ECUADOR E LE GALAPAGOS

Racconto di viaggio 2005

di Claudio, Paola & Tommaso

 

 

 

L’Ecuador è un paese molto piacevole ed interessante da visitare, dalla costa nord-occidentale dove vivono i “colorados”, discendenti degli schiavi africani sfuggiti alla deportazione nelle coltivazioni di cotone, alle popolazioni ancora semiprimitive dell’amazzonia nell’est o le città andine e le etnie indie degli altipiani centrali. Naturalmente bisogna tenere conto anche del “fattore G”,  le stupende ed indescrivibili isole Galapagos, celebratissime dalla letteratura e dal cinema, così particolari, che anche scrivendo pagine e pagine non si riuscirebbe che a darne una pallida idea.

Disponendo di un periodo di tempo abbastanza limitato, come le tre settimane di ferie classiche, bisognerà sdoppiare il viaggio in due tempi, uno che comprenda la visita di questo arcipelago sperduto e meraviglioso e un altro completamente dedicato alla parte continentale, dove si potrà passare dal contatto emozionante con le balene sulla costa del Pacifico a Isla de la Plata o a Pedernales, all’esperienza di vivere almeno una giornata in una comunità indios autogestita o presso una tribù amazzonica nel pieno rispetto della natura.

Il nostro primo viaggio in Ecuador ha così riguardato la zona degli altipiani andini, lungo la linea che va da Quito, la capitale, fino a Cuenca e Guayaquil sulla costa e naturalmente le isole Galàpagos, luogo unico al mondo, da cui sono partite le moderne concezioni evoluzionistiche elaborate da Charles Darwin nell’800.

Tenevamo in modo particolare a fare questa esperienza, soprattutto per Tommaso, che a nove anni è appassionato di animali e da grande vuole fare l’etologo (o il pompiere, ancora ha qualche dubbio…).

Sapevamo che sarebbe stato costoso e difficile arrivare là senza una prenotazione dall’Italia, visto che saremmo andati in un periodo di altissima stagione tra luglio ed agosto, ma la nostra avversione per le vacanze programmate accompagnata da una buona dose di ottimismo ci ha consigliato di provare ugualmente, sapendo però che saremmo dovuti scendere a patti con il nostro solito modo di viaggiare in completa autonomia.

Il volo effettuato con la compagnia ecuadoriana LAN, prevedeva uno stop over a Madrid di un intero pomeriggio ed abbiamo potuto visitare in questo modo il Palazzo Reale, il museo del Prado e fare un giro in centro.  Abbiamo poi proseguito senza problemi il volo fino a Guayaquil, la città più grande dell’Ecuador, dove abbiamo preso alloggio in pieno centro, a due passi dal Parque del Centenario, all’hotel Millenio (stanza semplice, ma pulita, tre letti condizionatore e TV per 15$ a notte).

Il livello di vita in questo paese è relativamente basso e se non si frequentano ristoranti  e hotels di livello internazionale si spende molto poco, nonostante l’Ecuador abbia adottato il dollaro americano come valuta nazionale.

La città ci è sembrata subito accogliente, anche se viene descritta dagli ecuadoriani stessi come invivibile e pericolosa. Evidentemente è proprio vero che una volta presa, è difficile scrollarsi di dosso una cattiva nomea… Il lungo malecon fino a qualche anno fa teatro di aggressioni e rapine anche in pieno giorno, oggi completamente restaurato e reso sicuro da una discreta ma efficace presenza della polizia,  è affollato a qualsiasi ora dalla gente a passeggio e specialmente la sera si anima con musica dal vivo e spettacoli in strada. Molto piacevole è la passeggiata nella zona del giardino botanico, dove camminando tra sentieri e ponticelli di legno ci si immerge nella vegetazione tipica delle varie zone del paese.

 

I bambini hanno a disposizione diverse strutture dove scivolare o arrampicarsi come nei migliori parchi giochi, mentre chioschi e carrettini vendono giocattoli e dolci tipici come le mele caramellate o le focaccine di banane fritte.

La costante presenza di cibi fritti è stata una caratteristica dei menù di questo viaggio. Infatti i piatti tradizionali si basano specialmente sul maiale cucinato nell’olio bollente, dalla cotica croccante alla chuchugarra, una specialità che ricorda i nostri “ciccioli”, ma se possibile ancora più pesante.

Anche la classica porchetta o altri piatti a base di riso, anch’esso fritto, non fa ricordare la cucina dell’Ecuador tra i primi posti della dietetica.

Il primo impatto con il paese in questo senso, l’abbiamo avuto già a colazione. Siamo andati in un localino vicino l’albergo dove già di prima mattina alcuni pentoloni emanavano effluvi di zuppa di pesce e “guatita”, una zuppa a base di trippa stracotta. Abbiamo convinto con una certa difficoltà il gestore a servirci caffè, latte e biscotti, non riusciva proprio a capire il nostro strano modo di fare colazione…

Durante i giorni trascorsi a Guayaquil abbiamo visitato il Parque Historico dove vivono in semilibertà alcune specie di animali locali, dai pappagalli al bradipo, fino all’arpìa, una specie di aquila e dove sono coltivate molte piante esemplari della vegetazione locale. E’ un luogo piacevole per passare un pomeriggio e per avere un’idea della fauna e della flora equatoriale.

 

 

Una sera siamo saliti al Cerro de S. Ana, una collinetta nord del centro, sormontata da un faro da dove si gode una magnifica vista della città e della sua baia. Tutte le abitazioni, completamente ristrutturate, ospitano locali dove viene suonata musica dal vivo e dove si può mangiare o bere una birra. Questo quartiere, una volta in mano alla malavita locale tanto che non vi si poteva entrare, è stato così restituito alla città ed è ora molto frequentato dagli abitanti di Guayaquil per la classica passeggiata serale. Un altro punto caratteristico di questa città è il Parque Bolivares, in pieno centro, chiamato parco de las Iguanas proprio perché è diventato la dimora di una folta colonia di iguane che vivono placidamente tra le aiole e le panchine piene di visitatori o sono appollaiate sui rami degli alberi sopra le teste delle persone sedute sulle panchine. Questi grossi rettili vivono così indisturbati a due passi dalla Cattedrale e dai bei viali liberty dove si svolge la vita cittadina.

 

Nel frattempo ci siamo dati daffare per poter andare alle Galapagos. Per primo ci siamo rivolti all’agenzia Galasam, molto nota e giudicata positivamente dalla guida Lonely Planet, ma l’atteggiamento da imbonitore dell’impiegato addetto alle prenotazioni, che voleva farci credere di aver trovato proprio gli ultimi tre posti in barca (naturalmente a prezzo pieno…), ci ha consigliato di  rivolgersi ad altri.

Naturalmente avevamo ragione. La Dreamkapture, abbastanza difficile da trovare, perché rimane nella zona periferica di Alborada e non ha insegna, ma solo un grande murales coloratissimo, ha fatto al caso nostro. La titolare, una signora canadese molto simpatica ed efficiente si è attaccata al telefono ed ha contattato direttamente il capitano di una barca contrattando il prezzo per noi e ottenendo anche uno sconto supplementare per Tommaso. Alla fine, sorseggiando un buon caffè, abbiamo ottenuto la nostra escursione risparmiando più del 40% rispetto  alla precedente proposta.

La maniera migliore per visitare queste isole è quella di prenotare un giro di una settimana, durante la quale si toccano le isole principali e si riescono a vedere bene tutti gli animali tipici, dalle testuggini giganti alle iguane marine, dalle sule e alle fregate e si possono fare bagni e snorkelling in un’acqua splendida letteralmente insieme ai leoni marini, branchi di pesci colorati, mante e… squali, fortunatamente vegetariani, a dire dei marinai locali.

Per andare fino a quelle più lontane sono invece necessari più giorni di permanenza su navi più grandi, ma se non si hanno specifici interessi nel campo dell’etologia, il giro classico riesce a mostrare molto bene le peculiarità del luogo.

 

 

Le Galàpagos non sono certamente economiche da visitare, a cominciare dal volo (durata due ore 322,00 dollari a testa), alla tassa d’ingresso (100 dollari a testa, 50 per i bambini) e al costo del soggiorno in barca che parte dai 450 dollari e arriva… all’infinito!

Se si ha l’opportunità di andare in un periodo diverso dall’alta stagione, è possibile anche arrivare a Santa Cruz, godersi qualche giorno di tranquillità isolana cercando sul molo di contrattare direttamente con i capitani delle barche il prezzo dei posti liberi. Si potrà così risparmiare ancora un po’ e rendere il proprio viaggio maggiormente autonomo.

Scegliere la barca giusta è quindi importante, oltre al costo bisogna tenere conto che si dovrà vivere in ambienti ristretti a contatto con gli altri viaggiatori e l’equipaggio, quindi fattori come la privacy e la pulizia vanno tenuti in considerazione. Un altro fattore importante è il vitto, sia per la qualità che per la quantità, perché durante la crociera non si potrà certamente fare la spesa, visto che le isole sono quasi tutte riserve naturali e disabitate. Sarà bene comprare qualche genere di conforto prima della partenza, tenendo conto che tè, caffè e acqua sono sempre a disposizione e gratis durante la navigazione. Le cabine, almeno nelle barche più piccole, sono tutte a due posti, quindi se si viaggia soli o in numero dispari, si dovrà dividere la propria con uno sconosciuto. Ma c’è ancora una cosa importante: il mal di mare! Anche se non se ne soffre, è bene portare con se una scatola di xamamina, perché una intera settimana di dondolio mette a dura prova anche il lupo di mare più “scafato”.

Questi che ho elencato, sembrano tutti punti sfavorevoli, ma nella realtà la vita di bordo è piacevole e dopo poco si è portati naturalmente a fraternizzare con i compagni di viaggio.

Nel nostro caso, ci siamo trovati molto bene, la nostra barca, la Gaby, era un vecchio yacht di circa 20 metri con otto cabine, un salone comune per i pasti e un ponte superiore per prendere il sole.

 

La navigazione tra le isole è lenta e piacevole, anche in mare aperto ci sono molte cose da osservare, dallo skyline delle isole in lontananza, agli incontri ravvicinati con le fregate che seguono la barca, si può prendere il sole sul ponte e non bisogna dimenticare di portarsi qualche libro, ma la cosa più interessante ovviamente è chiacchierare con gli altri.

L’equipaggio era composto da cinque persone. Il gruppo dei viaggiatori, molto eterogeneo, comprendeva alcune ragazze americane, alcuni inglesi, un canadese una coppia australiana e noi, gli unici italiani.

Ovviamente, essendo gli altri tutti anglofoni, inizialmente abbiamo faticato un po’ per integrarci, ma la presenza di Tommaso che è subito diventato la mascotte del gruppo e dell’equipaggio e la nostra maggiore comprensione dello spagnolo, ha sciolto il ghiaccio ed abbiamo passato molto tempo a chiacchierare con gli altri, componenti dell’equipaggio compresi, ed abbiamo anche cercato di insegnare un po’ d’italiano, a cominciare dalle parolacce, ovviamente.

Tutte le barche hanno un gommone ausiliario che permette di sbarcare sulle isole, molte delle quali non hanno un molo che consenta l’attracco diretto. Inoltre i trasferimenti col gommone permettono di vedere gli anfratti più nascosti e offrono un piacevole diversivo, nel nostro caso amplificato dal fatto che Tommy è riuscito a farsene affidare a volte la guida usando la leva dell’acceleratore come quella di una moto da cross.

Abbiamo così toccato e visitato molte isole e isolotti: Santa Cruz, Isla Rabida, Sombrero Chino, San Salvador, Isla Bartolomè, Mosquera e Seymour, Baltra e Las Plazas, Santa Fe e San Cristobal.

 

A parte le due maggiori, Santa Cruz e San Cristobal, tutte sono disabitate ed a completa disposizione degli animali che le vivono e che, come è noto a tutti, non temono la presenza umana permettendo ai visitatori di avere con essi un contatto veramente ravvicinato.

 

L’esperienza e l’emozione di poter vivere una settimana in questo paradiso, completamente immersi nella natura, dimentichi del resto del mondo rimasto lontano nello spazio e nel tempo, con i dolci ritmi della navigazione, sole e vento sulla pelle, è qualcosa di indescrivibile. Le sensazioni che abbiamo provato, l’esperienza di vita fatta da Tommy, insomma le Galapagos in genere, non possono essere raccontate a parole, quindi io non ci proverò neanche.

 

Le moltissime foto scattate forse riescono meglio a descrivere questo luogo, ma come in ogni viaggio, è sempre difficile trascrivere le emozioni e le sensazioni provate, che così rimangono dentro di noi per sempre…

 

Ora cercherò di raccontare il resto del viaggio che, come già detto, ha toccato solo una parte dell’Ecuador, quella degli altipiani lungo la linea che va da Cuenca a Quito.

 

Cuenca è una piacevolissima città andina tranquilla e sonnolenta con i suoi mercati tipici e gli abitanti di etnia prevalentemente cañar.

Il nostro hotel, il Monasterio (20 $ per la tripla), era situato al sesto piano con l’ascensore in mantenimiento… nella grande piazza San Francisco da dove si godeva una vista stupenda della città, dalle cupole della cattedrale di fronte alle finestre, fino alla corona di montagne sullo sfondo.

Quasi tutti i luoghi che abbiamo visitato si trovano ad oltre 2800 metri di altitudine e, a parte Tommaso che sembrava essere nel suo elemento naturale, faticavamo parecchio ad ogni sforzo e a volte, specialmente dopo una camminata in salita, sentivamo l’affanno per la mancanza d’ossigeno, accentuata dai sei piani di scale da fare più volte al giorno.

Il grande mercato permanente che occupa tutta la piazza San Francisco, è gestito direttamente dagli indigeni quechua ed è una vera festa di colori sia per i prodotti artigianali sui banchi, sia per l’abbigliamento tipico delle venditrici, tutte con le ampie gonne multicolori e col cappello di feltro dall’ampia visiera di foggia diversa secondo l’etnia di appartenenza.

 

La piazza principale, il solito Parque Central, è circondata da ben due cattedrali, una è gigantesca e sormontata da due campanili talmente pesanti che sono dovuti rimanere incompiuti per non rischiare che sprofondassero nel terreno…, l’altra è invece più piccola e più antica, risalente alla metà del 500 ed è nota per essere stata usata nel 700, come uno dei tre punti necessari per la misurazione esatta dell’equatore.

Una passeggiata lungo le vie e le calles del centro di Cuenca è piacevole e rilassante, la gente tranquilla e curiosa verso gli stranieri, si presta ben volentieri al colloquio.

Ma la giornata più interessante è stata la seguente, che abbiamo passato in una comunità indigena, attraverso il Mamà Kinua Cultural Center, gestito autonomamente dai quechua, di etnia cañar, una delle più diffuse del paese.

Il programma prevedeva la visita di un villaggio ed il coinvolgimento di alcuni abitanti che ci avrebbero accompagnato in una escursione sugli altipiani alla ricerca di piante medicinali e ci avrebbero fatto vedere le loro coltivazioni di mais.

Il tutto sarebbe culminato con una “pampa mesa”, cioè un pranzo tradizionale sull’erba con la cucina semplice e genuina della comunità.

Ci siamo ritrovati quindi il mattino presto insieme ad altri quattro partecipanti, due francesi e due canadesi, davanti alla sede del centro, dove abbiamo conosciuto Alfonso, un indio allegro dal viso che sembrava scolpito sulla parete di un tempio, che ci avrebbe fatto da guida. Il mezzo di trasporto, anch’esso tipicamente locale, era un vecchio taxi station wagon dove siamo entrati tutti, io ed Alfonso addirittura nel bagagliaio.

Abbiamo quindi passato la giornata comminando su sentieri vecchi di secoli che i contadini chiamano per nome, come le vie delle nostre città; abbiamo conosciuto le donne dei villaggi della comunità che un po’ ciascuna hanno contribuito a preparare e cucinare il pranzo per noi. Alfonso ci mostrava le piante che via via incontravamo lungo il cammino e ce ne spiegava l’uso terapeutico che ne facevano gli sciamani. Eravamo accompagnati da alcuni ragazzini a cavallo con i quali Tommaso, l’unico del gruppo che non soffriva di problemi di altitudine, ha cominciato a giocare senza problemi.

 

La pampa mesa è stata preparata direttamente sul prato, i vari cibi, sistemati lungo una stuoia erano vegetali, mais, uova e patate, arrosto di maiale e di.. cuy, ovvero porcellino d’india o cavia che è un piatto tipico molto apprezzato ed effettivamente gustoso, anche se qualcuno degli ospiti ha preferito non valutare direttamente.

 

 

Alfonso e gli altri si esprimevano in spagnolo, così noi, facendo da i traduttori per altri viaggiatori, abbiamo apprezzato, almeno per una volta all’estero, la nostra superiorità linguistica!

Più volte durante il percorso, la nostra guida ha improvvisato canti di saluto e di ringraziamento, accompagnandosi con la sua chitarra e con il tamburo suonato da una ragazza del posto.

 

Nel pomeriggio abbiamo addirittura macinato a pietra il mais tostato con il quale sono state poi preparate delle ottime focacce che abbiamo innaffiato con un distillato di mais prodotto localmente. Questo ci ha dato la forza per ripercorrere il tragitto fino al villaggio da cui eravamo partiti, fermandoci anche a raccogliere un paio di sacchi di mais per la comunità.

Ho raccontato abbastanza dettagliatamente questa escursione perché, sebbene fatta ad uso turistico, è gestita in maniera completamente autonoma dagli indios (prova ne è l’organizzazione un po’ approssimativa), ma proprio per questo più vera e meritevole di essere conosciuta e diffusa tra i viaggiatori che in questo modo possono contribuire al sostegno dell’autonomia delle etnie locali ed allo sviluppo della cooperazione. Il costo a persona di 33 dollari è forse un po’ caro, ma tutti destinati direttamente ai componenti della comunità e per questo sono sicuramente ben spesi.

Molto piacevole è stata anche la giornata passata a Baños, una cittadina termale a pochi chilometri di distanza, famosa per le sue piscine dalle acque calde e solforose dove ci siamo rigenerati e rilassati.

La sera prima della partenza abbiamo avuto la fortuna di assistere a un concerto di musica popolare nell’ambito della “II Asamblea Mundial por la Salud de los Pueblos”. Segnalo, per coloro che avranno la possibilità di incontrarli, il gruppo “Tambores y otros demonios”, che hanno fatto letteralmente saltare in aria il pubblico con i loro ritmi frenetici. Un momento particolarmente toccante è stato invece, a chiusura della manifestazione, l’intervento di una “Abuela de Plaza de Majo”, una nonna di desaparecidos argentini… non ci sono parole.

La mattina dopo, eravamo in viaggio lungo la Panamericana verso Riobamba, la “Sultana delle Ande”. Al centro di un altopiano con uno dei panorami più belli dell’Ecuador, le montagne innevate in lontananza e il Chimborazo, la vetta più alta del paese che l’ha resa un importante centro di attività alpinistica, questa bella città, importante nodo commerciale indigeno, è nota soprattutto per essere il punto di partenza di uno dei più bei tragitti ferroviari del mondo, ovvero il treno per “La Nariz del Diablo”.

Questo è l’unico treno ancora in servizio in Ecuador, anche se ormai è principalmente un itinerario turistico, e il suo percorso da brivido si snoda da Riobamba ad Alausì, lungo il costone di una montagna (la Nariz del Diablo, appunto) in una discesa mozzafiato. Per superare il dislivello di oltre 1000 metri, il convoglio va avanti e indietro lungo i tornanti della montagna e i binari si affacciano su scoscesi dirupi senza alcuna protezione.

La maggior parte dei viaggiatori compie questo percorso in precario equilibrio sul tetto dei vagoni, dei quali solo alcuni sono provvisti di una piccola protezione sul bordo, ma i più coraggiosi secondo me sono i venditori ambulanti di bibite, banane fritte e persino gelati, che percorrono tutti i vagoni camminando sul tetto, facendosi strada tra la calca dei turisti con il pesante fardello della loro mercanzia. Un vero e proprio esercizio di equilibrio, eguagliato solo da quello che fanno i ferrovieri in servizio per raggiungere tutti i passeggeri e forare loro il biglietto!

 

Comunque ci sono anche un paio di carrozze con i sedili dalle quali si può ammirare il panorama in maniera un po’ più sicura, basta solo ricordarsi di sedere nella fila di destra, altrimenti si vedrà solo la roccia che scorre appena fuori dai finestrini.

Siamo quindi arrivati in città nel primo pomeriggio e abbiamo alloggiato all’Hotel Tren Dorado, che a due passi dalla stazione è frequentatissimo da viaggiatori ed alpinisti. Le camere sono belle e pulite e, contrattando un po’ si possono avere a 13 dollari. Molto piacevole è anche il ristorante dell’albergo, che ha buoni prezzi e il sabato mattina, in concomitanza con la partenza del treno, apre alle 5 per la colazione.

In stazione, ogni pomeriggio si possono acquistare direttamente i biglietti per l’unica partenza settimanale del treno, il sabato alle 6.30, bisognerà solo fare la fila insieme agli altri viaggiatori e pagare 16 dollari a testa (5,50 i bambini). Visto il modo di viaggiare, ovviamente non ci sono problemi di esaurimento dei posti, bisognerà solo evitare di arrivare all’ultimo momento il giorno della partenza.

Il tragitto in tutto dura circa tre ore, compresa una sosta in fondo al burrone per ammirare il monte dal basso, da dove effettivamente si ha l’impressione di vedere un grosso naso bitorzoluto che spunta dal terreno. Risalendo il costone si arriva ad Alausì, dove dopo la caotica riconsegna dei bagagli, che sembra l’asta del pesce di Bangkok, il servizio finisce.

Peccato non aver potuto visitare questa piccola cittadina tra le montagne, le strade del giorno di mercato piene di indios con le loro mercanzie avrebbero meritato una sosta più lunga, ma l’autobus per Latacunga era già in partenza.

Questa è una città abbastanza moderna, in quanto tra il 1742 e il 1877 è stata completamente distrutta per ben tre volte dalle eruzioni del vicino vulcano Cotopaxi, ma i suoi abitanti ai quali non manca certo la caparbietà, l’hanno sempre ricostruita utilizzando la pietra scura della lava solidificata come materiale edilizio, perciò molti edifici hanno un aspetto un po’ tetro, come ad esempio il municipio.

 

Molto frequentata dagli alpinisti che vogliono affrontare la scalata del vulcano al momento sopito, Latacunga può fungere da base per visitare uno dei più grandi mercati indigeni dell’Ecuador, che si tiene settimanalmente nel vicino villaggio di Saquisilì.

A proposito di questi grandi luoghi di incontro e di scambi commerciali tra gli indios che avvengono un po’ dovunque sugli altipiani andini, bisogna ricordare che oltre a questo, molto famoso è quello che si svolge il sabato ad Otavalo, a nord di Quito. Dovendo necessariamente fare una scelta, abbiamo optato per Saquisilì perché è meno contaminato dal turismo rispetto all’altro, ben più vicino alla capitale del paese e con la zona dedicata all’artigianato aperta tutti i giorni a beneficio delle esigenze dei gruppi organizzati dai tour operators.

Arrivati in città nel primo pomeriggio, abbiamo subito trovato una buona sistemazione direttamente sul Parque Vincente Leon dove si trova l’Hotel Cotopaxi (20 dollari a notte) che condivide la piazza con il Municipio, la Cattedrale e un lungo porticato sempre frequentatissimo da venditori ambulanti.

Viaggiando con un bambino di nove anni, tutti gli alberghi che abbiamo utilizzato rispettavano uno standard discreto, bagno in camera con acqua calda, due o tre letti e a volte anche la televisione, molto apprezzata dal piccolo viaggiatore e motivo di vibrate proteste quando invece era assente…

In un angolo della piazza c’è il ristorante “Pizzeria Bon Giorno”, definito dalla Lonely Planet come ottimo ristorante italiano, ma la carbonara alla panna era appena passabile, mentre la pizza è in puro stile americano. E’ un buon posto solo se si è colti da irrefrenabile nostalgia di casa, altrimenti sono preferibili i ristorantini locali. Io sono convinto che in ogni paese che si visita sia bene cercare di adattarsi il più possibile alla cucina locale che, oltre ad essere spesso gustosa e sempre molto più economica delle cucine “esotiche”, è soprattutto un modo per conoscere uno degli aspetti culturali più rilevanti di ogni società.

L’indomani mattina, ci siamo concessi il piccolo lusso di percorrere i 15 chilometri verso Saquisilì in taxi piuttosto che in bus e con una spesa comunque contenuta abbiamo potuto fare quattro chiacchiere con il tassista dalle lontane origini pugliesi.

Siamo potuti così arrivare abbastanza presto, mentre il mercato iniziava la sua brulicante giornata di attività.

Il mercato indigeno di Saquisilì si svolge ogni giovedì per gli abitanti dei villaggi più isolati degli altipiani centrali che qui si incontrano per vendere o acquistare ogni genere di mercanzia, dagli animali vivi ai medicamenti tradizionali fino a ogni sorta di manufatto, compresi i fucili fatti a mano.

 

Si svolge in una decina di piazze molto grandi, ognuna delle quali è dedicata ad un genere di merce. Eccezionale è il colpo d’occhio che si ha guardando gli indigeni contrattare animatamente, quasi tutti col loro poncho colorato ed il cappellino di feltro in testa.

La parte più divertente è la piazza dedicata al commercio di animali, dove in una confusione di grugniti e belati, vengono scambiate intere ceste di galline, caprette e maialini recalcitranti.

Nella piazza dedicata alla ristorazione, fin dal primo mattino colonne di vapore si alzano dai fuochi improvvisati dove si mettono a bollire le galline per il brodo o si sente lo sfrigolare delle cotenne di maiale nell’olio bollente. Odori e sapori si mescolano mettendo a dura prova il nostro stomaco da caffelatte. All’ora di pranzo centinaia di tavoli si riempiono e si fa festa, sorbendo una zuppa calda o rosicchiando un piatto di maiale fritto col contorno di mais.

Naturalmente c’è anche una zona con prodotti artigianali quali tessuti e maglioni o terrecotte variopinte e qui abbiamo incontrato i pochi turisti intenti ad acquistare qualche souvenir. Anche noi abbiamo approfittato per comprare qualche regalino ed io mi sono concesso un cappello, un autentico “montecristi” che assicurano gli ecuadoregni, sia migliore del più celebre panama.

Abbiamo passato quasi tutta la giornata al mercato senza mai annoiarci, Tommy correva da una parte all’altra sempre alla ricerca della sua passione, gli animali, Paola chiedeva informazioni di tutte le erbe ed io, con l’aria da gringo ed il panama in testa, assaggiavo ogni “specialità”.

Infine, dopo una breve passeggiata serale, tutti a letto, pronti per la partenza del mattino verso Quito, la nostra ultima tappa.

Un centinaio di chilometri e due ore di autobus, durante le quali una decina di venditori di dischi, caramelle e dolci, rimedi contro le emorroidi o ricostituenti, hanno eseguito il loro piccolo show nel corridoio, ci hanno portato nella polverosa e caotica stazione degli autobus di Quito, il Terminal Terrestre de Cumandà.

Tutti ci avevano dipinto la capitale dell’Ecuador come una città particolarmente pericolosa e difficile da visitare, ma, seguendo le solite piccole regole di buon senso, per noi si è mostrata accogliente e relativamente tranquilla, nonché bellissima specialmente nella parte vecchia in stile coloniale.

La parte settentrionale è la zona moderna, che assomiglia, con i suoi grattacieli e le grandi strade a più corsie, a qualunque altra capitale del mondo. Qui sono dislocati i migliori alberghi, le agenzie turistiche, il quartiere notturno con locali alla moda e gli ottimi ristoranti, le vie eleganti con bei negozi, i ministeri e le ambasciate ecc…

Ovviamente noi siamo andati a sud, nella città vecchia, dichiarata dall’Unesco “patrimonio dell’umanità” con le sue chiese barocche, dove si districano le strette stradine acciottolate e le piazzette sulle quali si affacciano i balconi in legno delle vecchie case coloniali. Qui piccoli negozi gestiti da anziane indie e artigiani al lavoro sui marciapiedi davanti alle loro botteghe davano un’aria vagamente retrò ed il ritmo di vita della gente appariva sensibilmente più lento. E’ incredibile come due città così diverse tra loro possano coesistere e fondersi in un’alta valle a 2900 metri, circondata dalle vette andine.

 

A due passi dalla piazza Santo Domingo, nel cuore del centro storico, ai piedi del Panecillo, la collinetta sormontata da una gigantesca statua della Madonna diventata il simbolo della città, abbiamo trovato il nostro albergo, il Grand Hotel. Al prezzo di soli 13 dollari, abbiamo ottenuto una stanza con due grandi letti, ma soprattutto abbiamo trovato un’atmosfera accogliente e familiare, oltre alle ottime colazioni preparate con marmellate fatte in casa dalla proprietaria molto cortese ed efficiente.

Abbiamo così passato alcuni giorni a Quito, girando per la città, visitando tutti i luoghi più interessanti, chiese ridondanti di dorature o belle strutture come il convento di San Francisco, il palazzo Presidenziale con  le guardie d’onore, ma anche le gallerie commerciali ed i cafè all’aperto, però il divertimento maggiore è stato il girare senza meta a piedi o con la comoda metropolitana di superficie “el Trole” che collega rapidamente le due estremità della capitale. Proprio sul Trole abbiamo avuto l’unico e patetico tentativo di furto, quando nella calca, qualcuno ha infilato una mano in una tasca del mio giubbotto trovandovi solo… una banana, la merenda di Tommaso.

 

Uno splendido panorama si gode dalla cima del Panecillo, dal grande piedistallo della statua della Madonna. Abbiamo dovuto contrattare con un tassista il prezzo perché ci aspettasse il tempo di scattare qualche foto e fare due passi sempre nei pressi della statua, che pare sia una specie di zona franca per i locali malfattori.

Infatti è da tutti caldamente raccomandato di non avventurarsi da soli lungo le stradine di questa collinetta, perché il rischio di essere rapinati a qualunque ora del giorno, rasenta il 100%...

E’ un vero peccato che una zona così bella sia lasciata in mano alla malavita, mentre potrebbe diventare meta di viaggiatori e turisti che forse contribuirebbero all’economia locale in modo ben più consistente che con le rapine.

Anche uscire di sera nella città vecchia non è molto consigliato, ma noi avevamo formato un piccolo gruppo con due amici conosciuti in albergo, Armando e Alvaro, l’uno cileno e l’altro argentino, con i quali abbiamo passato molte ore a chiacchierare davanti ad una buona birra nei locali del centro.

Durante i giorni passati a Quito, abbiamo avuto anche il tempo di fare un paio di escursioni, la prima, doverosa se non si è mai stati in Ecuador è la “Mitad del Mundo”, ovvero il punto esatto dell’equatore, con latitudine 0°-0’-0”, misurato verso la metà del 1700 da un gruppo di scienziati francesi.

 

Il posto è essenzialmente costituito da un alto monumento che indica il punto della misurazione, un complesso turistico con negozietti di souvenirs e una lunga linea rossa che attraversa case e piazzette, la linea dell’equatore.

A proposito, è proprio vera la storia che i vortici creati dall’acqua defluendo dentro un lavandino, girano in senso contrario nei due emisferi, in senso orario a nord, antiorario a sud.

La Mitad del Mundo si può raggiungere comodamente dalla capitale con un paio di autobus e vi si può passare una mezza giornata in modo piacevole, mancando quasi completamente la ressa di turisti in gruppi organizzati che solitamente si trova in luoghi come questo; particolarmente interessante è stata l’escursione sulla cima del vulcano Pululahua, che ha il cratere abitato più grande del mondo.

L’altra breve gita l’abbiamo fatta ad uso e consumo del piccolo Tommaso al quale avevamo promesso una giornata di relax in piscina. Abbiamo raggiunto per questo il sobborgo meridionale lungo la Panamericana, dove sorge il Balneario San Rafael,  con tre piscine e scivoli per il divertimento dei piccoli, ma anche degli adulti. Prendere il sole e fare un tuffo a 2700 metri sul mare è stato molto rilassante in vista dell’ormai imminente ritorno a casa.

L’ultimo giorno, l’abbiamo dedicato alla visita della zona elegante di Mariscal Sucre nella città nuova e per questo abbiamo anche cambiato albergo, il Loro Verde - 15 dollari -  situato in un viale alberato proprio al centro del quartiere.

Una visita alle discoteche davanti alle quali i rampolli della Quito benestante fanno rombare i loro fuoristrada, un cocktail in un locale alla moda, luci e colori  simili a tanti altri posti al mondo non ci hanno entusiasmato, così lontane dai silenzi andini e dalla magia delle Galapagos che ancora ci accompagnavano.

E così l’indomani, decollando tra le montagne, pensavamo già di ritornare in Ecuador.

 

 

Claudio   clang1@virgilio.it 

 

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