti quelli a bordo erano morti).

Dopo oltre due ore di sosta, ripartiamo. Mancano alcuni passeggeri, come la donna che era stata male, che si sono fatti venire a prendere da parenti o amici; resto io e un gruppo di ragazzi diretti sulla costa del mar Nero. Arriviamo a Kobuleti, ridente località di villeggiatura dove per la prima volta nel mio viaggio vedo il mare, a pomeriggio inoltrato. La strada corre parallela alla costa, ed i trenta chilometri che la separano da Batumi sono un continua sequenza di basse casette da spiaggia, ognuna col proprio giardinetto, le sedie a sdraio, i costumi da bagno stesi ad asciugare al sole. Ovunque passeggiano ragazzi in costume, bambini con i classici ciambelloni a forma di anatra, anziani con la pelle abbronzata su cui contrastano molto i candidi capelli.

In ogni paese qualcuno scende, andando a raggiungere amici o parenti che hanno la casa al mare, e quando il mashrutka arriva alla sua destinazione finale io sono rimasto l’unico passeggero. Quando scendo, mi ritrovo in una grande piazza il cui traffico caotico quasi intimidisce. Ma, non appena mi volto, il mar Nero (che, a dispetto del nome, qui è di un blu molto acceso) mi appare in tutto il suo fascino, costeggiato da un elegante lungomare arredato da panchine, lampioni, siepi, tutti ben tenuti e curati. La passeggiata finisce alla capitaneria del porto, un elegante edifico bianco col tetto blu, la cui entrata è nascosta dietro un altissimo porticato che rivela alte finestre retrostanti. Più a sud, le alte cime delle ultime propaggini delle catene caucasiche incorniciano più che degnamente lo scenario con loro vette immerse nelle nuvole o nella nebbia.

Trovo un piccolo albergo dove mi danno una stanza con l’aria condizionata, una cosa che io non amo molto ma che con questa afa è davvero la benvenuta. C’è anche una doccia funzionante, mentre nella grande hall un bar ed un televisore sono a disposizione degli ospiti (non molti, peraltro).

 

In seguito alla secessione dell’Abkazia, la città di Batumi, ufficialmente capitale della repubblica dell’Adjara, è diventata la principale località balneare della Georgia. Per noi cittadini del mondo questi confini artificiali e queste beghe infantili non hanno alcuna importanza; ciò che conta sono il mare, il sole (che, a dirla tutta, va e viene da dietro le nuvole), i bar all’aperto e le ragazze in costume. Ogni giorno mi convinco che la Georgia sia molto più interessante dell’Armenia, anche se le armene sono sicuramente più carine.

La cosa che più mi colpisce è la quantità di giovani che si vedono in giro, giorno e notte. Il lungomare è in realtà una scacchiera di stradine parallele e perpendicolari alla spiaggia, tutte rigorosamente pedonali, sulle quali di sera si riversa una quantità incredibile di persone: molte famiglie, ma soprattutto ragazzi e ragazze che passeggiano magari con un gelato in mano, ascoltando la musica che proviene dai locali all’aperto, dove alcuni complessi suonano senza interruzione. Le piazze sono gremite di gente all’inverosimile, ovunque ci sono chioschi di panini, o semplici locali dove si possono mangiare spiedini e khoravats. Passeggio pigramente lasciandomi trascinare dalla folla, finché raggiungo un immenso parco a sud della città, le cui luci si vedevano già da lontano, e nel cui centro gira una grande ruota panoramica, tutta illuminata a giorno. E’ bello vedere così tanta gente in giro, dopo le desolanti serate armene. Ritorno verso il porto per non perdere l’orientamento, quindi decido di lasciarmi alle spalle luci e musica e mi dirigo verso la spiaggia, camminando sulla sabbia finissima e sdraiandomi ad un paio di metri dal mare. Resto a lungo disteso nell’oscurità, completamente rilassato, ascoltando il suono delle onde che muoiono sulla riva… lascio scorrere liberamente i pensieri, mi sento parte del mondo, della natura, di una semplicità disarmante per il suo fascino. Di fronte a me, a mille chilometri di distanza, ci sono le spiagge della Bulgaria; forse anche là in questo momento c’è qualcuno che sta meditando sulle stesse cose. Penso a Daniela, la mia amica siciliana verso cui provo da sempre sentimenti contrastanti: in certi momenti mi sento fatalmente attratto, ma un attimo dopo la detesto con tutti i miei sensi. Lei ama moltissimo il mare, e se sapesse dove sono mi invidierebbe da morire; so che sta ancora lavorando (in Italia ci sono due ore in meno) così cedo alla tentazione di mandarle un messaggio fintamente malinconico, giusto per farle un po’ rabbia.

Dopo un po’ mi rialzo e mi rituffo nella calca. Mi torna alla mente un’estate di molti anni fa, l’estate dopo l’esame di maturità, quella in cui ti senti libero di fare tutto quello che ti passa per la testa. Ero a Rimini con alcuni amici, e la sera passeggiavamo per viale Regina Margherita dove c’era la stessa folla, la stessa vita notturna. Solo fino al quindici agosto, però, perché ricordo benissimo come la sera del giorno sedici le strade si fossero improvvisamente svuotate: molti negozi erano già chiusi, un silenzio ed una calma irreali erano calati all’improvviso sulla città. Qui no, invece: siamo quasi a settembre, eppure la vita è sempre attiva, la folla infinita, la voglia di vivere senza calendario.

Raggiungo Eras Moedani, la grande piazza che fa da spartiacque tra la zona del lungomare e la città vera, quella con auto e traffico, che adesso sta già dormendo. Sul lato ovest, quello vicino al mare, è stato allestito un palco dove tra poco comincerà un concerto, mentre a est, verso la città, un maxischermo replica le immagini riprese in diretta. Più avanti ecco un’altra piazza, dal cui pavimento escono, a ritmo di musica, alti getti d’acqua sotto cui i bambini si divertono un mondo a schizzarsi ed a rinfrescarsi per combattere l’afa che, nonostante sia quasi notte, è ancora asfissiante.

Ritorno in albergo con il cuore pieno di quelle emozioni che solo il mondo, quello con la M maiuscola, è capace di elargire; a patto, naturalmente, di essere pronti a riceverle.

Batumi, 28 agosto 2006

Per i pochi occidentali che conoscono l’esistenza dei paesi caucasici, Armenia, Gerorgia ed Azerbaijan sono più o meno la stessa cosa. Non si distinguono bene i confini, la storia, i popoli; molti litigano perfino se collocarli in Europa o in Asia. La realtà, invece, è ben diversa: questi tre stati hanno storia, popoli e tradizioni molto diverse, e solo l’occupazione russa li ha accomunati, imponendo a tutti la stessa lingua ufficiale e le stesse leggi.

L’Armenia, per esempio, è un paese con un radicato senso di unità nazionale: ovunque io sia stato, dalla boscose montagne del nord ai desertici altipiani del sud, ho sempre incontrato persone molto fiere della propria “armenicità”. Tutti gli armeni si identificano in uno stato ed in un popolo armeno, e sono orgogliosi di essersi sempre liberati dai vari conquistatori (mongoli, turchi, russi) che nel corso dei millenni hanno occupato il loro territorio. Questo non significa che siano razzisti, o xenofobi, tutt’altro: tutti sono sempre stati molto gentili e disponibili con me e con gli altri viaggiatori. Semplicemente, gli armeni sono un popolo molto fiero della propria identità e della propria cultura.

Il discorso, invece, è molto diverso per la Georgia. Questo stato è più che altro un puzzle di varie nazioni, di vari popoli molto diversi tra loro, che un bel giorno si sono trovati costretti a vivere insieme nella Repubblica Socialista Sovietica di Georgia. I veri georgiani sono gli abitanti della capitale e degli altopiani centro-orientali; per il resto, il paese comprende diverse mini-repubbliche più o meno autonome, ognuna con la propria bandiera, la propri lingua e, com’è il caso dell’Adjara, anche la propria dogana. Nelle montagne del nord, per esempio, le remote regioni dello Svaneti e del Racha sono abitate da popolazioni che parlano una lingua completamente diversa dal georgiano, e sulle quali l’autorità centrale ha ben poco potere. In queste lande, la costituzione georgiana è carta straccia, e le sole leggi che contano sono quelle dettate dai codici d’onore e dai vincoli di sangue; la gente, dedita soprattutto alla caccia e alla pastorizia (e anche al banditismo), vive ancora in un modo che molti definirebbero “medioevale”. Le autorità di Tbilisi laggiù non hanno alcuna influenza (come non ne avevano prima quelle di Mosca), anche se per loro ciò non rappresenta un problema data la povertà e la scarsa importanza di quei territori.

Diverso è il caso di un’altra zone di montagna, la repubblica autonoma dell’Ossezia meridionale che, forse nel tentativo di abbattere la fiera autonomia degli osseti, Stalin separò dall’Ossezia settentrionale assegnata invece alla Russia. Questa regione ricopre un’altissima funzione strategica, poiché vi passano le principali vie di comunicazione tra la Georgia, la Russia e le sue instabili repubbliche caucasiche dell’Inguscezia e della Cecenia. L’esercito di Tbilisi qui è presente in quantità massicce, sempre pronto a sopprimere qualsiasi velleità di autonomia della fiera popolazione locale, gli osseti appunto, che a più riprese ha manifestato violentemente chiedendo l’indipendenza e la riunificazione coi fratelli del nord. Qui si parla il russo, si usa il rublo e gli “immigrati” georgiani devono tenere gli occhi bene aperti quando girano per strada. L’Ossezia meridionale ufficialmente è aperta al turismo, ma molti georgiani che ho incontrato mi hanno “sconsigliato” di andarci.

La repubblica, poi, che ha causato maggiori problemi al governo centrale è quella dell’Abkazia, che si trova nel nord-ovest del paese e contiene la maggior parte della costa sul mar Nero. Abitata per secoli da un popolo musulmano fiero ed indipendente, non ha mai sopportato la forzata convivenza con i vicini georgiani, la cui lingua e religione (ortodossa) è stata loro imposta con la forza dai russi. Approfittando dei disordini scoppiati a Tbilisi subito dopo il crollo dell’impero sovietico, il presidente abkazo Vladislav Adrzinba prese la situazione di petto e ordino al proprio esercito di distruggere tutti i ponti stradali e ferroviari tra l’Abkazia e la Georgia (il confine corre lungo un fiume). Nel giro di una sola notte i due paesi si ritrovarono fisicamente divisi, secondo la regola che "“chi è di qua, è di qua; chi è di là, è di là”. Questa situazione, però, non poteva essere tollerata dall’allora presidente georgiano Shevardnadze il quale, ristabilito l’ordine a Tbilisi, cominciò subito ad occuparsi della questione. L’Abkazia, infatti, è strategicamente troppo importante per la Georgia, per almeno tre motivi. Prima di tutto, costituisce (o almeno, costituiva) la più importante zona balneare e turistica di tutto il mar Nero orientale, con tutti i profitti che ne derivano; in secondo luogo è attraversata dalla strada più importante e più veloce che corre fra Tbilisi e Mosca; infine, il suo sottosuolo ospita gli oleodotti e i gasdotti in cui viaggia il petrolio estratto nel mar Caspio e diretto verso la Turchia e l’Europa. Shevardnadze inviò l’esercito avio-trasportato ad occupare la capitale del nuovo stato, Sokhumi, costringendo gli abkazi a rifugiarsi sulle montagne e ricostruendo i collegamenti terrestri interrotti. A questo punto, però, intervenne la Russia, che non vedeva certo di buon occhio la preziosa Abkazia occupata da una Georgia filo-americana. L’esercito russo aiutò gli abkazi a riconquistare i territori perduti, ricacciando le truppe di Shevardnadze oltre il fiume. La rappresaglia fu terribile, e costrinse decine di migliaia di civili georgiani ad abbandonare le loro case e a ritornare disordinatamente nella terra d'origine. Secondo molti abitanti di Tbilisi, fu proprio questa ondata di profughi ad aumentare il livello di criminalità nella capitale. Si calcola che almeno centocinquantamila persone prive di casa e lavoro si riversarono per le strade della città, aggiungendo ovviamente molti problemi ad un paese appena uscito dalla guerra civile.

Ora la situazione è più tranquilla, e non si combatte più. Il confine tra Georgia ed Abkazia è ovviamente chiuso, e i soldati fermano chiunque si avvicini, perquisendoti ed interrogandoti a lungo. Nella regione di frontiera del Samegrelo, appartenente alla Georgia, una delle più povere all’interno di un paese non certo ricco, sono insediati altri centomila profughi, e la autorità locali possono fare ben poco per sistemare tutte queste persone. Molti alberghi e sanatori sono stati requisiti per ospitare questi rifugiati, ed è davvero triste aggirarsi per le località di questa zona, dove le strade sono abitate da migliaia di persone che tirano a campare, chiedendo l’elemosina e vendendo merci improvvisate ai pochissimi stranieri.

Tecnicamente anche Batumi non va considerata Georgia, perché è la capitale della Repubblica dell’Adjara (chiamata anche Adjaristan), un’altra che col governo centrale di Tbilisi ha ben poco da spartire. Quando, nel gennaio 2004, il neo-eletto presidente Mihkail Saakashvili tento di entrarvi col suo corteo di auto, le truppe adjare lo fermarono al confine costringendolo a tornare indietro. Tutt’ora i rapporti tra i due governi sono molto tesi, anche se Tbilisi ha fatto alcune concessioni per non perdere anche il controllo di questa zona, che rappresenta ora l’unico sbocco sul mare della Georgia, nonché la sua principale zona balneare e turistica. Sugli edifici pubblici sventolano le bandiere di entrambi gli stati, e prima di uscire verso la Turchia bisogna attraversare due dogane.

 

* * *

 

Oggi, probabilmente, è stato il mio ultimo giorno in Georgia. Stamattina ho passeggiato sul lungomare, dove pochi bagnanti alternavano nuotate nell’acqua tiepida a momenti rilassanti sulla sabbia, mentre il sole andava e veniva tra le nuvole. Mi sono fermato a bere una coca in uno dei tanti barettini, seduto ad osservare il mare mentre alla radio andavano le canzoni italiane degli autori più classici: Celentano, Cotugno, i Pooh. Ho trovato alloggio presso l’hotel Bebo, in realtà una casa privata gestita da una signora molto grassa e molto pigra, che gira sempre vestita di nero e passa le sue giornate a guardare la televisione. La casa è al completo (mentre tratto sul prezzo, osservo alcune ragazze dal marcato accento australiano uscire in bikini dirette alla spiaggia), così la padrona mi dà una stanza esterna, in una dependance che si raggiunge salendo una scala in legno a cui mancano alcuni gradini. La stanza è molto semplice: due materassi cigolanti senza lenzuola né biancheria, un tavolino, un lucchetto per chiudere la porta quando esco. E’ decisamente un posto squallido, ma il prezzo basso mi evita di cambiare i dollari che infine sono riuscito a prelevare a Borjomi, e in fin dei conti qui devo solo dormirci.

Nel pomeriggio vado in un internet point per cercare un ostello a Istanbul, la mia prossima tappa dove conto di giungere tra un paio di giorni. Il locale è gestito da una bionda stupenda, uno schianto di ragazza che sa installare sui PC le ultime patch di explorer e gli antivirus più aggiornati con la stessa nonchalance con cui, in Italia, una ragazza di uguale bellezza saprebbe scegliere le scarpe più intonate alla mise da discoteca più alla moda. Scopro che parla un ottimo inglese e così, con la scusa che il mio computer è lento, comincio ad attaccare bottone fino a quando arriva il fidanzato a darle il cambio… è davvero destino che tutte le ragazze che valgono qualcosa siano sempre impegnate. Comunque, prenoto un ostello nel quartiere più turistico di Istanbul a nove euro a notte, una cifra più che ragionevole considerata la città. L’unica mia preoccupazione è la salute: come temevo, il collo e la schiena hanno cominciato a farmi male in seguito all’incidente di ieri, anche se il dolore è contenuto. Per ora aspetto: se domani il dolore dovesse aumentare, chiamerò l’assicurazione in Italia, anche se certo preferirei essere visitato ad Istanbul piuttosto che in questa città dove, spiaggia e divertimenti a parte, i servizi sono molto arretrati. Mi piace stare qui, ma per noi viaggiatori l’unico imperativo è: partire e non fermarsi mai, perché magari il prossimo posto ti piacerà ancora più di questo, ma non potrai mai saperlo se non ci vai.

Alla sera, dopo una cena luculliana a base di spiedini e verdura servita da una bionda molto carina ma che non parla inglese (questo è, purtroppo, il principale limite della popolazione locale), torno a rilassarmi sulla spiaggia, nuovamente sdraiato ad ascoltare le onde nel buio.

Passo la mia ultima notte sul sacco a pelo che svolto, aperto, sopra il materasso. L’afa è soffocante, ma cerco di resistere alla tentazione di attaccarmi alla bottiglia dell’acqua che ho deposto accanto a me, perché bere vorrebbe dire solo sudare ancora di più, creando un circolo vizioso da cui sarebbe sempre più difficile uscire.

La stanza è illuminata a giorno dalle luci della grande Chiesa della Vergine Maria, la cui facciata risplende in maniera davvero magnifica. Lo spettacolo è grandioso; e anche se non riesco a dormire, non mi dispiace restare sveglio a riflettere sul mio viaggio, ripercorrendo con la mente e con il cuore le varie tappe. Ora che la mia avventura è quasi al termine, ho tante esperienze su cui riflettere, tanti ricordi da far riaffiorare.

Domani c’è la Turchia, ma per questa notte voglio fermarmi a pensare.

Buona notte, Georgia.

 

....................................................................................................

 

 

PARTE TERZA

 

 

TURCHIA

Hopa, 29 agosto 2006 

E’ sempre emozionante attraversare un confine a piedi: ti procura un netto senso di cambiamento, ti fa capire che stai lasciando un paese, una nazione, una cultura, e stai entrando in un nuovo paese, dove troverai una nuova nazione e una nuova cultura. Cambiano le uniformi, cambiano le bandiere, cambiano le scritte e la lingua; hai quella sensazione di passaggio, di transito, che premette sempre a nuove scoperte, come se cominciasse un nuovo viaggio. Questo posto di frontiera, poi, è molto particolare: con il mare e la sabbia a pochi metri dalle barriere che luccicano al sole, ti appare meno brutto dei soliti; e mentre lo oltrepassi ecco i gabbiani che, con i loro versi, sembrano venire a salutarti festosamente.

Lasciare la Georgia è stato facile; entrare in Turchia un po’ meno. Al controllo passaporti mi hanno detto che dovevo procurarmi il visto all’apposito ufficio, dove mi hanno indirizzato. Dopo avermi appiccicato il pezzetto di carta sul passaporto, non mi hanno detto che dovevo tornare indietro a farlo timbrare, e io stupidamente non ci ho pensato; quindi ho camminato sotto il sole già bollente del mattino per un lunghissimo marciapiede che collega le due caserme, osservando accanto a me l’interminabile fila di TIR in attesa di entrare in Georgia. Ai tempi dell’Unione Sovietica questo confine era blindatissimo: i due imperi non si andavano affatto simpatici, e spesso truppe di soldati venivano stanziate minacciosamente presso il confine da una parte e dall’altra, con la solita scusa di effettuare esercitazioni. Nessun viaggiatore poteva sognarsi di oltrepassare questa frontiera. Oggi, invece, tutto è cambiato, e il confine di Sarpi-Gonio è la principale porta fra Turchia e Caucaso. Di qui passano autocarri, autobus carichi di frontalieri, e anche molti viaggiatori (quelli veri, che si muovono via terra). Buona parte di questo traffico di persone e di merci è diretto in Armenia; essendo ovviamente chiusa la frontiera che collega direttamente i due stati, l’unica strada percorribile passa di qui.

Quando arrivo al posto di confine turco trovo due gentili soldati che esaminano il mio passaporto, quindi mi fanno notare che il visto non è timbrato; devo ritornare alla dogana e farmelo timbrare, altrimenti non potrò entrare in Turchia. Così, armato di pazienza, ripercorro tutta la strada a ritroso (sarà almeno un chilometro) fino al gabbiotto della polizia, dove nel frattempo c’è stato il cambio di turno e il nuovo poliziotto turco pensa che io stia uscendo dal suo paese, dato che sono arrivato da ovest; non capisce perché dovrebbe timbrarmi il visto in entrata anziché in uscita, e io ho il mio bel da fare a spiegargli la situazione. Quando, infine, riesco a ottenere il tanto desiderato timbro, mi incammino per la terza volta lungo l’interminabile stradina di collegamento, mentre il sole e lo zaino mi stanno già facendo sudare abbondantemente.

Alla fine passo il confine ed entro ufficialmente in Turchia dove, dopo aver chiesto conferma ai due soldati, tiro indietro l’orologio di un’altra ora. E’ strano dover abituarsi a un nuovo orario mentre il sole dall’alto ti guarda con la stessa intensità e la stessa brillantezza, ridendo di queste buffe convenzioni che separano i confini tracciati dagli uomini, che a lui devono sembrare tanto piccoli.

 

* * *

 

Non appena arrivo a Hopa, la prima cittadina turca oltre il confine, noto subito tre grandi differenze rispetto ai paesi caucasici che ho appena lasciato.

Prima di tutto, le scritte sono in caratteri latini. Non che questo semplifichi molto le cose, perché per me il turco è incomprensibile; ma, almeno, è incoraggiante riuscire a leggere le scritte, ci si sente più vicini a casa. E poi, alla stazione dei pullman, orari e destinazioni dei mezzi sono subito chiari, e questo rappresenta sempre un prezioso aiuto.

Secondo: tutti i negozi, anche quelli più piccoli, espongono gli adesivi di accettazione delle carte di credito, queste piccole tessere plastificate che nel Caucaso sono del tutto prive di valore.

Terzo: tutte le donne indossano la kefiah. Non soltanto quelle avanti con gli anni, ma anche le più giovani, compresa la cassiera del supermercato dove vado a fare un po’ di spesa (mi aspettano ventuno ore di pullman fino ad Istanbul). Sono veli colorati, allegri, spesso in tinta col vestito, ben diversi da quelli scuri, quasi tetri, che ho visto in altri paesi musulmani; ma in ogni caso spiccano intorno al volto di ogni persona di sesso femminile. In Turchia non è certo un obbligo: nel 1923 Ataturk, fondatore della Repubblica Turca, il cui volto serio e dallo sguardo fiero fa bella mostra di sé in ogni negozio, edificio pubblico e anche sulle fiancate dei pullman, abolì la costrizione di portare il velo; e in seguito lo stesso è stato fatto in molti altri paesi di fede islamica. Moltissime donne, però, non si sognerebbero mai di toglierselo: per loro è qualcosa di molto sentito, senza cui non riuscirebbero a stare. A noi occidentali, abituati a vestirci (e soprattutto a svestirci) come vogliamo, una donna con la kefiah sembra una prigioniera; per loro, invece, è un indumento fondamentale, senza il quale si sentirebbero nude. Questo concetto mi è stato ben spiegato da una ragazza marocchina, molto carina, che tempo fa avevo incontrato in  Tunisia. Chiacchierando, le avevo domandato:

“Ma perché porti il velo? Non ti senti a disagio?”

La sua risposta era stata prontissima e, per me, sorprendente.

“Le donne italiane mostrano la loro vagina in pubblico?”, mi aveva chiesto a sua volta.

“Certo che no!”

“Vedi, per noi la testa è come vagina. Non possiamo stare senza coprirla”.

 

E questo è quanto.

Istanbul, 31 agosto 2006 

Nella mia immaginazione la parola “Istanbul” ha sempre evocato un po’ di magia, con quella sua posizione a cavallo tra due continenti, mentre i battelli attraversano i mari che la circondano e le cupole delle moschee svettano alte sull’orizzonte, riflettendo la luce rossastra del tramonto. E’ un posto in cui ho sempre voluto venire, e adesso che ci sono me lo sto godendo appieno.

Certo, rispetto a prima qui tutto è più facile: le persone parlano inglese (e molte anche l’italiano); ovunque ci sono ristoranti aperti fino a notte fonda, con i procacciatori di clienti che fanno di tutto per tirarti dentro; tutti i luoghi turistici alla sera vengono illuminati da riflettori di vari colori, mentre una voce registrata, diffusa dagli altoparlanti in varie lingue, rievoca antiche vicende che si sono svolte nelle varie moschee, o nei cortili, o nelle torri.

Qui tutto è moderno, o almeno cerca di esserlo: da un lato c’è il lussuoso tram che attraversa la parte europea della città, con le grandi vetrate e l’altoparlante che annuncia le fermate; dall’altra parte del corno d’Oro, nel quartiere (che fu costruito dai genovesi) di Galata, sulle strette viuzze acciottolate che vanno su e giù per la collina si affacciano antiche botteghe: macellai, tappezzieri, maniscalchi, ceramisti, tutti partecipano alla vita del quartiere picchiando su attrezzi da noi dimenticati, diffondendo ovunque i suoni, gli odori, le grida rivolte ai garzoni, mentre moderni furgoni (che stonano notevolmente con l’ambiente) restano intrappolati negli stretti passaggi bloccando il traffico. 

A Sultanhamet, il quartiere più turistico della città, dove si trovano le moschee più famose, ci sono moltissimi ostelli della gioventù che, anche in questa stagione, pullulano di backpackers provenienti da ogni angolo di mondo. Nel mio incontro biondissime ragazze neozelandesi già in procinto di tornare a casa; giovani americani, poco più che ragazzini, che già si informano sui treni diretti in Bulgaria; la coppia di londinesi partita ieri per un viaggio di nozze di un mese attraverso tutta la Turchia. Questo ostello, come tanti altri, è dotato di una grande terrazza panoramica da cui si può ammirare l’intera città: le moschee della parte europea, l’alta torre di Galata, le navi che percorrono il Mar di Marmara dirette a oriente. In estate, ogni sera organizzano una grigliata all’aperto, che diventano delle grandi feste a cui tutti gli ospiti sono invitati. Adesso, però, la sera comincia a fare fresco, tanto che dopo il tramonto è bene mettersi un bel maglione per andare in giro; spesso poi il cielo si rannuvola improvvisamente, e rapidi acquazzoni sorprendono gli incauti turisti in maniche corte.

A Istanbul ci sono tantissime cose da vedere, ma è difficile osservare il vero spirito della città. Nel remoto Caucaso, ogni occidentale che incontravo per strada era un potenziale alleato, un amico con cui affrontare le mille difficoltà quotidiane; qui, invece, ci sono talmente tanti stranieri che diventa impossibile essere viaggiatori, e ci si abbassa al rango di semplici turisti. Ogni edifici di interesse è indicato da cartelli stradali multilingue; molti di questi sono comunque inutili perché ad ogni angolo di strada trovi qualcuno che si offre di accompagnarti. In questa città non ci sono cose da “scoprire”: tutto è già pronto e confezionato per il turista, che può vedere tutti i monumenti principali seguendo semplicemente i percorsi già riportati sugli opuscoli, ed il suo ingegno viene messo alla prova solo quando viene il momento di cercare l’angolazione migliore per scattare una fotografia. 

Andando alla ricerca di qualcosa di genuino, ammesso che esista ancora, mi avventuro nel quartiere delle Blacherne, un antico dedalo di stradine dall’atmosfera medievale situato all’estremità occidentale della città, subito all’interno delle mura teodosiane. Questa zona, poco visitata dai turisti, conserva ancora un fascino dal sapore antico: qui le strade non hanno un nome, e per orientarsi bisogna chiedere informazioni ai passanti, molti dei quali non capiscono nemmeno l’inglese. Gli abitanti, qui, non sono abituati a vedere dei forestieri camminare da soli, e quando passo mi guardano incuriositi, alcune donne anche con diffidenza. Questa è la loro città, non ancora contaminata dal turismo di massa, quindi ci tengono, giustamente, ad avere un po’ di “privacy”.

 

Questo quartiere fu costruito nel V secolo dall’allora reggente al trono, Pulcheria, donna molto pia e devota, che volle erigere un quartiere clericale dove preti, monaci e (ben separate da quelli) monache potessero vivere e pregare. All’inizio del XII secolo vi fu costruito un grande palazzo, una vera fortezza dove la corte reale si trasferì, abbandonando il vecchio palazzo imperiale. Qui si trovavano l’icona più importante del tempo, la Vergine Odighitria (“che indica la via”), e per un certo tempo vi sono state conservate alcune fondamentali reliquie, come il velo di Maria e la Sacra Sindone.                               

 

Nella mia guida non c’è una piantina dettagliata del quartiere, così devo orientarmi a sensazione per raggiungere le antiche mura teodosiane, che rappresentavano il più esteso (e più solido) baluardo difensivo dell’antica Costantinopoli. Sto cercando la Porta del Cannone, quella che gli ottomani di Mehmet II riuscirono a sfondare nel 1453 grazie ad un potentissimo cannone fatto costruire in Germania. Il cannone era lungo nove metri, aveva un diametro di venti centimetri e sparava palle da sei quintali a più di un chilometro di distanza. L’enorme arma poteva sparare solo un colpo ogni tre ore, ma faceva danni enormi alle mura: tra un colpo e l’altro i difensori uscivano allo scoperto per ricostruire la breccia, ma dopo ogni colpo diventava sempre più difficile, mentre gli assedianti prendevano di mira i bizantini che ogni volta erano sempre di meno. Solo l’arrivo di alcune navi amiche, inviate dal Papa, permise ai greci di trarre un sospiro di sollievo, mentre queste sconfiggevano l’armata dei turchi costringendoli alla tregua. Ma il sultano non si arrese: comprendendo che non avrebbe mai preso la città senza avere prima il predominio sul mare, nella notte tra il 21 ed il 22 aprile dello stesso anno fece costruire dai suoi ingegneri una grande strada ferrata che, salendo dal Mar di Marmara, risaliva la collina alle spalle di Galata per poi ridiscendere nel Corno d’Oro. Lungo quella strada fece issare da traini buoi le sue navi, accerchiando così il porto della città senza colpo ferire. Mentre i difensori, atterriti, non credevano ai loro occhi, Mehmet II trasportò centomila soldati fuori dalle mura teodosiane preparandosi a sferrare l’attacco finale. In città, l’imperatore Costantino XI poteva contare solo su settemila uomini. La notte tra il 27 ed il 28 maggio fu quella decisiva: i soldati turchi si lanciarono contro le mura senza sosta, indifferenti alle frecce che venivano loro tirate contro dall’alto. Si gettavano contro le palizzate, issavano scale, si lanciavano nella mischia senza sosta, finché, ad un ordine prestabilito, una schiera si ritirava per fare posto ad una nuova ondata, fresca, che arrivava a dare il cambio alla precedente. Così continuarono tutta la notte, schiera dopo schiera, mentre i difensori non avevano tregua, e per quanto fossero valorosi, era chiaro che non potevano continuare all’infinito. Ogni tanto alcuni gruppi di coraggiosi uscivano dalle mura attraverso delle porte secondarie per aggirare gli assedianti e sterminarli, ma proprio una di queste uscite fu decisiva: gli ottomani, ormai preponderanti, riuscirono a respingere un gruppo di incursori e a passare oltre le mura prima che la porta venisse richiusa. All’alba le insegne turche sventolavano sui torrioni, mentre dalle brecce aperte ormai ovunque la marea di invasori penetrava inarrestabile nella città. Lo stesso imperatore si gettò nella mischia e cadde, mentre i pochi uomini sopravvissuti abbandonarono le mura per correre a difendere le loro case e le famiglie, inutilmente. Già a mezzogiorno non rimaneva alcun bizantino vivo, e alla sera del primo giorno Mehmet II pose fine al saccheggio, che di solito durava tre giorni, perché non era rimasto più niente e nessuno da saccheggiare. Aveva così termine l’Impero Romano d’Oriente.

 

Le mura esistono ancora anche se oggi, nel punto in cui una volta c’era la porta principale, ora passa una trafficata superstrada che porta diritta in centro; sotto di questa, corre veloce la metropolitana che collega la città con l’aeroporto. Cerco di ricostruire con la fantasia quei momenti, di immaginare la scena in cui migliaia e migliaia di soldati entrano in città avidi di bottino e saccheggi, mentre gli atterriti cittadini superstiti scappano in ogni direzione, cercando inutilmente un rifugio dalla furia dei conquistatori. Ma è difficile, nel trambusto dei TIR, dei taxi, dei clacson e dei semafori, immaginarsi quelle grida, quelle fughe disperate, la furia, lo sciamare dei soldati per le vie e le case.

Quanto lontani sono oggi quegli eventi, eppure quanto peso hanno avuto nella storia, e quanto di essi c’è ancora nella realtà odierna!

 

Istanbul, 3 settembre 2006

Purtroppo non trovo posto sul volo per Bergamo a prezzi ragionevoli fino a lunedì, quindi dovrò restare in questa città ancora per qualche giorno. Tanto meglio: potrò esplorare altri angoli poco conosciuti: l’imponente acquedotto di Adriano, le lontane fortezze di Kadikoy (con tanto di crociera sul Bosforo), la sponda asiatica della città, meno turistica e più “turca”.

L’altra sera stavo appunto programmando le prossime giornate in modo da organizzare al meglio il tempo (in una città tanto grande gli spostamenti richiedono ore, e per vedere tutto bisogna organizzarsi al meglio), quando mi capita il secondo incidente, decisamente il peggiore che mi sia mai occorso in tanti anni di peregrinazioni.

Venerdì sera ho cominciato a sentirmi male: avevo nausea e mi sentivo molto debole. All’inizio ho pensato ad una indigestione, ma dopo aver rimesso l’intera cena, i conati di vomito sono continuati tutta la notte, facendomi tirare su anche una tazza di tè che una gentile impiegata mi aveva preparato alle quattro di mattina. Evidentemente qualcosa mi ha preso allo stomaco, che è sempre stato il mio punto debole: continuo ad avere attacchi che mi fanno tirar su bile, succhi gastrici e non so che altro per tutta la notte, senza lasciarmi un attimo di tregua. Sabato mattina, stremato, chiamo la mia assicurazione in Italia, chiedendo che mi mandino un medico. Dopo circa un’ora arriva un’ambulanza con due paramedici che mi visitano, mentre il ragazzo dell’ostello traduce la conversazione. Mentre rispondo alle domande, vengo colto da altri attacchi; i due paramedici allora mi sistemano su una barella, mi attaccano una flebo e mi caricano su un’ambulanza. Prima che si chiudano le porte, il ragazzo dell’ostello mi chiede:

“In quale ospedale vuoi andare?”

Rispondo che non ne ho idea, basta che mi curino, allora mi chiede se sono assicurato e poi dice all’autista di portarmi all’ospedale Internazionale. Le porte si chiudono, e l’ambulanza con la mezzaluna rossa dipinta sulle fiancate parte a sirene spiegate, mentre accanto a me i due medici mi osservano, seduti sulla panca dell’abitacolo. Non sanno una parola d’inglese, ma cercano di incoraggiarmi con sguardi comprensivi e sorrisi amichevoli. Il viaggio è molto lungo, ci vorrà più di mezz’ora prima di arrivare a destinazione, e nel frattempo i pensieri si accavallano nella mia mente, portandomi allo scoramento: sono solo, malato, su un’ambulanza che mi sta portando in un ospedale di una città straniera, dove non conosco nessuno, e non so cosa mi accadrà, magari dovranno operarmi… mi viene da piangere, ma so che devo tenere duro, perché il peggio forse deve ancora arrivare. Non ho idea di quanto tempo resterò in ospedale: il mio aereo parte lunedì, e spero di riuscire a prenderlo. Ho lasciato tutti i miei bagagli all’ostello, ho con me solo il passaporto ed il cellulare. Non c’è nessuno con me: mai come adesso dovrò contare solo su me stesso, quindi non è questo il momento di piagnucolare. Le grandi difficoltà si affrontano con grandi energie, e alla fine il premio sarà una grande crescita interiore. Qualcosa dentro di me mi dice che, in un modo o nell’altro, alla fine tutto si sistemerà, e che tra un po’ di tempo guarderò indietro a questa terribile esperienza come ad un lontano ricordo.

Arriviamo in ospedale. Un medico che per fortuna parla un ottimo inglese mi visita subito, quindi mi diagnostica una gastro-enterite e mi dice che mi faranno degli esami. Si allontana, poi arriva un’infermiera che prepara le provette per gli esami del sangue: le spiego di andarci piano, perché quando faccio un prelievo ho sempre forti cali di pressione, ma lei non capisce e mi guarda con un’espressione interrogativa che non promette nulla di buono. Infatti, proprio nel momento culminante in cui ho una flebo in un braccio e una siringa da 20 cm. nell’altro, mentre l’infermiera continua a riempire provette e io comincio ad avere la vista annebbiata, un altro attacco di vomito mi colpisce all’improvviso, facendomi piegare in due dai conati… la donna lascia in sospeso il prelievo e mi inietta qualcosa nella flebo, ma io non ho più il controllo del mio corpo. Sto male, ho la nausea, vedo tutto sfocato, grido di smettere di togliermi sangue e di iniettarmi roba ma è inutile, non mi capisce… per fortuna ad un certo punto le luci si spengono e cado nell’oblio.

 

 

Non ho capito di essere svenuto fino a quando non mi sono risvegliato. Davanti ai miei occhi vedo il volto del medico, chino su di me, che mi chiede: “What’s happened?” mentre io cerco di ricordarmi chi sono e dove mi trovo. Provo quella strana sensazione di quando ci si sveglia da un sogno, e ancora si fatica a distinguere la realtà dalla scena sognata. Poi, un po’ alla volta, la mia mente si fa più lucida. Mi rendo conto di essere svenuto, e spiego al medico che è accaduto per colpa del prelievo troppo veloce. Lui si tranquillizza, dà delle istruzioni all’infermiera e dice che mi farà sapere riguardo all’esito degli esami; dopo di che se ne vanno tutti, e io resto solo sul mio letto, in una grande stanza dove solo una pesante tenda mi separa dal resto del mondo. Oltre quella tenda, intravedo che viene portato un altro letto con un paziente di mezza età. I familiari gli si fanno subito intorno, cercando di consolarlo. Una signora piange, spaventata, mentre le infermiere cominciano a visitarlo. La conversazione si anima, poi, dopo un po’, se ne vanno, lasciando l’uomo da solo.

Anch’io sono solo. Ogni tanto, da dietro la tenda, fa’ capolino un’infermiera che viene a controllarmi; guarda la flebo, poi se ne va. Sto tremando di freddo; alla visita successiva chiedo una coperta, ma la donna non capisce. Faccio segno di tremare, col gesto di strofinarmi le mani sugli avambracci; lei allora annuisce, scompare e subito ritorna con un termometro, uno di quelli moderni che si infilano nell’orecchio. Dopo pochi secondi lo estrae, lo guarda, poi mi fissa preoccupata: “Termometer maximum” mi dice, ed è chiaro che non è una cosa buona. Poi se ne va di nuovo.

Ritorna il medico. Mi dice che ho una gastro-enterite batterica, e che mi daranno una flebo di antibiotico. Più tardi, per sicurezza, mi faranno anche delle lastre all’addome, poi si vedrà.

Il tempo passa. Sono di nuovo solo. A questo punto non posso davvero fare più niente: la mia parte l’ho fatta, ora sono totalmente nelle mani di queste persone. Ed e’ proprio in questa fase di attesa, quasi di rilassamento, che mi lascio andare allo sconforto, e alcune lacrime scorrono sulle mie guance. Erano anni che non piangevo, ma adesso non riesco più a trattenermi. Non mi sono mai sentito tanto solo e indifeso come adesso, e mai come ora vorrei avere qualcuno accanto a me, qualcuno che mi stringa la mano, che mi faccia coraggio. Ma non è così: me la sono cercata, sono andato all’avventura da solo, e devo cavarmela da solo. La mia situazione è semplicemente la conseguenza delle mie azioni; non posso che prendermela con me stesso, ma dentro di me, passato lo sconforto, trovo la consapevolezza che questa è la vita che mi sono scelto, e che devo accogliere tutto ciò che mi dà, nel bene come nel male. “Ciò che non uccide, fortifica” si dice, e questa frase per me non è mai stata tanto vera come adesso. Mai come ora sto imparando a stare al mondo, a cavarmela da solo; questo è l’insegnamento che devo trarre, che devo aggiungere al mio bagaglio di esperienza di viaggiatore e di uomo.

Sono sicuro che, se tornassi indietro, rifarei tutto quello che ho fatto senza esitazioni, perché questo è il mio destino.

Questa è la mia via.

 

 

....................................................................................................

 

 

EPILOGO

Bergamo, 6 settembre 2006

 

E così eccomi a casa, sano e salvo dopo tante peripezie, a stilare il bilancio dell’ennesima avventura. Come speravo, le cose alla fine si sono concluse bene, anche se questa volta me la sono vista davvero brutta. Adesso sono qui, in casa mia, al caldo e al sicuro, ma mi sto già annoiando, e sto programmando il mio prossimo viaggio, forse in Asia, forse in America, forse in Africa. Di sicuro non in Turchia, dopo tutto quello che mi è successo, prima e dopo il ricovero in ospedale; sì, perché, anche da guarito, ripartire verso casa è stata un’altra impresa. Ma andiamo con ordine.

Sono stato dimesso dall’ospedale sabato stesso, nel primo pomeriggio, dopo che il medico mi ha dato una ricetta con alcune medicine da prendere nei giorni successivi, e mi ha anche ordinato di mangiare sebbene il solo pensiero del cibo mi desse la nausea. Il dottore è stato anche tanto gentile da chiamarmi un taxi che mi riportasse in ostello, ma non l’ho mai preso perché altri problemi si sono presentati ancora prima di varcare la soglia verso la libertà. La segretaria dell’ospedale, una ragazza bruna molto affascinante, mi ha trattenuto dicendomi che non potevo andare finché la mia assicurazione non avesse pagato il conto. Sul momento sembrava una cosa da poco, ma mi sono ritrovato a dover aspettare sul divano della hall per quasi due ore, poiché dall’Italia tutto era bloccato. Ancora debilitato, ho dovuto telefonare io stesso all’agenzia per sollecitare lo sblocco della situazione, altrimenti sarei rimasto lì chissà quanto (e per fortuna avevo ancora un po’ di carica nella batteria del cellulare). 

Chiaramente il tassista non aveva aspettato tutto questo tempo, così sono dovuto uscire a piedi, in camicione e pantofole, a cercare una farmacia dove comprare le medicine; poi, per fortuna, è arrivato un altro taxi dal quale mi sono fatto portare in ostello.

Qui sono dovuto rimanere due giorni (sabato e domenica), e non avendo nemmeno la forza di camminare ho fatto una vita da recluso: un po’ chiacchieravo con gli altri ospiti, un po’ leggevo, un po’ mandavo e-mail dalla connessione Internet della hall (l’unica cosa che funzionasse bene); un po’ cercavo di buttar giù qualcosa da mangiare contro il senso di nausea ancora fortissimo. La sola vista del cibo mi faceva star male, ma sapevo di dover recuperare le forze e quindi ogni tanto chiedevo un piatto riso in bianco, o qualche patata lessa. Avevo anche paura di riammalarmi: non sapevo (e non ho mai capito) quale fosse stata la sorgente dei batteri che avevo preso, e quindi non mi fidavo di nessun alimento.

Trascorso un week-end da vecchietto all’ospizio, col rammarico di non aver visto tutto ciò che avevo in programma, venne il giorno della partenza. Stavo meglio, ma non ero certo guarito: mi sentivo ancora debole, e riuscivo a mangiare molto poco. Ero contento di tornare a casa, ma sapevo anche che quello che avevo davanti sarebbe stato uno dei giorni più lunghi. Il mio aereo partiva infatti dal piccolo aeroporto di Sabiha, situato addirittura fuori Istanbul, in un paese a più di 40 km dal centro, sulla sponda asiatica.

L’unico pullman giornaliero che raggiunge Sabiha dal centro parte alle 23, orario per me inutile visto che il mio volo partiva alle 20. A questo punto mi restavano due scelte: taxi oppure mezzi pubblici. Il primo sarebbe stato sicuramente più comodo, ma anche terribilmente costoso. Non volevo prelevare altri dollari per poi cambiarli, e poi mi sentivo abbastanza in forze da raggiungere l’aeroporto da solo, con calma. Ho sempre odiato i taxi, e il mio istinto di conservazione del denaro (che, poco o tanto che sia, mi guadagno lavorando), mi ha spinto a usare i mezzi. Avevo tutto il giorno a disposizione, così potevo prendermela comoda e fare un pezzetto alla volta.

Prendere il tram fino all’imbarcadero e quindi il traghetto fino alla sponda asiatica è stato facile. Lì mi sono ritrovato in una grande piazza, dove mi sono seduto su una panchina a riflettere. Sapevo che c’era un treno diretto a Pendik, il paese dove si trova l’aeroporto; ma la stazione era lontana, troppo lontana per raggiungerla a piedi sotto il sole di mezzogiorno. Mentre riflettevo mangiando alcuni biscotti secchi, vedo passare un pullman di linea con destinazione Pendik, e ho pensato che fosse un’ottima alternativa. Così mi metto in coda alla fermata, e quando arriva il successivo salgo a spintoni tra la calca, ma l’autista mi fa scendere indicandomi il chiosco dei biglietti. Mi rifaccio largo nella ressa, questa volta per scendere, poi mi rimetto in coda alla biglietteria: ma quando arriva il mio turno, l’addetto non ne vuole sapere. “Pendik! Pendik!” gli grido, indicando l’autobus fermo, ma quello continua a scuotere la testa. Eppure era questo l’ufficio indicatomi dall’autista! Mi guardo intorno per vedere se ci sono altre biglietterie, ma non ne vedo, così devo rinunciare. Sono un po’ scocciato, ma non sorpreso: per esperienza so che comprare un biglietto dell’autobus in molti paesi è sempre una prova molto difficile, anche se non ne ho mai capito il motivo. Comunque non ho scelta: pian piano mi incammino verso la stazione, quando passo accanto a una fermata di dolmus (l’equivalente turco dei mashrutka), tutti con un cartello con scritto “Pendik” e in partenza a getto continuo. Colgo l’occasione al volo: salto sul primo della fila e allungo delle monete al conducente (come si fa di solito), dicendogli il nome dell’aeroporto. L’uomo, però, non sembra molto sveglio e non capisce cosa voglio, restituendomi i soldi. Per fortuna un altro passeggero, un ragazzo che parla inglese, viene ad aiutarmi. Spiega all’autista dove devo andare, poi mi fa sedere accanto a lui e mi scrive su un pezzo di carta il nome della destinazione. Si chiama Karim ed è uno studente universitario all’ultimo anno; per mia fortuna si sta laureando in inglese così possiamo chiacchierare un po’.

Il mio nuovo amico scende poco dopo, ma io ormai mi sento tranquillo, pensando che la parte difficile del percorso sia già alle mie spalle. Sono su un mezzo diretto al paese dove si trova l’aeroporto, quindi non dovrebbero esserci più intoppi… Quanto mi sbagliavo! Il pulmino, infatti, procede molto a rilento nel traffico caotico di una città che sembra non finire mai. Per oltre un’ora attraversiamo una periferia infinita, tutta uguale a sé stessa, con incroci intasati, casermoni popolari, negozietti scalcinati, e sembra quasi di girare a vuoto nel traffico, senza arrivare mai da nessuna parte. La guida dell’autista, poi, peggiora la situazione: le continue accelerazioni e frenate, gli scossoni, i bruschi spostamenti di corsia mettono il mio già tormentato stomaco a dura prova, tanto che ho paura di sentirmi di nuovo male. Quando finalmente arriviamo a Pendik, dopo quasi due ore di tortura, esco stremato dal dolmus e mi siedo in terra, appoggiato ad una parete, con lo stomaco sconvolto. Resto lì seduto per una mezz’ora buona, mentre intorno a me gli avventori delle autolinee mi passano intorno continuamente, senza degnarmi di uno sguardo. Immagino di essere pallidissimo e di avere un’aria sconvolta, e nessuno sembra accorgersi di me… ma forse è meglio così.

Sto cominciando ad odiare la Turchia, e non vedo l’ora di andarmene. Rimane l’ultima tappa: raggiungere l’aeroporto dalla stazione delle autolinee. Mostro in giro il mio foglietto finché un tizio dall’aria gentile, con indosso il berretto caratteristico di molti turchi, mi dice che posso prendere un autobus oppure mi porta lui col suo taxi. Sono stremato, così accetto il taxi ma lui capisce “autobus” e mi infila su un mezzo in procinto di partire, quasi spingendomi sopra per paura che lo perda. Ormai sono sopra, e mi devo adattare. L’autobus, però, mi fa rimpiangere il dolmus: è pieno all’inverosimile, tanto che devo restare in piedi, schiacciato contro il finestrino, mentre i passeggeri aumentano sempre di più. Io prego che ogni fermata sia quella buona, che dietro alla prossima casa spunti una pista d’atterraggio, con una torre di controllo. E, invece, niente: il pulmino continua ad accelerare e frenare, a fermarsi e ripartire, e dopo ogni sosta continua a salire gente, gente, gente anche se ormai non ci sta più nessuno, anche se l’ultimo salito è rimasto aggrappato (da fuori) alla maniglia del portellone perché questo non si chiude più… eppure continuano a salire, ed essendo io vicino all’autista molte persone mi allungano i soldi della corsa dicendomi la loro destinazione affinché io la ripeta al guidatore… a questo punto non posso fare altro che prenderla con filosofia e mettermi a ridere! Solo io potevo cacciarmi in una situazione simile, quando avrei potuto prendere un taxi fin dall’inizio e risparmiarmi tutta questa tortura! D’altra parte, come potevo pensare che raggiungere un aeroporto internazionale di una metropoli come Istanbul fosse tanto difficile!

Finalmente l’autobus comincia a svuotarsi, un po’ alla volta, mentre raggiunge la periferia di questo paese periferico. Dopo un’altra ora buona di sballottamenti finalmente riesco a sedermi: dell’aeroporto, però, ancora nessuna traccia. Fino a quando, arrivati ad una grande rotatoria, ecco il gran finale che incornicia degnamente una giornata perfetta: l’autista fa tre quarti di giro introno alla rotonda, poi mi indica una superstrada ed un cartello che segnala l’aeroporto a 1 km. Non mi resta che scendere e… andare a piedi!!!!

Mentre attraverso a piedi la corsia di accelerazione e trovo rifugio nel prato in parte alla superstrada, guardo l’autobus allontanarsi e comincio a maledire i turchi e tutta la Turchia per la loro inettitudine: non potevano dirmelo prima che l’autobus non arrivava all’aeroporto? Sembrava a tutti così ovvio scaricarmi in mezzo all’autostrada e farmi proseguire a piedi, sotto il sole, con lo zaino pesante e il mal di stomaco? Possibile che siano tutti così stupidi?

Sconsolato, guardo se per caso, nei paraggi, passa qualche altro taxi, o almeno qualche auto cui chiedere un passaggio, ma invano. Sembra di essere nel deserto. Così mi incammino lungo la superstrada, stanco e rassegnato, incerto se sentirmi più arrabbiato o divertito. Ad un certo punto passa un camion: chiedo un passaggio, e il ragazzone alla guida si ferma e mi fa salire; purtroppo, però, non va all’aeroporto, ma uscirà alla prossima uscita della superstrada: va beh, meglio che niente. Mi porta per un mezzo chilometro, poi mi lascia scendere e riparto per l’aeroporto. Non vi racconto la faccia del poliziotto di guardia che mi vede arrivare a piedi, stanco e sudato, con lo zaino in spalla, lungo l’autostrada…

 

Alla fine, eccola qui la mia Turchia. Fatta da gente semplice, per la maggior parte gentile e disponibile, ma anche (e mi dispiace dirlo) decisamente stupida. Certo, la cosa non vale per tutti, ma i molti che lo sono stati mi hanno creato davvero forti disagi. E’ anche vero che un po’ me la sono andata a cercare; ma ho viaggiato da solo, all’avventura, per tre continenti e soltanto in Turchia ho incontrato tante difficoltà, senza poi contare la malattia. Mi dispiace, nonostante tutto sono convinto che Istanbul sia un luogo magico, che ti strega e che ti lascia qualcosa che non trovi da nessun’altra parte del mondo; e consiglierò di andarci a tutti gli amici e a tutti i viaggiatori che incontrerò. Ma, per quanto mi riguarda, con quel paese ho chiuso.

In fondo ormai tutto ciò è passato, ed è già ora di pensare ad un nuovo viaggio.

 

Massimiliano Gallina

professore@nobiltarossoblu.com 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Home ] AFRICA ] AMERICA ] ASIA ] EUROPA ] OCEANIA ]