IL FRIULI VENEZIA GIULIA una felice riscoperta ...
Appunti di viaggio, 2004

di Simona Dragoni

 

Di ritorno la scorsa estate dalla Croazia, mi sono fermata nel Friuli Venezia Giulia, precisamente, ho soggiornato a Lignano Sabbiadoro e da lì mi sono spostata. Ho riscoperto i sapori e i paesaggi antichi.
Incomincio a narrarvi Trieste, molto suggestiva con una delle piazze più belle d’Italia...

Un po' di storia di TRIESTE...... (ritornata all’italia nel lontano 1954)

Sede di un Castelliere preistorico e crocevia di popolazioni venete, istre, carniche e gallo-celtiche, l'antica Tergeste fu, sin dall'antichità, un' importante centro di scambi commerciali. Dopo aspre lotte, nelle quali il popolo degli Istri fu sconfitto dalle legioni romane, la città entrò a far parte della "X Regio Venetia et Istria" e nel 56 a. C., ai tempi di Cesare, venne elevata a Colonia romana. Nel 33 a.C., per volere del Console Ottaviano, fu cinta da solide mura, di cui rimane soltanto la porta meridionale, il cosiddetto Arco di Riccardo. Durante il periodo traianeo e fino alla caduta dell'Impero Romano visse un lungo periodo di prosperità; fu data sistemazione alla zona del foro, fuori delle mura, in prossimità del mare, sorse il teatro e lungo la riviera numerose ville mentre ben tre acquedotti la rifornivano d'acqua. Il Cristianesimo, che penetrò discretamente nella società dal II sec. d. C., ebbe molti martiri anche a Trieste tra i quali Giusto, eletto patrono della città. Nel Medioevo fu assoggettata da Goti, Longobardi, Bizantini e Franchi e nel X secolo Lotario III la rese feudo vescovile. La città riscattò la sua libertà solo nel XII e XIII sec., quando si costituì libero comune. Tra i sec. XIII e XIV dovette subire frequenti atti di sottomissione alla Repubblica Veneta (terribile fu l'assedio - saccheggio del 1368); negatogli l'aiuto dei signori italici, nel 1382 cercò la protezione di Leopoldo III d'Asburgo, evento che segnò il destino politico di Trieste per oltre cinquecento anni. Nel 1719 per merito della lungimirante politica di Carlo VI fu dichiarata porto franco, istituto che conferì alla città un ruolo economico e culturale di grande importanza. Tale situazione di benessere fu ulteriormente sviluppata da Maria Teresa d'Austria che, concedendo immunità e franchigie, richiamò mercanti ed imprenditori da tutta Europa. Dopo l'invasione dei francesi tornò all'Impero austriaco che potenziò ulteriormente il porto, le industrie e le società di navigazione. In seguito al lento ed irreversibile declino dell'impero asburgico, il 3 novembre del 1918 Trieste passò all'Italia. Dopo l'armistizio del 1943, Trieste e la Venezia Giulia costituirono provincia a sé stante ma amministrata dal governo germanico. Dopo la liberazione dalle truppe tedesche, la città subì l'occupazione delle truppe Titine, per quaranta terribili giorni, finchè non passo sotto il controllo degli alleati. Tornò finalmente Italiana solo il 26 ottobre 1954. Nel 1977 il trattato di Osimo segnò definitivamente i confini con la Jugoslavia (Slovenia e Croazia).
Oggi Trieste è al contempo il capoluogo della provincia meno estesa d' Italia ed anche capoluogo della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia.
Molti furono i fattori che, nel corso dei secoli, concorsero a donarle quell'atmosfera così particolare e tanto cara ad alcuni tra i massimi nomi della cultura internazionale come James Joyce, Sigmund Freud, Rainer Maria Rilke, Giovanni Winckelmann, per non parlare dei suoi Umberto Saba, Scipio Slataper, Italo Svevo.

Trieste è una città diversa dalle altre e come tale dev'essere visitata in modo diverso. Se anche è ricca di musei, ben forniti di opere d'arte antica e moderna, è solo girando per le sue strade, sostando nelle sue piazze che si riesce a conoscerla veramente, ad afferrare il significato di quell'aria strana, tormentosa - come la definì Umberto Saba - che circola ovunque e la rende in ogni parte viva.
Le sue strade sono un succedersi ininterrotto di palazzi, per lo più neoclassici, maestosi, severi eppure discreti, che le conferiscono un aspetto simile a quello di tante altre città europee: Vienna, Budapest, Lubiana, e che spesso, all'interno, nascondono splendidi arredamenti. Non si dimentichi che nell'Ottocento il collezionismo triestino fu un fenomeno di singolare importanza: i ricchi uomini d'affari, che giravano il mondo, avevano la possibilità di acquistare gli oggetti più disparati, quelli che poi, in parte, confluirono nelle ricchissime e varie collezioni dei musei.
Una passeggiata che partendo dalla stazione (punto d'arrivo anche per chi giunge in macchina) tocchi le Rive, piazza Unità, Cavana, piazza della Borsa, il Corso, piazza Goldoni e via Carducci, sarà sufficiente per entrare nello spirito della città. Ciò fatto, si potrà salire a San Giusto e visitare chiese e musei.
Partendo da piazza Libertà (o piazza della Stazione), si imbocca corso Cavour (bello il Palazzo delle Assicurazioni Generali, del Geringer, 1881) e si giunge al Canal Grande, scavato nel 1756 perché i velieri potessero scaricare le merci fin dentro la città. Il canale infatti giungeva fino alla chiesa di S. Antonio nuovo, mentre ora risulta interrato nell'ultimo tratto e, anche a causa del ponte fisso che impedisce il passaggio di navi a vela, non può essere frequentato che da piccole imbarcazioni.
Il canale, attraversato nel suo punto superiore da un ponte, detto Ponterosso, che dà il nome alla zona, scenograficamente chiuso dalla chiesa di S. Antonio, è fiancheggiato da bei palazzi, tra i quali il maggiore è quello che fa angolo con Riva III Novembre: è il Palazzo Carciotti, ora sede della Capitaneria di Porto, eretto su progetto di Matteo Pertsch e portato a termine nel 1806: molto imponente e articolata la facciata, dominata al centro da sei grandi colonne che si impostano sul rustico bugnato della parte inferiore e che terminano con una balaustrata sormontata da sei statue (Minerva, la Fama, la Giustizia, Mercurio, l'Abbondanza, Silvo, dello scultore A. Bosa), dietro la quale si alza su alto tamburo una cupola rivestita di rame: molto bella la parte di rappresentanza interna, soprattutto l'atrio, lo scalone adorno di statue e la sala circolare al piano nobile.
Proseguendo, mentre sulla destra si costeggia il mare (bacino di S. Giusto), a sinistra si ha l'Hotel de la Ville (arch. Giovanni Degasperi, 1839), oggi sede bancaria, dove il Verdi compose la sinfonia dello Stiffelio, e poi la chiesa di S. Nicolò dei Greci, piazzetta Tommaseo, con il celebre antico Caffè che fu centro di fermenti patriottici ed è tuttora luogo frequentato da artisti, e, dopo aver lasciato a destra il molo Audace, la grande piazza Unità, uno dei punti più belli della città.
La sua attuale sistemazione, con la vista che spazia sul mare e sulla affascinante costiera triestina, risale alla fine dell'Ottocento, quando vennero completati i lavori di abbattimento degli edifici che creavano una strettoia verso piazza della Borsa (la chiesa di S. Pietro, ad esempio, di cui venne salvato il solo rosone, prima portato nei Musei civici e poi montato sulla facciata della chiesa di S. Bartolomeo a Barcola, dove tuttora si trova) o di quelli che impedivano l'accesso al mare; Teatro Vecchio, le Prigioni, e la famosa locanda Grande nella quale l'8 giugno 1768 era stato assassinato il noto archeologo tedesco Giovanni Gioacchino Winckelmann.
Oggi lo splendido, enorme rettangolo della piazza è delimitato perfettamente da imponenti palazzi: in fondo, il Palazzo Comunale, la cui costruzione fu iniziata nel 1872 su progetto dell'architetto triestino Giuseppe Bruni (1827- 1877): è costituito da un corpo centrale aggettante, ornatissimo, sul quale si imposta la Torre dell'Orologio, e da due ali di più semplice fattura.
Da notare il ricchissimo gioco di luci e di ombre creato dalla ben calibrata disposizione dei vuoti e dei pieni. Sul lato nord est, il Palazzo Modello, eretto nel 1870 al posto della chiesa di S. Pietro su modello dello stesso Giuseppe Bruni (cui si deve anche l'idea della sistemazione urbanistica della piazza); casa Stratti, che ospita il Caffé degli Specchi, uno dei più antichi di Trieste, inaugurato nel 1839, oggi totalmente rimesso a nuovo; il Palazzo del Governo, del viennese E. Artmann (1904) con facciata rivestita di pietre bianche e mosaici e con un portico con loggia a tre arcate sporgente; sul lato opposto della piazza, Palazzo Pitteri (1780, costruzione di Ulderico Moro) ed il Palazzo del Lloyd Triestino del viennese E. von Ferstel (1880-1883), palazzo cioè della più antica società di navigazione d'Italia ed una delle più antiche del mondo.
Da piazza Unità si possono fare quattro passi tra le pittoresche vie di Cavana, che è la caratteristica parte vecchia della città; oppure, raggiungere a sinistra la vicinissima Piazza della Borsa, con l'imponente Palazzo della Borsa, dal profondo pronao e dalle enormi statue allegoriche, dovuto all'architetto marchigiano Antonio Mollari, vincitore del concorso bandito nel 1799 ed incaricato del lavoro nel 1802; il salone del primo piano è affrescato da Bernardino Bison.


Piazza Unità d'Italia


Poco distante da piazza della Borsa (dove va visto anche il grande Palazzo del Tergesteo, con galleria, opera dell'arch. Buttazzoni, 1840, su disegno del milanese Pizzola), è il Teatro Verdi (il primo teatro d'Italia intitolato a Verdi) costruito su progetto del noto architetto veneziano Antonio Selva (autore del Teatro La Fenice di Venezia) e con facciata (1801) del triestino di origine tedesca Matteo Pertsch che ebbe a modello la Scala di Milano.
Si imbocca quindi il Corso Italia, detto anche semplicemente Corso, la maggior arteria cittadina, dal passeggio e dal traffico sempre intensissimi, fiancheggiato, anch'esso, da interessanti palazzi (tra cui, all'inizio, il Palazzo neoclassico progettato dal Pertsch; la Casa Ananian di G. Polli, ecc.). Si giunge quindi in Piazza Goldoni, nella quale più vie convergono e dalla quale partono la Scala dei Giganti che porta a San Giusto e la Galleria Sandrinelli, costruita nel 1904 e lunga 347 metri che, con il prolungamento della galleria di S. Vito (1912, lunga 481 metri) consente di raggiungere rapidamente la zona industriale.
Dalla piazza si giunge in Via Carducci, l'altra importante via cittadina, costruita sul letto di un torrente completamente coperto nel 1850 (ed infatti si chiamava via del Torrente). Alla fine del Settecento, un ponte gettato all'altezza dei Portici di Chiozza segnava il limite della città, oltre il quale iniziava la distesa degli orti. Via Carducci, con i suoi severi palazzi, con la sua ampiezza, con gli alberi che la abbelliscono, con i bei viali che da essa si dipartono (in particolare Viale XX Settembre, affettuosamente chiamato Viale oppure Acquedotto, perché in origine vi passava l'acquedotto teresiano) mostra a sufficienza l'impianto austriacheggiante che dominava la Trieste ottocentesca.

Il Colle di San Giusto.
Il cuore di Trieste, oggi, si è spostato in basso, ma certamente la Trieste antica è nata sul celebre colle, dal quale la vista spazia sulla città, sul golfo, e lontano, sul Carso: là dove ancora rimangono i più significativi monumenti, i più ricchi di storia e d'arte: la basilica romana, il castello, la cattedrale di San Giusto.


Il sito fu abitato fin dall'epoca romana, come testimoniano, sul grande piazzale del colle, i resti della basilica Forense del II secolo d.C., che doveva essere lunga 88 metri e larga 23,50, a giudicare dalle colonne superstiti (anche se solo limitatamente alle basi): due colonne sono state ricostruite in cotto con frammenti originali.
Della lontana, primitiva origine del Castello rimangono numerosi ricordi storici, così come delle sue molteplici distruzioni. Nel 1470 Federico III fece iniziare la costruzione di quello che è l'attuale castello e stabilì che le spese fossero sostenute dalla popolazione. La torre quadrata e l'edificio che ospita il Museo appartengono proprio a questo periodo. In seguito i veneziani, durante la loro breve occupazione del 1508, aggiunsero il bastione rotondo; gli Austriaci, ripresa Trieste l'anno seguente, ultimarono il lavoro intrapreso e fecero proseguire l'edificio sotto la direzione dell'architetto triestino Gerolamo Decio. Ampliamenti si ebbero a metà del Cinquecento e soprattutto nel primo decennio del Seicento, allorché il Castello, per opera di Pietro de Pomis, venne ultimato, con l'inglobamento delle costruzioni federiciane in tre ampi bastioni collegati con cortine.
Non ebbe però mai, il castello, funzioni militari (un po' come la fortezza di Palmanova); divenuto nel 1930 di proprietà comunale, fu attrezzato a scopo turistico (bellissima infatti è la passeggiata sulle mura che dà la possibilità di godere di un ampio panorama sui tetti della città, sul mare e sulla costiera, sul retrostante Carso), tanto che oggi nel suo capace cortile si proiettano films e si tengono spettacoli teatrali.
Fu anche creato il Museo del Castello, che pur contando qualche pezzo d'arte (una statua lignea di tipo friulano del XV secolo; una tela attribuita a Carlo Loth, ca. 1630, con il Trionfo di Venezia, ecc.) si qualifica soprattutto per la ricca raccolta di armi, molte delle quali provenienti da collezioni private; armi da taglio, da botta, da fuoco, dal secolo XVII in poi, oltre a corni da polvere e cartuccere: il tutto permette di seguire l'evoluzione storica delle armi.


La Basilica di San Giusto.
È la cattedrale di Trieste ed è anche l'edificio più famoso della città, con la sua facciata irregolare, il raffinato ricamo del rosone, il tozzo campanile. Riassume in sé quasi duemila anni di storia; sul luogo, infatti, sorgeva già nel I secolo d.C. un vasto propileo in pietra di Aurisina, con colonne distribuite in due avancorpi collegati da una scalinata, sul tipo dell'altare di Pergamo: da esso si accedeva ad un recinto sacro. Del propileo sono state rinvenute cinque colonne che si vedono all'interno del campanile, parte della trabeazione, che è murata nel campanile, la scalinata del loggiato e frammenti vari. Era un edificio, a quanto si sa, unico nel suo genere in tutta l'Europa romana.
Nel V secolo quivi sorse una basilica paleocristiana a tre navate, con pavimento a mosaico, per la quale ci si servì in qualche misura anche delle strutture del propileo; nel VI secolo, all'epoca del vescovo Frugifero, vennero apportate delle modifiche alla zona absidale. Distrutta anche questa chiesa, alla metà dell'XI secolo venne costruito e dedicato a S. Maria Assunta, probabilmente dal vescovo Adalgero di Eichsstädt, un edificio a tre navate, in parte poggiante sulla precedente costruzione. Sulla destra, in epoca carolingia secondo alcuni studiosi, tra XI e XII secondo altri, venne edificato il Sacello di S. Giusto, che fu poi allungato fino a formare una specie di chiesa parallela e gemella. Nel XIV secolo, infine, entrambe le chiese furono private di una navata: la chiesa di S. Maria Assunta della destra, S. Giusto della sinistra: lo spazio che si creò divenne la navata centrale dell'attuale chiesa, alla quale fu data anche la facciata che oggi vediamo. Il lavoro, iniziato dal vescovo Rodolfo Pedrazzani (1303-1320) fu ultimato sotto il vescovo Enrico de Wildenstein (1383-96) che consacrò la nuova chiesa. Non ci furono in seguito modifiche sostanziali. La facciata, forzatamente irregolare per aver dovuto inglobare due differenti chiese, ha terminazione a salienti nella parte destra, mentre nella sinistra si salda al campanile. È in corsi di arenaria, il che permette un violento e sempre vario brulicare della luce; al centro, il trecentesco rosone, con la sua delicata, leggera orditura, data dalla doppia serie di esili colonnine a raggiera di cui quelle esterne legate da un motivo a rosette quadrilobate e archetti trilobati che crea un piacevole effetto di trina.
Presenta tre porte: quella centrale ha degli stipiti particolari, ricavati da una grande stele romana tagliata in due parti, a tre nicchie e frontone, con i busti ad altorilievo di sei personaggi della famiglia Barbia (inizio I secolo d.C.): l'ultimo personaggio in basso a destra fu trasformato in un S. Sergio con l'alabarda simbolo di Trieste, Lapidi e Stemmi abbelliscono la facciata: si guardi la lastra che porta lo stemma e la tiara pontificia di Enea Silvio Piccolomini, che fu papa Pio II e che nel 1448-50 era stato vescovo di Trieste; ed inoltre i tre busti in bronzo (Pio II e i vescovi Rapicio, umanista, e Rinaldo Scarlicchio che ritrovò le reliquie di S. Giusto) opera di Alberto Brestyanszhy (1862) direttore del l'atélier dello scultore triestino Giuseppe Capolino e suo successore.
Il campanile fu innalzato nel 1337 ad opera di Randolfo de' Baiardi ed ultimato nel 1343 in guisa di massiccio torrione, cui l'uso di grandi blocchi di arenaria adoperati per la costruzione conferisce ancor più carattere di severa forza. Riveste il precedente campanile romanico che a sua volta inglobava parte del propileo romano. Vi è murato un fregio romano (dal frontone del propileo) con armi, corazze; sopra la porta una figura di S. Giusto di epoca gotica (con testa romana riadattata). Nella cella campanaria, dalla quale si gode un magnifico panorama, cinque campane, tra le quali il celebre campanon del peso di 4900 chilogrammi, fuso in Austria nel XIX secolo.
All'interno, la chiesa si presenta come una basilica cristiana a cinque navate. Ha copertura lignea a carena di nave rovesciata (il soffitto fu rifatto nel 1905) e capitelli di varia foggia e di varia epoca che stanno a testimoniare il complesso iter costruttivo dell'edificio. L'acquasantiera, modesto pezzo di plastica trecentesca, con decorazioni a fogliami, a dentelli, a treccia, è sormontata da una statuetta in bronzo di S. Giusto scolpita da Marcello Mascherini nel 1946.
Tra le tante opere d'arte di cui la chiesa è ricca, certamente i più appariscenti sono i mosaici absidiali e parietali. L'abside dell'ex chiesa dell'Assunta (prima a sinistra rispetto all'abside centrale) è decorata con un mosaico raffigurante la Vergine in trono tra gli Arcangeli Michele e Gabriele e, nella fascia inferiore, i dodici Apostoli. È opera di maestranze venete-ravennati dell'inizio del XII secolo, per certi raffronti abbastanza convincenti, sul piano stilistico, con alcune figure dei primi mosaici di S. Marco o con frammenti della basilica Ursiana di Ravenna (datati al 1112), mentre l'iconografia porta ad un confronto con quelli di Torcello, dove però maggiore è lo schematismo nell'esecuzione.
Seduta su un trono di aerea lievità e tenendo in braccio il Bambino benedicente, la Vergine, ieratica sullo sfondo d'oro, domina la composizione ed a lei si inchinano, reverenti, gli arcangeli. Nella fascia inferiore si snoda la teoria degli Apostoli, disposti con la solita visione bizantina, separati da una pianticella fiorita, abbastanza diversificati nelle tipologie e negli atteggiamenti. Nella parte destra una finestrella, murata nel 1438, interrompe la teoria senza però troppo disturbare la composizione, anzi conferendole quasi una nota di vivacità. Nell'abside dell'ex sacello di S. Giusto (primo a destra rispetto all'abside centrale), c'è un altro mosaico che raffigura il Cristo benedicente tra i Santi Giusto e Servulo. È mosaico più tardo di quello dell'Assunta e va riferito al XIII secolo: presenta infatti un carattere neoellenistico che però potrebbe anche essere dovuto a più generose e diffuse inzeppature (Gioseffi) del restauro ottocentesco. Le due figure sono isolate in una conca d'oro senza alcuna connotazione spaziale. Cristo, che tiene nella sinistra un libro, calpesta con il piede destro un serpente e con il sinistro un basilisco, il quale fatto viene spiegato con un'inscrizione latina che corre sotto i piedi dei due santi e che, in italiano, suona: Dio può ora regnare in eterno in maestà: ecco Cristo che cammina sul serpente e sul basilisco. Ciò ha portato a pensare che ci fosse un'allusione al Barbarossa il quale, sconfitto a Legnano (dove anche trecento triestini avevano combattuto) aveva dovuto sottomettersi a papa Alessandro III, nel 1177, a Venezia, presente anche Bernardo vescovo di Trieste.
Nei sottostanti riquadri con lunetta contenuti entro archi a tutto sesto, sono riapparsi alla luce, nel 1954, alcuni affreschi con storie di San Giusto del 1230 ca., che restavano coperti da altri affreschi, dello stesso soggetto, dipinti intorno alla metà del XIV secolo (strappati, restaurati e conservati per ora in Museo: opera del così detto Maestro di San Giusto). Raffigurano il martirio del Santo e sono in pessimo stato di conservazione: sembrano appartenere alle stesse maestranze artistiche che hanno lavorato nella chiesa di Muggia Vecchia.
Nella vicina piccola abside, detta di S. Apollinare, si notano affreschi romanici molto sbiaditi con Storie di S. Apollinare; interessante, nello zoccolo, il motivo del finto velario che si ritrova solo in pochissime altre chiese della regione. I mosaici dell'abside centrale sono opera di Guido Cadorin (1932) che nell'Incoronazione della Vergine riprende il motivo degli affreschi che, nella stessa abside. Antonio Baietto e Domenico Lu Domine, udinesi, avevano eseguito nel 1423 e che vennero distrutti alla metà dell'Ottocento; se ne conservano solo due piccoli frammenti al Museo, oltre ad un disegno del pittore triestino Gaetano Merlato che riproduce l'intera macchinosa quattrocentesca Incoronazione.
Ancora, nella basilica, vanno visti gli affreschi della secentesca cappella di San Giuseppe: Fuga in Egitto e Transito di S. Giuseppe nelle pareti laterali, Gloria di S. Giuseppe nella cupoletta, dipinti tutti nel 1706 dal fecondo comasco Giulio Quaglio che, forse condizionato dalle esigue dimensioni del luogo, evita qui quel gigantismo delle forme che anima tanti dei suoi affreschi in Udine. Nella stessa cappella, la pala contenuta nel marmoreo altare eretto nel 1704, è del veneziano Sante Peranda (1566-1638), che nello Sposalizio della Vergine si rifà ad immagini tipiche del manierismo veneto.
Affreschi ancora, alquanto modesti, del muranese Sebastiano Santi nella cappella dell'Addolorata (1855: scene della vita di Gesù).
Per quanto riguarda le opere mobili, da segnalare un bel polittico con la Crocifissione al centro, sei santi a piena figura entro archetti trilobati ed altri a mezzo busto nei pennacchi fra gli archi, eseguito da Paolo Veneziano (o più probabilmente dalla sua bottega) per l'altar maggiore (così almeno vuole la tradizione) nel secondo quarto del secolo XIV. Oggi fa parte del tesoro di S. Giusto.
Nella cappella di S. Servolo, una Madonna allattante, tempera su tavola di un madonnero veneto del XVII secolo. Una tela di Benedetto Carpaccio (1541), figlio del più celebre Vittore e particolarmente attivo in Istria, rappresenta la Vergine che allatta Gesù, con i santi Giusto (che tiene in mano il modelletto della città di Trieste) e Sergio ai lati: dipinto di modesta esecuzione, ma non spiacevole.
Due opere di scultura si impongono sulle altre: il bellissimo Compianto sul Cristo morto (arte tedesca della prima metà del XV secolo); piccolo capolavoro per l'eleganza e l'equilibrio che dominano il serrato e drammatico gruppo delle espressive figure; il trittico, in legno dorato, con S. Agostino al centro, S. Sebastiano e Gesù adolescente (proveniente dal convento di S. Bernardino a Portorose) opera che nell'impianto architettonico e nell'intaglio delle figure, si mostra prossima ad analoghi modelli giuliani della fine del XVI o dell'inizio del XVII secolo. Il Tesoro della Cattedrale, piuttosto ricco, è costituito da notevoli pezzi d'arte. Tra gli altri, il velo di S. Giusto, dipinto su seta del XIII secolo con l'immagine del santo (arte di corte costantinopolitana); un'urna in lamina d'argento, con motivi a girali e grappoli e, sui lati minori, un rigido crocifisso (secolo XIII); il Crocifisso dei Battuti (secolo XIII); il Crocifisso di Alda Giuliani, in argento dorato, datato 1383; e poi busti reliquiari (in parte rubati qualche anno fa), candelabri, lampade ed altri oggetti, oltre alla celebre alabarda in ferro battuto (che è il simbolo della città) che secondo una leggenda cadde sulla piazza maggiore di Trieste nell'ottobre del 303, allorché San Sergio fu decapitato in Siria.
A sinistra della basilica, sorge il Battistero di San Giovanni, costruito (1380) sul luogo dell'antico battistero paleocristiano, recentemente riportato all'aspetto originario.
A destra, la Chiesetta di S. Michele al Carnale (così detta perché adibita a cappella mortuaria fino al 1829), semplice e graziosa costruzione del XIII secolo, con campaniletto a vela e una cripta ad arcate: incastonati sulla facciata, interessanti frammenti di plutei paleocristiani. Chiese e monumenti notevoli. La mancanza di un valido Medio Evo e di un Rinascimento, unita all'esplosione - demografica, economica ed artistica - sette-ottocentesca ed agli eventi dolorosi delle due ultime guerre, fa sì che Trieste non abbondi - come altre città - di monumenti singolari o per pregi artistici o per significato storico, né di chiese arricchite di opere d'arte nel corso dei secoli.
Dell'età romana rimangono l'Arco di Riccardo (nei pressi della chiesa di S. Maria Maggiore), il cui nome ha oscura origine, costruzione di grosse pietre, con trabeazione a tre fasce, che dovrebbe risalire al 33 a.C., quando Augusto fece costruire le mura; la cavea semicircolare del Teatro Romano (nell'omonima via) che gli scavi riportarono in luce una quarantina d'anni fa (dieci statue che ornavano il proscenio sono state collocate in Museo). Risale al I-II secolo d.C. ed era in origine posto fuori delle mura, in riva al mare che all'epoca si spingeva fin là. Resti di mosaici paleocristiani sono stati ritrovati nel 1963 durante occasionali scavi in via Madonna del Mare: è stata quindi rimessa in luce una parte della pavimentazione di quella che doveva essere una basilica paleocristiana cimiteriale, essendo situata fuori dell'antica cerchia di mura. I mosaici, che hanno motivi geometrici e risultano vieppiù interessanti per le iscrizioni che recano, sono su due strati sovrapposti, l'uno del V, l'altro dell'inizio del VI secolo d.C.
Dopo San Giusto, la chiesa più interessante è S. Maria Maggiore (in via del Teatro Romano); vi si giunge salendo una monumentale, moderna scalinata, iniziata nel 1627; la chiesa nella concezione si ispira alla vignolesca chiesa del Gesù in Roma: da quella tuttavia si discosta nell'organizzazione interna dello spazio che risulta qui frazionato dalla suddivisione in tre navate (anziché pianta ad aula). La facciata, dinamicamente articolata, sembra dovuta al gesuita architetto (oltre che pittore e trattatista) Andrea Pozzo (1647-1709), trentino di nascita ma romano per formazione culturale, che l'avrebbe eseguita nei primissimi anni del Settecento. All'interno, nell'abside il grande affresco con l'Immacolata Concezione, dipinto da Sebastiano Santi nel 1842; buone tele sugli altari e nelle pareti (una Madonna della Salute è attribuita al Sassoferrato, un S. Ignazio al Maffei); monocromi a tempera di G. B. Bison rappresentanti gli Evagelisti nei pennacchi della cupola (inizio XIX secolo), una Madonna con Bambino in pietra del friulano Pietro Bearzi, 1853, splendidi banchi intagliati.
La vicina Chiesetta di S. Silvestro, pesantemente restaurata nel 1927 e liberata dalle sovrastrutture barocche, risale al secolo XII inoltrato: la tradizione vuole sia stata edificata sulla casa delle Sante Eufemia e Tecla, che affrontarono il martirio nel 254, casa poi dedicata a S. Silverstro, papa all'epoca di Costantino. Oggi è un tempio delle comunità evangeliche elvetica e valdese.
Un piccolo scrigno di opere d'arte è il Monastero di San Cipriano, in via delle Monache, dal 1426 abitato dalle Benedettine. Non è tanto la chiesetta dalla modesta facciata fine Settecento e dall'interno ad unica navata a suscitare ammirazione, quanto tutto il complesso conventuale, nel quale sono stati mantenuti ambienti di rara suggestione, quali l'antica cucina o il forno per il pane, ed inoltre dipinti di un qualche pregio (il migliore, tuttavia, il celebre trittico di S. Chiara, di Paolo Veneziano e aiuti, è ora al Museo Sartorio), sculture in legno (tra cui una gran croce trilobata trecentesca, con S. Giovanni, Madonna e Angelo dipinti alle estremità: un grande Crocifisso; una Madonna dell'inizio del XV secolo, di scuola tirolese, con Bambino del XVI secolo: un Vesperbild di scuola friulana, inizio XVI secolo), argenterie (in genere sei-settecentesche, ma con anche una bella croce astile del XIV-XV secolo).
Esempio di architettura neoclassica è la Chiesa di S. Antonio nuovo, che chiude scenograficamente la zona del canale. Costruita tra il 1825 ed il 1849, è l'opera più significativa dell'architetto Pietro Nobile, uno dei massimi esponenti del neoclassico triestino, che già nel 1808 ne aveva steso il progetto. La facciata ha un pronao con sei robuste colonne ioniche che sorreggono un ampio frontone e, con la retrostante cupola, ricordano da vicino il Pantheon.

L'edificio, per ragioni economiche, non poté essere realizzato nel materiale e con la decorazione prevista dal suo autore (i cassettoni nell'interno della cupola e sugli arconi sono in gran parte finti in chiaroscuro, tutte le parti esterne, ora ricoperte di malta, avrebbero dovuto essere in pietra d'Istria, il timpano avrebbe dovuto portare nell'interno un bassorilievo), sicché non può mostrare nella sua compiutezza la vera idea dell'architetto. Comunque, anche così povero, questo tempio rimane indiscutibilmente - e nonostante l'opposto parere di Camillo Boito che lo condannò dicendo "fosse brutto, almeno!" - uno dei monumenti più significativi dell'epoca neoclassica, e di notevole valore soprattutto da un punto di vista urbanistico (Walcher). All'interno, dipinti ottocenteschi del Grigoletti, dello Schiavoni e del Politi, oltre ad un affresco di Sebastiano Santi con l'Ingresso di Gesù in Gerusalemme.
Ricordiamo ancora la Chiesa di S. Spiridione, in piazza S. Antonio, progettata dal milanese Carlo Maciacchini ed aperta al culto nel 1868: dedicata al culto serboortodosso, è una costruzione movimentata, splendida per le fastose decorazioni a mosaico sia all'esterno che all'interno, per le pitture, per le icone postbizantine provenienti per la maggior parte dall'area slava mediterranea; la Chiesa evangelica, innalzata dallo Zimmermann nel 1875 in stile neogotico; il Tempio Israelitico, in via Donizetti, costruito nel 1902 su progetto di Ruggero e Arduino Berlam, ispirato alle rovine di Baalbek; la Chiesa di S. Nicolò dei Greci (culto greco ortodosso) in Riva III Novembre, eretta nel 1786 e nel 1819 rinnovata da Matteo Pertsch che lasciò nella facciata delimitata dai due campanili una chiara impronta del suo stile.
Ricchissimo l'arredo liturgico. Due grandi tele del pittore di Pirano Cesare Dell'Acqua danno tono alle pareti laterali (la Predica del Battista, 1852 e Cristo tra i fanciulli, 1854), ma è l'iconostasi il fulcro di tutto il luogo sacro. Opera di ignoto intagliatore, simile a quella eseguita per la vecchia chiesa di S. Spiridione nel 1794 da Sebastiano Treppan, arricchita da dipinti a tempera su tavola con fondo oro (bottega del pittore greco Giorgio Trigonis, che operò a Trieste dal 1786 al 1833), da tele, da coperture in argento lavorato a sbalzo, si carica di valori spirituali ed allo stesso tempo artistici e costituisce un unicum in regione.
Ancora da ricordare la settecentesca chiesa parrocchiale di S. Bartolomeo a Barcola, che nel 1930 ha subìto pesanti trasformazioni, tra l'altro con la collocazione in facciata del bel rosone seicentesco proveniente dalla distrutta chiesa di S. Pietro in Piazza Grande. All'interno, elegante altare maggiore di Giovanni Comin ed Enrico Merengo, eseguito alla fine del XVIII secolo per la cappella della Madonna della Pace di Venezia. Venne acquistato nel 1826 per la Cappella del Sacramento della Basilica di S. Giusto, dove rimase fino al 1840. Interessante il paliotto del Comin con la raffigurazione delle anime purganti e le statue a tutto tondo che sormontano la mensa.


Comune


I Musei.
Civici Musei di Storia e Arte e Orto Lapidario (via Cattedrale 15). Dal 1925 sono allogati nell'edificio eretto alla fine del Settecento ma ristrutturato da Giovanni Battista de Puppi nel 1837 ed acquistato dal Comune nel 1915. Nati come "museo misto", cioè per la raccolta ed esposizione di opere archeologiche, d'arte, etnografiche, eccetera, vanno oggi precisando - in fase di ristrutturazione - la loro specializzazione esclusivamente archeologica (dalla preistoria all'epoca romana con appendice nel Medioevo, con materiali riguardanti sia la città che il territorio). Nell'atrio, nelle salette del pianterreno e del primo piano sono esposti marmi romani, materiale egizio di epoche e provenienze diverse (stele funerarie, vasi, bronzetti ed anche una mummia); oggetti d'arte del Gandhara

CAFFE A TRIESTE (un po di storia)

A cavallo tra '700 e '800 molte grandi opere vennero edificate sia su commisione di privati che per avvicinare ancor di più la vita della città a quella della capitale.In particolare l'architetto triestino Matteo Pertsh diede vita allafacciata del Teatro Grande (oggi Verdi, recentemente restituito al suo originale splendore) nel 1801 e al Palazzo Carciotti  (che ancora domina le Rive) costruito su commissione del "negoziante Demetrio Carciotti" attorno al 1805. Negli stessi anni Matteo Pertsh perse, a favore dell'architetto Antonio Molinari, il concorso per una nuova opera monumentale, la Borsa oggi sede della Camera di Commercio.
Ma altre opere vennero edificate dalla metà alla fine del secolo scorso. Completamente rinnovata la medievale Piazza Grande (oggi Piazza dell'Unità d'Italia, la più grande in Europa aperta sul mare) con la costruzione del nuovo palazzo Municipale che diede alla città l'aspetto di vera capitale marittima dell'Impero. Pochi anni dopo, nel 1883, veniva ultimato la nuova imponente sede del Lloyd Austriaco.

 

Un caffe' a Trieste 
Trieste. Se fosse un colore, sarebbe il bianco. Il bianco splendente dei palazzi governativi di Piazza dell'Unità, affacciati direttamente sul mare. Ma anche il nero…"bollente"!
Se fosse un profumo, sarebbe quello del caffè appena fatto.
Ai tavolini di Caffè storici, come il Tommaseo, il San Marco, il Caffè degli Specchi, il Tergesteo, trovi ragazzi che studiano per l'interrogazione a scuola dell'indomani, coppie di anziane signore che sorseggiano il "capo", l'accademico che corregge la tesi, universitari che ripetono e ricopiano gli appunti e chi, come me, entrata per uno spuntino e per sfogliare i giornali, resta incantata dai ritmi lenti e rilassati.
Nessuno ti fa fretta, nessun cameriere ti sollecita a lasciare il tavolo al prossimo cliente, anzi ti propone un'altra fetta di Strudel o di torta Sacher o, se sono le sei del pomeriggio, un boccale di birra "ben accompagnato". Così viene voglia di chiacchierare, di parlare di grandi cose come un tempo avevano fatto al medesimo tavolo Joyce, Svevo, Rilke, Sthendal.
Un angolo di paradiso per il turista e per l'habitué. Peccato che ne sono rimasti solo otto di questi angoli, nove con la prossima riapertura del Caffè degli Specchi, affacciato dal 1839 sulla bella Piazza dell'Unità.
Nell'800 di caffè così se ne contavano 54, nel 1911 addirittura 98. Era anche l'epoca del famoso Caffè Gambrinus a Napoli, del Caffè Greco a Roma, e di altre centinaia sparsi per il Belpaese.
Ma i tempi cambiano e, come una mannaia, questi "tempi moderni" decretano la chiusura di alcuni di essi: una triste realtà che si sta espandendo come un'epidemia. I costi di mantenimento sono alti, i ritmi veloci, i consumi di massa. E un caffè "gocciato" ­ come dicono a Trieste ­ rischia di diventare un lusso per pochi.
Entrare in un Caffè come il Tommaseo significa ripercorrere le orme di Italo Svevo, che qui vi passava giornate intere a scrivere, a leggere i suoi "maestri", a chiacchierare con l'amico James Joyce.
il Caffè Tommaseo, fondato dal padovano Tommaso Marcato nel 1830, è famoso anche per essere stato il primo locale a portare una novità d'inizio secolo: il gelato. Veniva - e viene ­ gustato in un ambiente luminoso, ornato da specchiere fatte arrivare dal Belgio, stucchi e pitture del Gatteri.
Oggi, per stare al passo con i tempi, le sale si sono aperte al brunch e alle cene veloci. Tavoli più o meno grandi, apparecchiati a mo' di ristorante, hanno mutato l'atmosfera ottocentesca. Anche i restauri del 1997 hanno restituito agli interni un bianco troppo fulgido a discapito di certa atmosfera décadence, di cui rimane memoria negli scritti letterari, gelosamente custoditi nelle vetrinette, una delle quali "protetta" dall'effige in olio di Niccolò Tommaseo.
Anche il Tergesteo ha da poco concluso i lavori di restauro, per ricreare l'atmosfera di fin de siécle, ma dell'originale, purtroppo, è rimasto ben poco. Nato nel 1863, all'interno dell'omonima galleria, il Tergesteo è famoso per le sue vetrate colorate raffiguranti alcuni episodi della leggendaria storia di Trieste.
Fuori dalla Galleria del Tergesteo, si possono incontrare altri suggestivi caffè, come il Bar Ex Urbanis, piccolo, intimo, nato dalle ceneri di una pasticceria e impreziosito da un pavimento a mosaico, che reca la data storica della sua fondazione: 1832.
Andando verso piazza della Repubblica, ci s'imbatte nel Caffè Stella Polare, nel cuore del borgo teresiano, accanto alla chiesa serbo-ortodossa di San Spiridione e di fronte alla neoclassica facciata di S. Antonio Nuovo. Aperto dal 1867, dalla famiglia grigionese Griot, è stato rifugio di intellettuali e di numerosi irredentisti. Tant'è che il tranquillo signor Griot, per paura di rappresaglie, espose un cartello fuori dalla porta che recava un'eloquente scritta: " Qui non si parla di politica né di alta strategia". Con la fine della seconda guerra mondiale e l'arrivo degli americani in città, la Stella Polare divenne una famosa sala da ballo: da qui tante ragazze triestine presero il mare per gli Stati Uniti, spose felici di giovani americani. Il Caffè oggi non ha più il glamour di un tempo: è troppo costoso mantenere una sala da ballo e una da biliardo. Così si sono salvate solo due stanze dove gustare un dolce e sorseggiare un buon tè.

 

CENNI STORICI SU AQUILEIA

 

Aquileia fu fondata dai Romani come colonia militare nel 181 a.C. in un luogo che era all'incrocio di popoli e traffici commerciali. Fu dapprima baluardo contro l'invasione di popoli barbari e punto di partenza per spedizioni e conquiste militari.

Collegata da una buona rete viaria, col tempo divenne sempre più importante per il suo commercio e per lo sviluppo di un artigianato

assai raffinato. Raggiunse il suo apice sotto l'impero di Cesare Augusto: con una popolazione stabile di oltre 200.000 abitanti, divenne una delle maggiori e più ricche città di tutto l'impero. Fu residenza di parecchi imperatori, con un palazzo assai frequentato, fino a Costantino il Grande e oltre.

Quando vi giunse il messaggio cristiano (la tradizione parla di una venuta di S.Marco evangelista che portò a Roma S. Ermacora per farlo consacrare da S. Pietro come primo vescovo di Aquileia), esso ebbe rapido sviluppo sotterraneo, tanto da esplodere prontamente appena venne concesso il culto pubblico con l'Editto di Milano del 313 d.C.

Basti pensare che furono erette prontamente tre grandi aule, lussuosissime, poste tra loro a ferro di cavallo: due principali, tra loro parallele, unite da una trasversale. Ciascuna poteva contenere comodamente da due a tre mila persone: cosa impensabile per un semplice "inizio" di evangelizzazione e per le ingenti risorse necessarie per realizzarle. Queste poi, ben presto risultarono insufficienti per contenere tutti i fedeli, e dovettero essere demolite per far posto ad altre aule più ampie. Infatti troviamo che, qualche decina di anni più tardi (verso il 345), partendo dalle fondazioni dell'Aula Nord, fu eretta una molto più ampia (lunga ben 70 metri e larga 31: 5 metri più lunga di quella che vediamo), la più vasta in assoluto per Aquileia: quella che nel 452 d.C. fu distrutta da Attila e mai più risorse. Anche l'Aula Sud, ampliata sotto il vescovo Cromazio rimase semidistrutta dall'invasione degli Unni. A questo punto c'è da notare una caratteristica tipica e unica di Aquileia: tutte le varie basiliche erano strettamente a forma rettangolare e senza abside.

Quando i figli degli scampati e degli esuli ritornarono ad Aquileia e pensarono ad una ricostruzione, volsero l'attenzione alle strutture

residue dell'Aula Sud, che ancora fu ampliata in lunghezza e larghezza: saranno le fondazioni di quest'ultima a fare da supporto, dopo un lungo periodo di completo abbandono (dai Longobardi all'800), alla costruzione di una vera e propria basilica, come noi l'intendiamo, e che sommariamente costituisce il perimetro di quella attuale. Quest' opera fu portata a termine dal vescovo Massenzio (811-838), con l'aiuto finanziario di Carlo Magno. Successivamente però, prima gli Ungari e poi un terremoto (988) la resero inagibile. Resti del pavimento in mosaico di questa basilica si possono esplorare attraverso due botole: una presso l'altare al centro del presbiterio e l'altra presso il sarcofago di San Pietro.

 

 

 

LA BASILICA 

 

Il primo edificio di culto cristiano aquileiese fu edificato nel 313 d.C. dal vescovo Teodoro. Era costituito da tre grandi aule rettangolari poste a ferro di cavallo, dal battistero e da ambienti di servizio Le due aule parallele (teodoriana sud e teodoriana nord) erano mosaicate ed adibite alla celebrazione della messa e all’insegnamento delle Sacre Scritture; la sala trasversale, pavimentata a cocciopesto, veniva invece utilizzata come collegamento tra le due aule precedenti. 

Verso la metà del IV secolo l’aula teodoriana nord subì un notevole ampliamento allo scopo di contenere un numero sempre più grande di fedeli (aula post-teodoriana nord). Accanto venne costruito un nuovo battistero con vasca esagonale. Detta aula venne distrutta dagli Unni di Attila nel 452 d.C. e mai più ricostruita. 

Successivamente anche l’aula teodoriana sud venne trasformata in un edificio a tre navate con un grande battistero di fronte al suo ingresso principale (aula post-teodoriana sud). 

Nella prima metà del IX secolo il patriarca Massenzio volle avviare i primi lavori di ristrutturazione di quest’ aula creando il transetto, la cripta degli affreschi (sotto il presbiterio), il portico e la Chiesa dei Pagani.

La basilica attuale è sostanzialmente quella consacrata nel 1031 dal patriarca Poppone dopo le modifiche da lui eseguite (sopraelevazione dei muri perimetrali, rifacimento dei capitelli, affresco dell’abside e costruzione dell’imponente campanile alto 73 metri). 

Ulteriori interventi furono apportati dal patriarca Voldorico di Treffen nel XII sec. (affreschi nella cripta massenziana con scene della vita di S. Ermacora, della Passione di Cristo ed altre a carattere allegorico e profano) e dal patriarca Marquardo di Randek nel XIV secolo (archi a sesto acuto fra le colonne e tutta la parte alta della basilica compreso il tetto a carena di nave rovesciata, lavori resi necessari dopo il terremoto del 1348).

 

 

 

Museo Archeologico Nazionale

Il più importante dell'Italia settentrionale per la ricchezza di documenti di epoca romana. Tra i reperti più preziosi troviamo:

*la collezione dei ritratti funerari ed onorari, in pietra carsica e marmi diversi

*la collezione delle gemme e delle ambre intagliate, eccezionale per il numero dei pezzi e la qualità degli intagli

*la collezione dei vetri, stupenda per colori, forme trasparenze, iridescenze*

*i mosaici policromi figurati provenienti dalle case signorili di età tardorepubblicana

*i monumenti funerari spesso figurati (urne, stele, are, cippi, sarcofaghi, mausolei) che offrono numerose ed interessanti notizie sulla

vita quotidiana del tempo 

 

 

 

PALMANOVA

(LA città stella)

 

Nei primi decenni del Quattrocento (1420) la Serenissima Repubblica di Venezia occupò il Friuli. Questa terra era considerata di importanza strategica  per la difesa della terraferma, per il controllo delle vie di comunicazione e dei confini.

Una delle minacce maggiori per la Serenissima era rappresentata dai Turchi che, a ondate, avevano invaso il territorio friulano

saccheggiando, distruggendo e trascinando via come schiavi donne e bambini.

In seguito alla morte senza eredi del Conte di Gorizia, Leonardo, si aprì, nel 1500, una nuova guerra tra Venezia e Austria: Gradisca passò all’Austria e si venne a creare un confine innaturale con città venete incastonate nel territorio asburgico e viceversa.

Tale conformazione territoriale venne definita confine “a pelle di leopardo”.  

Dal momento che il confine orientale della Terraferma si trovava esposto alle incursioni turche e austriache era necessario rafforzare il Friuli, terra di confine, con la costruzione ex novo di una fortezza al centro della pianura.

Questa doveva fungere da baluardo sia contro le mire espansionistiche degli Asburgo sia contro le continue incursioni dei Turchi.

 

Venezia nominò cinque Procuratori con il compito di decidere il luogo esatto su cui far sorgere la nuova città; questi si riunirono il 16

ottobre 1593 nel castello di Strassoldo e decretarono che la scelta era fatta.

La nuova fortezza doveva sorgere in posizione strategica: l’incrocio tra la via Julia Augusta e la strada Ungaresca (Stradalta).  

 

 

Alla realizzazione del progetto partecipò una équipe di ingegneri, trattatisti ed esperti architetti militari dell’Ufficio delle fortificazioni di Venezia fra cui l’architetto Giulio Savorgnan.  

Il 7 ottobre 1593 si diede inizio ai lavori di costruzione di Palma ed il Senato Veneziano nominò Marc’Antonio Barbaro primo Provveditore Generale della fortezza.  

Nel periodo di dominio veneto la città stellata fu dotata di due cerchie di fortificazioni con bastioni, cortine, fossato e rivellini a protezione delle tre porte d’accesso.

Nonostante le apparenze di un incontrastato dominio veneziano, il XVIII secolo  rappresentò per la Serenissima la parabola discendente della sua gloriosa storia: anche Palmanova e il Friuli ne seguirono il declino.

Il crollo definitivo si ebbe il 3 marzo 1797 quando un maggiore austriaco entrò con l’inganno in fortezza e aprì la strada a mille

armati austriaci che aspettavano poco fuori le mura. Gli austriaci non ebbero il tempo di godere la loro conquista in quanto il 18 marzo i francesi comandati da Bernardotte entrarono in fortezza e disarmarono anche le truppe veneziane che fino a questo momento si erano dichiarate neutrali.  

Dopo la pace di Campoformio, Palmanova ritornò agli austriaci che la tennero fino al 1805 quando fu rioccupata dai francesi. Una delle prime preoccupazioni di Napoleone fu quella di “rendere la fortezza al passo con i tempi”; per fare questo procedette alla spianata dei tre villaggi circostanti di Ronchis, San Lorenzo e Palmada i cui edifici oltre ad essere possibile ricettacolo per i nemici, impedivano il tiro ai cannoni della piazzaforte. Così sotto la direzione di Chasseloup si dette avvio alla costruzione della terza cerchia delle fortificazioni. In corrispondenza ai baluardi veneziani furono aggiunte le nove lunette napoleoniche dotate anche di gallerie sotterranee (mine).  

Nel 1809 e nel 1813 la fortezza resistette agli assedi posti da parte degli Austriaci rivelandosi inespugnabile e confermando la lungimiranza degli interventi napoleonici. Palmanova, mai conquistata dalle armi, ritornò agli Austriaci solo in virtù dell’armistizio di Schiarino ?

Rizzino del 16 aprile 1814.

 

Finito il periodo napoleonico, il dominio austriaco sul Friuli durò dal 1815 al 1866 Il 24 marzo 1848 la guarnigione della città stellata, infiammata dagli ideali liberali in seguito ai moti di Vienna, Milano e Venezia, si sollevò contro il dominatore austriaco ed elesse a proprio capo l’ex generale napoleonico Carlo Zucchi.

La reazione asburgica fu piuttosto dura e sfociò in un assedio alla Fortezza.

Alla fine, stremata e senza più speranze di ricevere gli sperati rinforzi da Carlo Alberto, Palmanova capitolò dopo Udine e il 26 giugno fu firmata la resa di Palma  e gli Austriaci rioccuparono la fortezza.

Gli austriaci rafforzarono la presenza delle artiglierie in fortezza tanto che le truppe italiane, nel 1866, durante la Terza Guerra d’Indipendenza non la attaccarono. Venne annessa al Regno d’Italia con il plebiscito del 21 ottobre 1866.

La fortezza tornò alla ribalta quasi dopo 50 anni quando, durante la Prima Guerra Mondiale, diventò deposito di viveri e vestiario, centro di smistamento e di rifornimento per la prima linea situata sull’Isonzo; dopo la disfatta di Caporetto fu parzialmente incendiata dalle truppe in ritirata. Nella notte del 29 ottobre 1917 la città si trasformò in un immenso rogo, il 60% degli edifici venne distrutto.

Durante la Seconda Guerra Mondiale Palmanova corse il pericolo di essere rasa al suolo dai nazisti in fuga: solo il miracoloso intervento dell’arciprete Giuseppe Merlino fece sviare i tedeschi dalla decisione di raderla al suolo.  

Nel 1960 su decreto del Presidente della Repubblica Palmanova fu dichiarata “Monumento Nazionale”.

 

Simona Dragoni   dragoni@mondadori.it 

 

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