Israele

Diario di viaggio 2009

di Nicoletta Danuso

 

 

 

 

 

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Gerusalemme (25-27 aprile)

 

Avevamo deciso di andare in Israele nel 1995, ricordo la sera in cui da casa di Silvana abbiamo telefonato per prenotare l’albergo a Gerusalemme, nessuno ci rispondeva, infine un impiegato frettoloso ci ha detto di chiamare il giorno successivo. Era proprio la sera in cui venne assassinato Rabin. Da allora la situazione, a sentire le notizie, è sempre stata calda, finché quest’anno abbiamo pensato “Al diavolo!”.

Ho prenotato l’unico volo diretto da Milano a Tel Aviv che arriva nel pomeriggio anziché durante la notte, si trattava di un volo Alitalia e Silvana era un po’ scettica. A un paio di settimane dalla partenza veniamo avvisati che il volo è stato cancellato, in cambio ci danno un volo con scalo a Fiumicino, che parte da Milano alle sette di sera e arriva a Tel Aviv alle 2,30. Non abbiamo molta scelta a questo punto.

Per farla breve, succede che il volo da Milano a Roma è in ritardo di un’ora e mezza, corriamo come pazzi per prendere il volo per Tel Aviv, che comunque è anch’esso in ritardo. Arriviamo stralunati all’aeroporto Ben Gurion alle 4. Fortunatamente il controllo passaporti è rapido, nonostante avessimo sentito parlare di ore di attesa. Poi…le valigie non arrivano, noi e altri tre ragazzi partiti da Milano ce ne dobbiamo andare a mani vuote, sperando che domani ce le consegnino in albergo. Silvana la previdente si è fatta un bagaglino a mano, mentre io e Mike non abbiamo proprio niente. Dall’aeroporto si prende uno shuttle, o sherut, taxi collettivo. Per un buon tre quarti d’ora aspettiamo che si riempia del tutto, poi un israeliano suggerisce che per pochi shekel in più si possa partire senza aspettare di riempire gli ultimi due posti. Poteva dirlo prima, ma era troppo occupato a flirtare con la ragazza seduta di fronte a lui.

L’aeroporto è a un terzo di strada da Tel Aviv e due terzi da Gerusalemme, che dista circa 50 chilometri, quasi un’ora di viaggio. Il cielo comincia a schiarirsi, alle prime luci dell’alba appaiono le costruzioni di arenaria chiara di Gerusalemme. Il guidatore dello shuttle si tiene una testa d’aglio vicino alla leva del cambio come se volesse scacciare i vampiri, c’è un odore nauseante. Finalmente arriviamo all’hotel, che si chiama Regency Jerusalem, ma il cui precedente nome era Hyatt, infatti fino all’ultimo abbiamo temuto che ci scaricasse nel posto sbagliato. Siamo in un quartiere un po’ distante dal centro, su una collina, il Monte Scopus, dalla quale c’è una splendido panorama sulla città. Ci infiliamo a letto per qualche ora.

 

 

Il 25 aprile è sabato, shabbat. Nell’ala dell’hotel in cui ci hanno messo ci sono delle stanze che fungono da sinagoga. La sala della colazione è piena di israeliani che mangiano cose decisamente poco invitanti, si tratta solo di piatti freddi, i salumi sono proibiti. Ettore chiede del latte caldo, il cameriere gli dice che non c’è perché è sabato! Al sabato secondo la religione ebraica non si possono scaldare le vivande prima del tramonto. Tutti gli uomini portano la papalina (kippah), alcuni il classico cappello nero con annessa redingote nera, le donne sposate hanno la testa coperta, ci sono un sacco di bambini. Andiamo a guardare il panorama dalla terrazza perché le nostre stanze sono del tipo meno costoso e danno sul prato. L’hotel è molto bello ma un po’ anonimo, sarebbe stato forse meglio qualcosa di più caratteristico e di più vicino al centro. Il cielo è grigio, opprimente, siamo stanchi e frastornati, nonché sporchi e spettinati.

Lo shuttle dell’hotel ci porta fino alla porta di Giaffa. Gerusalemme Vecchia è circondata da mura erette nel XVI secolo dal sultano turco Solimano il Magnifico, sulle quali saliamo camminando sui bastioni in senso antiorario fino ad arrivare alla porta del letame. Da qui scendiamo al famoso muro occidentale, il muro del pianto. 

 

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Intanto il clima è cambiato, il vento ha spazzato le nubi, il cielo è diventato azzurro e terso.

Il muro occidentale è quanto rimane del muro di contenimento del I tempio di Gerusalemme, costruito tremila anni fa. La sua importanza come luogo di pellegrinaggio risale al periodo ottomano, quando gli ebrei venivano qui a piangere la perdita di ciò che ritenevano più sacro per la loro religione. Nel 1948, durante la prima guerra arabo-israeliana, gli israeliani persero l’accesso al muro che cadde in mano ai giordani così come metà Gerusalemme, che per 19 anni rimase divisa dall’altra metà da un muro abbattuto dagli israeliani dopo la guerra dei sei giorni. Venne abbattuto anche il quartiere arabo le cui case si spingevano a ridosso del muro, creando la spianata che c’è attualmente. In realtà rimango delusa perché la spianata è occupata da antiestetiche impalcature. La zona davanti al muro è transennata, piena di tavolini e ragazzi che leggono davanti a degli adulti. Ogni sabato (anche il lunedì e giovedì) si svolge davanti al muro del pianto la cerimonia del Bar Mitzvah, quando un ragazzo compie 13 anni e diventa, in teoria, un uomo. Gli ebrei ortodossi si dondolano battendo la testa contro il  muro e recitando litanie, rigorosamente separati dalla donne che sono più a destra.

Chiediamo a degli ebrei come si arrivi al Monte del Tempio, che è al di là del muro. Si mettono a discutere tra loro perché uno dice che non si può andare, mentre l’altro, quello con il cappello nero, dice che i non ebrei possono andare. Ci mandano verso un’entrata dove veniamo controllati al metal detector, ma alla fine ci troviamo davanti a un posto di blocco oltre il quale non riusciamo ad andare. Ritenteremo domani. C’è in giro un sacco di polizia armata, ragazzi e ragazze, parecchi sono neri, ebrei che vengono dall’Etiopia probabilmente. Portano i rasta.

Passiamo attraverso i vicoli della Gerusalemme araba, simili a un suk, sui quali si affacciano innumerevoli botteghe con i venditori che cercano di attirarti dentro. Ci fermiamo a bere la spremuta d’arancia, che è buonissima e densa di polpa. Fanno anche la spremuta di carote. Ma meglio non chiedere informazioni, e nemmeno rispondergli se ti chiedono dove vuoi andare,  perché poi pretendono di essere pagati.

Beh, allora andiamo sulla Via Dolorosa, che sarebbe il cammino percorso da Gesù dall’orto del Getsemani al Calvario, attualmente dalla porta dei Leoni, situata sulla parte nordest delle mura, fino al Santo Sepolcro. Su questa via ci sono le prime nove stazione della Via Crucis, ad ognuna delle quali i pellegrini si fermano salmodiando. 

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La quarta stazione è in corrispondenza della Chiesa Armena, rigurgitante di preti neri, barbuti, con il cappello cilindrico e un gran crocefisso sul petto, sarebbe il punto in cui Gesù vide la madre in mezzo alla folla dei presenti. In teoria in fondo alla via dolorosa dovrebbe esserci la Basilica del Santo Sepolcro, ma giriamo e giriamo senza riuscire a trovarla, e del resto non osiamo più chiedere informazioni.

Ci fermiamo in un ristorante dove si mangia su una terrazza sul tetto al terzo piano, C’è un caldo secco ventilato, all’ombra fa fresco, il cielo è limpido con qualche nuvola bianca qua e là. Da qui si vede tutta Gerusalemme vecchia, la cupola della roccia spicca in tutto il suo splendore dorato verso est, sotto di noi c’è una piccola piazza con tavolini di bar all’aperto e una fontana. Verso est, sul Monte Scopus, si vede il nostro hotel, che da qui sembra ancora più imponente che da vicino. Ma verso sud ci sono sterpaglie, spazzatura e case diroccate, Gerusalemme è una città antichissima, traboccante di vita, di storia  e di tragedie, non una cittadina leccata in attesa dei turisti.

 

 

Mangiamo l’hummus, la mitica purea di ceci che ci piace tanto con sopra l’olio piccante, i felafel, che sono polpettine di fave, insalata e degli involtini di spinaci un po’ acidi. Si sta bene qui.

Nella piazza della fontana c’è una porticina piccina picciò, dove sull’architrave, mezzo nascosto da un tappeto che fa parte della mercanzia dei uno dei tanti negozietti, sta scritto “Saint Sepulcre”: finalmente l’abbiamo trovato. A Gerusalemme tutto è chiuso da muri, che tuttavia non hanno salvato niente da invasioni, colonizzazioni, distruzioni. Passata la porticina entriamo nel cortile della Basilica del Santo Sepolcro, dentro la quale ci sono le ultime cinque stazioni della Via Crucis. Nel IV secolo Elena (che poi diventò santa), madre dell’imperatore Costantino, si mise alla ricerca del luogo in cui era stato crocifisso Gesù e pensò di trovarlo sotto un tempio pagano fatto costruire da Adriano proprio, secondo lei, per impedire ai primi cristiani di venerare quel luogo. Al tempo di Gesù quel luogo era fuori dalle mura, in una cava di pietra. Scavando sotto il tempio Elena trovò tre croci e questo la convinse definitivamente di essere nel posto giusto. Quello che non capisco tanto è che dal vangelo e dai dipinti sembrava che la strada verso il monte Calvario fosse in salita abbastanza ripida, mentre adesso dalla porta dei Leoni al Santo Sepolcro c’è al massimo una lieve pendenza. Per inciso, i protestanti venerano come luogo della crocefissione un altro, detto Tomba del Giardino, scoperto dal Generale Gordon nell’800.

 

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Costantino fece erigere una chiesa che fu poi distrutta dai persiani, ricostruita dai bizantini, distrutta dagli arabi, ricostruita dalla comunità cristiana di Gerusalemme e poi dai crociati, danneggiata gravemente da un incendio nel 1808 e da un terremoto nel 1927,  restaurata solo a partire dal 1959 perché le varie fedi non riuscivano a mettersi d’accordo su chi dovesse fare qualcosa e come. Vige ancora il decreto di statu quo emanato dalla Porta Sublime (il governo ottomano) nel 1852 per porre fine ai continui dissidi, secondo cui le principali fedi che si spartiscono la basilica sono la chiesa ortodossa greca, la chiesa apostolica armena e la chiesa cattolica romana. In seguito si conquistarono dei piccoli spazi anche la chiesa ortodossa copta, la chiesa ortodossa etiope e la chiesa ortodossa siriaca. Ciò non toglie che i litigi e le botte per la divisioni dei tempi e degli spazi liturgici siano all’ordine del giorno, tanto che una della cappelle è chiamata Cappella degli Improperi. Da secoli la chiave dell’unica porta è custodita da due famiglie mussulmane neutrali incaricate da Saladino, che ogni mattina e ogni sera provvedono ad aprirla e a chiuderla. Entrando a destra si sale attraverso una ripida scala fino alla parte detenuta dai cattolici, dove secondo la tradizione Gesù è stato spogliato, crocifisso e poi tolto dalla croce e consegnato a Maria. La principale preoccupazione del vecchio prete nella cappella della crocefissione sembra essere quella di regolare il traffico, pulire con uno straccetto la bava lasciata dai baci dei pellegrini/turisti sulle reliquie, e redarguire le ragazze con pantaloni troppo stretti.

Davanti all’entrata c’è una pietra rettangolare levigata sopra la quale si prostrano i pellegrini, baciandola e accarezzandola. Alcuni strofinano sopra delle candele per farle diventare benedette. E’ la pietra dell’unzione, sulla quale secondo la tradizione fu deposto il corpo di Gesù per essere preparato alla sepoltura. Verso sinistra, in mezzo ad una vasta rotonda con l’alta volta a cupola fiocamente illuminata,  c’è l’edicola del Santo Sepolcro vero e proprio, detenuta dagli ortodossi, che montano la guardia con i loro vestiti neri e le lunghe barbe. C’è fila per entrare, lasciamo perdere. Dietro il Santo sepolcro c’è la piccola cappella dei copti, dove un giovane prete vestito di nero, pallido come la morte, vende il diritto a toccare il muro di divisione.

Altri preti neri con cappelli di altra foggia cantilenano litanie facendo ondeggiare turiboli in cui brucia l’incenso. Sembra di essere nell’antro della sibilla, in una sorta di delirio collettivo.

A un certo punto grande clangore di campane, veniamo respinti all’esterno a far da ala ad una interminabile processione di preti ortodossi. Ce ne andiamo abbastanza sconcertati.

In un caffè armeno Silvana e Ettore bevono un caffè espresso con qualità totalmente inespresse. Niente da fare qui con i caffè, è già tanto che non ti portino il caffè turco melmoso. Usciamo dalla Porta Nuova, nella parte nordovest delle mura, diretti verso il quartiere ultraortodosso di Mea Shearim, situato circa un chilometro fuori dalle mura.

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Mea Shearim, fondata nel 1874, è uno dei più antichi centri abitati costruiti dagli ebrei residenti in Palestina prima della nascita del movimento sionista. Un gruppo di 100 ebrei si  autotassò per l’acquisto di un terreno pietroso non coltivato, che fu subito circondato da mura per evitare l’assalto delle  tribù arabe. Alla fine del secolo, Mea Shearim contava 300 case, un mulino e una panetteria. In seguito la popolazione è aumentata vertiginosamente, per l’immigrazione massiccia soprattutto dall’est Europa, e perché le famiglie degli haredim (gli ebrei ultraortodosssi) fanno molti figli, secondo l’ammonimento biblico di moltiplicarsi. In Israele ci sono attualmente 6-800.000 haredim su una popolazione di 5,4 milioni, quindi quasi il 15%. Gli haredim seguono alla lettera le imposizioni della Torah (la Bibbia) e del Talmud (l’interpretazione dei rabbini), e ovviamente non sono mancati i motivi di attrito tra essi e gli ebrei moderati o laici. In generale tuttavia gli haredim sono guardati con benevolenza dal governo, che gli fa grosse concessioni e addirittura gli permette di evitare il servizio militare. Tra gli haredim stessi ci sono quelli più estremisti, che si rifiutano di riconoscere lo Stato di Israele perché questo sarebbe possibile solo dopo la venuta del messia, e quelli più moderati che addirittura fanno parte del Knesset, il governo, costituendo una lobby molto importante.

Man mano che ci avviciniamo al quartiere, si vedono andare verso la città vecchia uomini, donne e bambini vestiti nella foggia degli haredim. Le donne hanno tutte vestiti lunghi o a mezzo polpaccio e camicie con maniche lunghe, quelle sposate nascondono i capelli, che spesso sono rasati, con un foulard, una retina o addirittura una parrucca. Gli uomini portano dei pastrani neri, cappelli neri a larga tesa o delle specie di focacce di pelliccia. Alcuni invece del pastrano nero portano una sorta di vestaglia da camera di seta dorata. Quasi tutti hanno i payot, cioè delle ciocche lunghe sulle tempie, che scendono arricciate ai lati della faccia, o sono arrotolate dietro le orecchie. Le differenze nella foggia dei vestiti, dei cappelli e dei payot fanno riferimento  alle diverse provenienze e sette. Le famiglie hanno moltissimi bambini, che seguono ubbidienti i genitori, le femmine con le loro vestine lunghe, i maschi con i loro payot arricciati e la kippah sul cocuzzolo, che tra parentesi ci chiediamo quale sia il sistema per farla rimanere attaccata.

Adesso Mea Shearim non è più circondata da muri, ma si capisce immediatamente quando entriamo nel quartiere. Durante lo shabbat, essendo il giorno di riposo del signore dopo i sei giorni della creazione, agli haredim sono vietate 49 attività, tra cui lavorare, guidare, accendere fuochi (cucinare), e in generale qualsiasi tipo di azione che indichi un’intenzionale attività di produrre qualcosa, anche schiacciare un bottone per accendere una lampada. Tant’è vero che esiste tutto un settore della scienza israeliana che produce apparecchi per aggirare le regole, come lampade con sensori che si accendono quando ti avvicini, ascensori che si fermano automaticamente a ogni piano, temporizzatori che scaldano le bevande. Agli haredim è vietato guardare la televisione (non solo al sabato), hanno giornali propri dove spesso le foto delle donne (ad esempio le rappresentanti femminili del parlamento) sono rimosse digitalmente, ma sembra che non si riesca a tenere la gente lontana da internet, nonostante gli anatemi dei rabbini.

Quindi oggi a Mea Shearim le poche auto sono ferme parcheggiate sotto casa, i bambini giocano in mezzo alla strada, alcuni sui cassonetti delle immondizie. Il quartiere ha un aspetto molto povero e sporco, probabilmente oggi più sporco del solito perché al sabato non si può raccogliere la spazzatura. Sembra di essere in un altro mondo, in un shtetl ottocentesco russo, come nel film Yentl di Barbra Streisard. Casette basse, maltenute, piccoli negozietti, nessuno spazio verde, niente fiori. A proposito, gli haredim tra loro non parlano l’ebraico, che considerano troppo sacro per essere usato nella vita di tutti i giorni, ma l’yiddish, quel misto di ebraico e tedesco che dall’alto medioevo diventò la lingua degli ebrei tedeschi e dell’est europeo. Gli haredim di Mea Shearim sono poveri, dedicano la loro vita allo studio della Torah e vivono per gran parte sui sussidi statali e sulle sovvenzione degli ultraortodossi all’estero. Ci sono grosse comunità di haredim anche negli Stati Uniti, che però mi sembra siano specializzate nel taglio e nel commercio dei diamanti, molto più lucroso della sola Torah.

Sulla guida c’è scritto che se si va a Mea Shearim bisogna essere vestiti in modo decoroso, assolutamente un uomo e una donna non si possono tenere per mano e un bacio in pubblico potrebbe essere motivo di lanci di pietre. In effetti c’è verso di noi, che siamo gli unici visitatori, un atteggiamento decisamente ostile, come se non dovessimo essere lì, probabile infatti che sia tacitamente vietato, soprattutto al shabbat. La maggior parte dei pastranati e delle loro donne non ci degna di uno sguardo oppure si volta decisamente dall’altra parte, salvo poi sbirciarmi il sedere dopo che sono passata (dice Mike). Una turista con una mappa in mano, sbucata chissà da dove, si rivolge per chiedere indicazioni a un vestagliato d’oro con la ciambella di pelliccia in testa con un garrulo “Excuse me, excuse me…”, lui si allontana frettolosamente agitando il braccio per tenerla lontana come se fosse contagiosa.

Un pastranato nero, piccolo, sciancrato e orbo mi si avvicina biascicando e mi sputa sul braccio, per fortuna la mira non è buona e solo qualche piccolo schizzo di bava arriva alla videocamera, che peraltro non stavo affatto usando. Non è chiaro se disprezzasse il mio braccio parzialmente nudo o la lontana possibilità che facessi delle foto. Roba dell’altro mondo, ma sempre meglio di una pietra!

Oggi ne abbiamo proprio viste di tutti i colori, anche se estremisti, preti e fanatici religiosi sono quasi sempre vestiti di nero.

In albergo purtroppo non sono ancora arrivate le valigie, il numero dei lost & found che ci avevano detto di chiamare non risponde al sabato, qui ci marciano anche i non ortodossi. In un supermercatino arabo riusciamo almeno a comprarci spazzolino e dentifricio, perché anche il negozio dell’hotel è chiuso. Davanti alle sale di riunione/sinagoghe sono esposte delle torte, perché dopo il tramonto lo shabbat, iniziato venerdì sera con una gran mangiata, si conclude il sabato sera nello stesso modo.

Ogni volta che prendiamo un taxi bisogna contrattare il prezzo, perché dalla mancanza della kippah la maggior parte dei taxisti denuncia la loro natura araba. Infatti gli unici che hanno mai utilizzato il tassametro sono gli ebrei. Alla fine ci sembra giusto che ogni tragitto da e per l’hotel costi 40 shekel, circa 8 euro, e non siamo disposti a mollare di più, nonostante i loro tentativi al rialzo. Andiamo a mangiare all’hotel YMCA, costruito dalla Young Men’s Christian Association, un’associazione cristiana molto popolare negli Stati Uniti  con la quale Mike ha preso il brevetto di sub. Quest’albergo è stato costruito all’inizio del ‘900 in stile neogotico, l’interno è austero e affascinante, forse sarebbe stata una migliore soluzione rispetto al Regency anche perché è vicinissimo alla città vecchia e di fronte al mitico King David Hotel. La cena però non è proprio un granché, filetto insapore e masticoso, patate bruciacchiate e notevoli spifferi d’aria dalle vetrate aperte sulla veranda. A Gerusalemme di sera in questa stagione non fa per niente caldo, giacca  e felpina non danno fastidio.

 

Non è facile entrare alla spianata del tempio, in teoria ci sono varie entrate ma sono tutte sbarrate da soldati che ti danno indicazioni non sempre chiare di dove sia l’unica entrata agibile. Sembra di essere in un labirinto dove ti trovi davanti a degli sbarramenti, devi tornare sui tuoi passi e tentare da un’altra parte. Tra l’altro dobbiamo sbrigarci perché a furia di sbagliare sono quasi le 11, il Monte del Tempio, o spianata del tempio, o spianata delle moschee, o Monte Moriah, o Haram Ash-Sharif, chiude alle 11, per poi riaprire solo dalle 13,30 alle 14,30. Alla fine dobbiamo riattraversare il posto di blocco per andare al muro del pianto, attraversare tutta la piazza e salire su una lunga passerella coperta, della quale ieri ci eravamo domandati la funzione,  che ci porta alla sommità del muro. Qui c’è un altro minuzioso controllo con perquisizione delle borse e metal detector, e finalmente siamo sul Monte del Tempio, che è sotto la custodia dei mussulmani.

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Gerusalemme è una città di colline, qui siamo sulla sommità di una di esse, il luogo più sacro per gli ebrei dove essi però non entrano. Secondo la tradizione qui c’è la grande roccia su cui Dio fondò il mondo, su cui Adamo, Eva, Caino e Abele compivano i sacrifici rituali e su cui Abramo avrebbe dovuto sacrificare il figlio Isacco. Attorno a questa pietra Salomone, secondo la Bibbia, fece costruire il I tempio intorno al 1000 a.C, ponendo al suo interno l’arca dell’alleanza, la cassa di legno rivestita d’oro che Dio donò a Mosè come prova della sua esistenza, dentro la quale erano custodite le tavole della legge, il bastone di Aronne, fratello di Mosè e sommo sacerdote, e la manna, il cibo divino che sostenne gli ebrei nelle peregrinazioni nel deserto. Gli ebrei non vengono in questo luogo perché non essendo chiaro quale fosse l’esatta ubicazione del tempio di Salomone, temerebbero di calpestare il suolo enormemente sacro del sancta sanctorum. Non c’è nessuna prova archeologica che questo tempio sia mai esistito, anche se gli ebrei continuano ad accusare i mussulmani di nasconderle, visto che la zona è da tempo sotto la loro giurisdizione. Il tempio fu distrutto, sempre secondo la Bibbia, nel 586 a.C. al tempo della conquista babilonese. Quando gli ebrei, dopo un esilio di 70 anni, poterono tornare in patria, edificarono nel 515 un secondo tempio. Erode fece costruire un muro tutto attorno e spianare riempiendo di detriti la sommità del monte, realizzando così l’immensa spianata che si vede oggi. Nel 70 d.C. il tempio venne distrutto dai romani, i quali fecero costruire al suo posto un tempio a Giove che fu in seguito trasformato in chiesa cristiana.

Il Monte del Tempio è oggi una vasta spianata lastricata disseminata di cipressi. Rispetto alla confusione della città vecchia, per non parlare della massa brulicante del Santo Sepolcro, qui c’è un’assoluta pace, pochissimi turisti, alcuni arabi dalla lunga veste azzurra. Una donna velata scivola silenziosamente, quasi senza ombra, sul bianco pavimento di arenaria. In fondo a sinistra, sopraelevato su una scalinata, si staglia la maestosa e armoniosa mole della Cupola della Roccia, la moschea costruita nel VII secolo subito dopo la conquista araba, proprio sulla roccia che nel frattempo era diventata sacra anche per i mussulmani. La moschea è rotonda, a somiglianza della cupola del Santo Sepolcro con cui voleva competere, la sua cupola dorata è diventata il simbolo di Gerusalemme, si staglia come un sole contro l’azzurro del cielo.

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Questa è la moschea più antica del mondo ancora oggi esistente, l’interno è bellissimo ma purtroppo non è più permesso ai turisti visitarlo. Nella parte della spianata direttamente opposta alla Cupola della Roccia c’è una tozza costruzione senza grosse attrattive architettoniche, la moschea Al-Aqsa, il vero e proprio luogo di culto, in grado di accogliere fino a 5000 fedeli, costruita nell’VIII secolo. Nel Corano sta scritto che in un viaggio durato una sola notte Maometto volò su un cavallo alato dalla Mecca fino alla moschea più lontana, dove salì in cielo e incontrò Allah. Non c’è scritto che questa moschea fosse a Gerusalemme, dove al quel tempo non c’erano ancora moschee, ma chissà perché circa 100 anni fa, all’epoca dell’immigrazione degli ebrei in Palestina, cominciò a diffondersi la credenza che Maometto fosse asceso al cielo nella moschea Al-Aqsa, dopo aver legato il suo cavallo alato al muro occidentale. Al-Aqsa diventò da allora, come se lo fosse sempre stato, il terzo luogo più santo dell’Islam, dopo Mecca e Medina. Tutta questa storia è terrificante, ma le sue sinistre implicazioni si perdono nel bianco, nell’azzurro e nell’oro, in questa splendida pace, nel religioso silenzio, nella brezza tiepida, nei minareti all’orizzonte. Il guardiano nella sua allabiyah azzurra, con lo zucchetto in testa, ci invita ad andarcene.

 

 

 

Poco prima della Porta dei Leoni c’è la Chiesa di S. Anna, costruita dai Crociati nel 1140. I Crociati conquistarono Gerusalemme nel 1099 al comando di Goffredo di Buglione, un condottiero fiammingo, facendone la capitale di un regno che comprendeva la Palestina e si estendeva al Libano e alla Siria. I crociati del regno di Gerusalemme si integrarono immediatamente con i notabili locali di stirpe siriaco-cristiana e armena, cominciarono a sentirsi più come nativi che come immigrati e a ragionare come gli orientali. Nel 1187 Gerusalemme fu presa da Saladino, poi ci furono alterne vicende per un altro secolo, dopodiché la città tornò definitivamente in mano mussulmana fino al 1918.

La chiesa di S. Anna è semplice e austera, con le alte volte disadorne, immersa in un fresco giardino racchiuse tra alte mura, sembra che sia stata costruita dov’era la casa di Anna e Gioacchino, i genitori di Maria. Dal 1856 appartiene al governo francese, cui fu donata dagli ottomani per l’aiuto ricevuto durante la guerra di Crimea. Uno degli aspetti più affascinanti di Gerusalemme è come in essa si intreccino gli avvenimenti storici. Nessuna città al mondo ha avuto una storia così complicata e interessante, legata agli avvenimenti storici e alle credenze religiose di oriente e occidente. E dove finisca la storia e inizi la pia o la losca invenzione è difficile dire.

Oggi io sono abbastanza a terra, perché per la seconda notte non ho dormito per nulla, dato che il mio lorazepam è rimasto nella valigia che è ancora in giro per il mondo. Nelle bottegucce del quartiere mussulmano compriamo un paio di magliette, un paio di mutande, rasoio e schiuma da barba e con una ricetta portata dalla provvida Silvana una scatola di Lorivan, il lorazepam israeliano. Il simpatico farmacista sorride sotto i baffi, si fa un po’ pregare ma alla fine me lo molla, già sto meglio. 

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Silvana invece si è fatta una bella dormita ed è tutta arzilla, ci trascina quasi letteralmente oltre la porta dei Leoni fino ai cimiteri mussulmano e ebraico, che ci lasciano del tutto indifferenti. Pietre sparse in una terra riarsa. Il cimitero ebraico è il più antico e usato ininterrottamente al mondo, secondo un’antica profezia è qui che Dio comincerà a resuscitare il morti quando il messia farà ritorno nel giorno del giudizio, quindi chi è sepolto qui guadagnerà un po’ di tempo. Siamo alle pendici del monte degli Ulivi, costellato di chiese che ricordano gli ultimi avvenimenti della vita di Gesù e di Maria raccontati dai vangeli: la chiesa dell’ascensione, la cappella russa dell’ascensione, la moschea dell’ascensione, la chiesa del Pater Noster, la chiesa del Dominus Flevit, la basilica delle nazioni nell’orto del Getsemani, la basilica dell’agonia, la tomba di Maria. La strada è in salita, il sole picchia, cominciamo a inerpicarci sul monte per ammirare il panorama, quando Mike ci urla dall’altra parte della strada, affollata di torpedoni di pellegrini, che l’ufficio lost & found dell’aeroporto ha risposto che le nostre valigie sono arrivate. Questo monte degli ulivi non è che sia così interessante per dei miscredenti, oltretutto è in salita, pigliamo un taxi e andiamo verso Yad Vashem, il museo dell’olocausto.

Il taxista è simpatico, è un palestinese che vive nel West Bank, la Cisgiordania. Attraversiamo il quartiere residenziale di Rehavia, con belle ville, ambasciate, giardini. Ci fa vedere la residenza del primo ministro Netanyahu, che è una normalissima casa cubica di cemento grigio, quasi squallida e persino prefabbricata si direbbe. Fa piacere notare che un primo ministro non sprechi i soldi pubblici in lussi superflui (nessun riferimento, ovviamente). Ettore chiede al taxista per chi ha votato, lui risponde che tanto cambiano le facce ma le idee sono le stesse, Ettore gli risponde che da noi non cambiano nemmeno le facce.

Il museo dell’olocausto, situato a circa 10 chilometri dalla città vecchia in una foresta di cedri, è un vasto complesso di architetture moderne, giardini e sculture. 

Yad Vashem, che in ebraico significa “un posto e un nome” da Isaia 56,5: “Io concederò nella mia casa e nelle mie mura un posto e un nome”, è stato inaugurato nel 2005 a seguito di un progetto approvato nel 1953 dal Knesset, il parlamento ebraico, per raccogliere le testimonianze dell’olocausto e onorare le sue vittime. L’edificio principale, disegnato dall’architetto Moshe Safdie, è un prisma triangolare di cemento armato con base in basso, lungo 200 metri, che penetra la montagna da una parte all’altra, con le due estremità drammaticamente sospese nell’aria. La struttura triangolare è stata scelta per  sopportare la pressione della terra sopra di essa e nel contempo far penetrare la luce attraverso la vetrata posta lungo tutto il suo spigolo superiore. Il triangolo simboleggia anche una delle due metà della stella di David, perché l’olocausto ha dimezzato la popolazione ebraica nel mondo. La sezione del triangolo è più stretta al centro, e questo, insieme ad una leggera pendenza  verso il basso, crea l’illusione di scendere profondamente dentro la montagna, quasi di scendere nell’abisso dell’inferno. Il museo raccoglie migliaia di documenti storici, lettere, fotografie, testimonianze dei sopravvissuti, descrivendo la storia dell’olocausto in un crescendo di angosciante brutalità che lascia totalmente schiacciati. Il mondo si divideva in due parti: quelle in cui gli ebrei non potevano andare e quelle in cui non potevano stare. Le scarpe dei deportati lasciate fuori dalle “docce”. Le fotografie degli esseri scheletriti scattate alla liberazione. Le marce della morte nei boschi innevati per eliminare le tracce di chi non era ancora stato gasato. Le cifre: 3.000.000 di ebrei polacchi sterminati su 3.250.000. Pio XII che non ha fatto nulla di determinante per salvarli. Perché Aushwitz o le linee ferroviarie che portavano lì non sono state bombardate per mettere fine all’eccidio? Nei paesi come la Bulgaria e la Norvegia in cui il governo si è rifiutato di consegnare gli ebrei, gli ebrei si sono salvati. Un vagone ferroviario che trasportava gli ebrei, che puzza ancora di strada ferrata.  La musica nei ghetti, quando ancora tutto non era fame  e morte. Le navi piene di  fuggitivi che vagavano per i porti di mezzo mondo senza ottenere il permesso di sbarco.

Avviandosi verso l’uscita il pavimento va in leggera salita e la sezione del triangolo si espande. Si passa di fianco alla grande cupola luminosa dove sono incisi i nomi dei milioni di ebrei scomparsi, si va verso la luce e infine, oltrepassando una porta di cristallo, una terrazza sospesa su Gerusalemme, il sole, il vento il cielo infinito, le splendide colline. Un sopravvissuto disse: Dopo una tragedia come questa ti aspetteresti che tutto il mondo fosse tramutato in acqua, invece tutto è come prima, il sole splende sempre. Ignavo, indifferente o consolatore, mi chiedo.

 

 

Il ricordo del milione e mezzo di bambini morti nell’olocausto è custodito nel Children’s Memorial, scavato nella roccia. Nel buio assoluto, la luce di una singola candela si riflette in centinaia di specchi, come se ci trovassimo sotto la volta di un limpidissimo cielo stellato, mentre una voce pronuncia il nome del bambino, la sua provenienza e l’età in cui è morto. Sono da sola qui dentro, l’emozione è enorme, questo è il vero Santo Sepolcro di Gerusalemme. All’uscita, c’è la scultura che raffigura un vecchio che abbraccia dei bambini, Janus Korczak, il nome di penna del pediatra-scrittore direttore dell’orfanotrofio per bambini ebrei di Varsavia, che aveva trasformato in una sorta di repubblica per bambini.  Janus scelse di accompagnarli a Treblinka invece di accettare rifugio per se stesso nella parte ariana della città. I quasi duecento bambini partirono con il loro direttore, vestiti con i loro abiti migliori, sulle spalle il loro zainetto blu con un libro e un loro gioco, atterriti ma senza che nessuno di essi versasse una lacrima.

C’è una calma incredibile qui fuori, gli studenti se ne sono andati, è l’ora di chiusura.

Quando torniamo in albergo esultiamo: ci sono le valigie! Finalmente possiamo togliere le magliette zozze e lavarci i capelli. Purtroppo tutte le sere che restiamo a Gerusalemme ci dimentichiamo di andare sul terrazzo dell’albergo a vedere il tramonto sulla città, peccato. Stasera andiamo in taxi a mangiare in un ristorante che ho visto consigliato in Turisti per Caso su internet. Il taxista è il peggiore che ci è capitato finora, un grassone stravaccato sul sedile lasciando a noi dietro pochissimo posto, continua a parlare al cellulare. Noi non riusciamo a distinguere l’arabo dall’ebreo, hanno un suono gutturale molto simile. Il ristorante è molto carino e si mangia bene, la camerierina alle prime armi è dolcissima. Torniamo a casa con un taxista ebreo (si riconosce dalla kippah) che non spiccica una parola d’inglese ma mette il tassametro. Chissà da dove viene, che strano paese è questo.

 

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L’Israel Museum è nella parte ovest della città. Purtroppo la maggior parte delle sezioni è chiusa per restauri, in pratica resta visitabile solo il Santuario del Libro, dove sono conservati i famosi rotoli del Mar Morto. E’ una raccolta di documenti religiosi, rituali e mistici, quasi tutti in ebraico, alcuni in aramaico, conservati dagli esseni, rifugiatisi  tra gli aridi monti intorno a Qumran, sul Mar Morto, al tempo della rivolta scoppiata nel 135 d.c. guidata dal rivoluzionario Simon Bar Kochba, che si credeva il Messia. Dopo che i romani soffocarono questa III rivolta giudaica, il regno di Giuda cessò definitivamente di esistere e il nome Judea fu cambiato in Syria Palestina. Gli esseni erano asceti che vivevano in comunità dei magri prodotti della terra, secondo regole morali estremamente morigerate, e che si dedicavano principalmente ai rituali e alla preghiera. I rotoli furono scoperti nel 1947 da un beduino, conservati in giare. Il pezzo più importante è il grande rotolo di Isaia, scritto 2200 anni fa, lungo 7,5 metri, formato da 17 pezzi di pergamena cuciti insieme, che contiene tutti i 66 capitoli del libro di Isaia. La sala che li contiene è conica, in penombra, il rotolo di Isaia occupa il posto d’onore al centro.

All’esterno il Santuario del Libro ha la forma del un coperchio di una giara, di un bianco candido, che si staglia contro una scultura quadrata nera, a simboleggiare la luce che emerge dalle tenebre.

 

 

 

All’entrata del museo, all’aperto, c’è un grande plastico in scala 1:50 di Gerusalemme nel 66 d.c. Sul monte del tempio, dove attualmente ci sono le due moschee, c’era il II tempio ebraico, rimodernato e ampliato da Erode il Grande, che dell’aggettivo si avvale senz’altro come costruttore. Erode, figlio di un edomita e di una nabatea, abitanti del deserto, regnò la Giudea dal 37 al 4 a.c., avendo sposato Mariamne, della dinastia ebraica dei Maccabei che regnava su Israele, a quel tempo tributaria dell’Impero Romano. Erode si convertì all’ebraismo, consolidò e ampliò il regno, si alleò dapprima con Antonio, poi astutamente con Ottaviano Augusto, costruì templi, palazzi e fortezze a Gerusalemme, fondò le città di Cesarea Marittima e di Sebaste, edificò le fortezze di Masada, Herodion e Macheronte. Si trattava di un personaggio ambizioso, violento e sospettoso, uccise due delle sue mogli, alcuni figli e innumerevoli oppositori, ma non ci sono prove storiche della strage delle innocenti che avrebbe perpetrato quando Gesù era neonato, nefandezza di cui forse sarebbe stato capace ma della quale parla solo il vangelo di Matteo e soprattutto non  parla lo storico Giuseppe Flavio, grande detrattore di Erode.

Ci fa la visita guidata del plastico una simpatica signora. Scopriamo che non sa niente dell’esistenza di Giovanni Battista, del quale Salomè, la nipote di Erode, avrebbe chiesto la testa. Evidentemente i vangeli non sono letti dagli ebrei, che dei personaggi presenti solo nel nuovo testamento non hanno mai sentito parlare, come se non fossero mai esistiti. Lo strano è che invece i mussulmani hanno preso a piene mani ovunque, persino facendo di Giovanni Battista uno dei loro più importanti profeti. Erode costruì anche, a difesa della città e del suo palazzo che ne era proprio a ridosso, un bastione difensivo che di quei tempi conserva solo poche vestigia, e al quale dal medioevo è stato dato il nome di Torre o Cittadella di David, anche se con David non c’entra niente.

 

 

 

Con il taxi ci fermiamo davanti alla torre, subito al di là della porta di Giaffa, e veniamo subito agganciati da un arabo che vuole portarci a fare un giro guidato della città. Il giro non glielo concediamo, ma andiamo nel ristorante di un suo amico che è proprio lì vicino. Si mangia bene, sono gentili e si spende poco, però non c’è assolutamente nessuno oltre a noi. Forse perché da fuori ha l’aspetto di una banca e dentro l’arredamento è impersonale. I turisti amano il folklore. Ettore non manca di gustarsi dell’altro hummus, facendo fuori due cestini di pane. Il gastrectomizzato è quello che mangia più di tutti, perché è senza fondo (dello stomaco).

Vediamo i bambini che escono da scuola, spensierati e casinisti come tutti i bambini del mondo, ma accompagnati da guardie, in borghese ma evidentemente armate con una 44 Magnum.

La torre di David è una cittadella difensiva circondata da possenti bastioni e torri. Delle tre torri edificate da Erode rimangono solo i resti della più grande, costruita a imitazione del faro di Alessandria. Durante le crociate la cittadella fu ricostruita e distrutta più volta, prendendo l’attuale forma nel XIV secolo sotto i mamelucchi, schiavi provenienti dalle steppe eurasiatiche poi convertiti all’Islam, che grazie alle loro doti belliche e amministrative riuscirono ad assurgere a posizioni di potere arrivando a governare Egitto e Siria dal XIII al XVI secolo. Nelle torri della cittadella è allestito uno stupendo museo che in modo molto semplice e accattivante descrive la storia di Israele con plastici, animazioni, modelli, descrizioni, disegni e cartine, dall’inizio fino all’Indipendenza nel 1948, altro file ancora più complicato. Vediamo anche un simpatico documentario animato fatto da un grande artista ebreo italiano, Emanuele Luzzati, deceduto l’anno scorso.

Nelle segrete della cittadella c’è un plastico in stagno 1:500 fatto da Stephan Illes, un rilegatore nativo di Bratislava, che raffigura la Gerusalemme del 1872. Il plastico venne presentato all’esposizione di Vienna nel 1873, e ritrovato più di cento anni dopo la sua costruzione in un magazzino di Ginevra.

Usciti dalla cittadella di David, pervasi di storia, affrontiamo un altro capitolo non meno strano e interessante: il quartiere armeno, che occupa l’estremità sudovest della città vecchia. Sembra che esso sia stato costruito dove al tempo della colonizzazione romana era acquartierata la X Legio Fretensis, e che i primi armeni siano giunti al seguito dei romani nel I secolo a.c. Lo stanziamento vero e proprio degli armeni avvenne nel V secolo, quando gruppi di pellegrini vi presero stabile dimora. La comunità armena di Gerusalemme conta circa 3000 persone, ha una struttura molto chiusa, con proprie scuole, chiese, seminari e biblioteche, il quartiere residenziale circondato da una cinta muraria. Gli armeni hanno avuto una storia per molti versi simile a quella ebraica, fatta di persecuzioni, piccoli e grandi massacri, fino al genocidio perpetrato dai ottomani nel 1915, cui seguì la diaspora in cui parecchi armeni fuggirono anche a Gerusalemme. Il quartiere è austero, molto pulito, mura severe con finestrelle a bifora, rallegrato dai negozi di ceramiche. Il nonno della ragazza che ci vende i sottopentola dipinti a mano da lei è appunto arrivato a Gerusalemme intorno al 1920. La storia continua a grondar sangue dappertutto, e al tempo stesso la vita va avanti, dal genocidio ai sottopentola a fiori multicolori.

La Lonely Planet consiglia un giro sui tetti, che è molto meno romantico di quanto ci aspettassimo. E’ comunque curioso vedere che i tetti, che qui sono piatti, vengono utilizzati dai bambini per giocare o per passare da una casa all’altra. Ci sono delle specie di comignoli che sono i condotti d’areazione dei suk, sbirciando attraverso le grate si vedono i negozietti del quartiere mussulmano e la gente che compra. Ci aspettavamo dei panorami sulla città vecchia, in effetti si vedono solo tetti. Scendendo però ci troviamo davanti a un parapetto che dà sulla piazza antistante il muro occidentale. E’ stata tolta la transenna del Bar Mitzvah, e con quelle impalcature che abbiamo visto nei giorni scorsi è stato allestito un palco, davanti al quale è posta una schiera di sedie. Ci sono in giro moltissimi militari. A un ragazzo con la divisa verde, alto e moro, con la faccia simpatica, sui 20 anni, chiedo cosa stia succedendo, così scopriamo che il 29 aprile è il 61° anniversario dell’indipendenza di Israele. La ricorrenza è talmente grande che la preparazione e la meditazione cominciano già dai due giorni precedenti. Stasera verrà a fare un discorso Simon Perez, ecco perché il palco e le sedie, e perché la piazza davanti al muro del pianto non era vuota come me l’aspettavo. Il ragazzo militare mi spiega anche che la divisa verde, come la sua, è quella dell’esercito, ridendo mi dice che lui è un marine, mentre quelli con la divisa blu sono la polizia civile e quelli con la divisa grigia sono la polizia addetta ai problemi con i palestinesi.

Ritorniamo al livello della strada e andiamo verso il quartiere ebraico, nella zona sud-occidentale della città vecchia oltre il quartiere armeno, totalmente distrutto durante la guerra arabo-israeliana del 1948, e completamente riedificato dopo la riunificazione di Gerusalemme nel 1967. Perciò rispetto agli altri quartieri della città vecchia ha un’aria così nuova, anche se sono state portate alla luce numerose rovine che risalgono all’epoca del I e II tempio. Ovviamente qui è pieno di ebrei con il vestito e il cappello nero e le basette a ricciolo, chi è vestito normalmente ha quanto meno la kippah. Dato che non abbiamo ancora visto nessuna sinagoga, ce ne facciamo indicare una, per la verità Mike chiede dove sia la moschea, fortunatamente suscita una reazione di ilarità piuttosto che di ostilità. Qui ci sembrano tutti piuttosto rilassati, anche il simpaticissimo giovane con il vestito tradizionale con il quale ci mettiamo a parlare. Questa che stiamo per vedere è una piccola sinagoga, ma ha la particolarità di essere l’unica a non essere stata distrutta durante la guerra del ’48. Si può entrare liberamente, nessuno fa caso a noi. Avendo visto le sinagoghe di Venezia, mi aspettavo qualcosa di diverso, invece si tratta semplicemente di una stanza, anche abbastanza piccola, con dei banchi su cui sono aperti dei libri, una biblioteca, un armadio semplicissimo che contiene la torah addossato ad una delle pareti. Le sinagoghe decorate e artistiche sono una caratteristica dell’Europa, dove gli ebrei subivano l’influenza e la competizione del culto locale. Un vecchio prega cantilenando appoggiato alla finestra, dondolandosi avanti e indietro. Da quanto ho visto finora, direi che lo sfoggio e il lusso sono estranei alla natura ebraica.

Ci fermiamo in un bar sulla piazza principale, dove un gruppo di ragazzi sta provando uno spettacolo per la festa dell’indipendenza. Guardiamo il passaggio, i bambini con le loro basette a ricciolo e la loro kippah che non si sa come faccia a rimanere al suo posto mentre si rincorrono e sgommano sulle biciclette. Io vado a vedere un’altra sinagoga, la più importante della città vecchia, uguale identica alla precedente, solo più grande.

Io e Silvana siamo alquanto infreddolite, nonostante il te alla menta caldo. Torniamo verso il quartiere armeno dove abbiamo adocchiato un ristorante che ci sembra molto carino. Si scende in un seminterrato tutto decorato di dipinti e candelabri, con mobili antichi, vecchie lampade di bronzo, vetrinette dove sono esposti gioielli. Si mangia abbastanza bene, e soprattutto non ci sono spifferi freddi. Diventa presto pieno di gente, a differenza del ristorante arabo nel quale abbiamo pranzato e davanti al quale passiamo per uscire dalla porta di Jaffa, che è ancora disperatamente vuoto.

 

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Ein Gedi (28-29 aprile)

 

Andiamo a noleggiare l’auto che ho prenotato a Romema, un quartiere residenziale di Gerusalemme poco lontano dall’hotel. La cosa più divertente è che quando chiediamo la direzione per andare a Ein Gedi ci dicono: sempre dritto. Siamo già praticamente sulla strada n.1 che porta da Tel Aviv a Gerusalemme e poi al Mar Morto, poi imbocchiamo la 90, proveniente dal Lago di Tiberiade, dirigendoci verso sud e costeggiando la sponda occidentale del Mar Morto. Il Mar Morto, che in realtà è un lago, si trova a 398 metri sotto il livello del mare, la depressione più profonda del pianeta. Man mano che lo costeggiamo i cartelli autostradali ci avvertomo: -100, - 200, - 300, fino ad arrivare alla zona più bassa. In realtà visivamente non si ha questa sensazione, perché le sponde sono formate da aridi monti rocciosi. Il Mar Morto è lungo 76 chilometri e largo al massimo 16, sta al confine tra Israele e la Giordania. E’ dieci volte più salato degli oceani, infatti si chiama così proprio perché l’elevata salinità non consente alcuna forma di vita. Il Mar Morto è sfruttato estensivamente per la raccolta di cloruro di potassio, bromo e magnesio, per cui sulle sue rive si vedono spesso impianti industriali molto poco estetici, soprattutto nella parte meridionale. Il paesaggio è desertico, le rocce color ocra, il mare alla nostra sinistra è azzurro pallido, la sponda giordana si intravede appena nella foschia assolata. Sulla nostra destra vediamo un cartello che indica Sodoma, la mitica città che secondo la Bibbia venne distrutta da Dio insieme a Gomorra per la cattiveria dei suoi abitanti. Non ci fermiamo perché sembra non ci sia nulla da vedere, l’interessante è che la recente scoperta di una tavoletta di terracotta assira del 700 a.c. sembra confermare l’ipotesi che all’alba del 30 giugno 3123 a.c. un asteroide sia  caduto sulle alpi austriache e che due frammenti infuocati abbiano colpito, distruggendole, Sodoma e Gomorra, mentre il ghiaccio istantaneamente trasformato in vapore acqueo abbia causato una pioggia ininterrotta di un mese e mezzo tramandata ai posteri come il diluvio universale.

Dopo neanche un paio d’ore arriviamo a Ein Gedi, la sorgente del capretto, un’oasi nel deserto spesso nominata nella Bibbia. Dall’altopiano desertico le acque che si raccolgono durante le piogge cadono per gravità verso la depressione del Mar Morto, raccogliendosi in wadi, specie di torrenti, che formano oasi, cascate, pozze. Durante l’estate si prosciugano quasi del tutto, mentre in inverno scorrono impetuosi dalle pendici dei monti.

 

 

 

Dopo che per 500 anni questa zona non era stata più stabilmente abitata, nel 1956 è stato fondato un kibbutz, che è poi anche stato adibito a villaggio vacanze. E’ una specie di giardino dell’Eden, i bungalow di cemento abbastanza spartani sono immersi in una vegetazione incredibile, variopinti fiori tropicali, rigogliosi rampicanti, piante grasse di specie mai viste. Vicino alla camera c’è un vasto spiazzo erboso con enormi baobab e ficus.

 

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Con la macchina andiamo a una spa con prati, piscine, trattamenti termali. L’atmosfera è vacanziera, di totale relax, ma non possiamo fare a meno di notare che anche il ragazzo che serve al bar porta una 44 magnum alla cintura. I luoghi turistici sono sempre stati tra gli obiettivi preferiti dei terroristi kamikaze. In origine la spa era sulla riva del Mar Morto, mentre ora è distante un chilometro abbondante. C’è anche un trenino, ma noi percorriamo a piedi la strada tracciata in una landa desolata, costellata di cartelli indicanti dove arrivava la riva negli anni passati. Il Mar Morto si sta ritirando ad una velocità impressionate, tanto che di questo passo forse tra pochi anni non esisterà più, perché i corsi d’acqua che lo alimentavano, soprattutto il Giordano, sono stati deviati per le esigenze idriche della popolazione. Per porre rimedio a questa situazione bisognerebbe destinare ancora una quota dell’acqua del Giordano al Mar Morto, oppure portare con un acquedotto dell’acqua desalinata (mi chiedo in effetti perché far la fatica di desalinarla) dal golfo di Aqaba. Sta di fatto che per arrivare alla riva passiamo attraverso una zona di fango salato secco, giallastro, riarso dal sole, percorso di crepe. E’ vietatissimo uscire dalla strada tracciata, per il pericolo di sprofondamenti. Quando arriviamo alla riva scopriamo che, a differenza della parte giordana, non c’è sabbia e nel mare il fondo non è melmoso: camminiamo su uno strato durissimo di puro sale, che tra l’altro fa molto male ai piedi perché è ruvido come carta vetrata a grana grossa. In compenso il mare è azzurro e trasparente, invece del marron verdastro cupo dell’altra sponda. Con il binocolo si vede meglio la riva Giordana, riusciamo a distinguere i complessi turistici. L’acqua è tiepida, si galleggia come turaccioli di sughero. Sulla riva sono ordinatamente parcheggiate tre biciclette arrivate chissà da dove, di proprietà di chissà chi, fa tanto nostalgia.

 

 

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Torniamo alla spa, dove facciamo una scorpacciata dei datteri che abbiamo comprato. Ne offro uno a un merlo che senza tema me lo prende dalle dita e se lo porta via tutto intero.

Il kibbutz si affaccia su uno spettacolare gola, il Wadi Arugot. In fondo alle rocce scabre occhieggia il fiume, circondato di vegetazione. La cena è una delizia, nel buffet c’è ogni ben di dio, mi ricordo soprattutto le verdure e i baklava. Beviamo un vino del Golan, che ci porta un ragazzo simpatico e birbante che mi guarda con occhio volpino. Quando gli dico che questo è un paradiso risponde, alzando prima un sopracciglio e poi l’altro: “Si, è molto quieto..”, lasciando chiaramente intendere che qualche diversivo non gli giungerebbe sgradito.

Quando usciamo si sentono strani urli nella notte, che rispondono al rumore dei fuochi d’artificio della festa dell’indipendenza. Questa cacofonia rauca e stridente sono i versi che i pavoni in amore, appollaiati sugli alberi, si lanciano l’un l’altro. Quindi i pavoni pagano la bellezza della coda non solo con la bruttezza dei piedi, ma anche con l’orribile voce.

 

Il trekking di oggi è al Wadi David, così chiamato perché tra le grotte di questa zona David si nascose da Saul che lo voleva uccidere. Ci inoltriamo nella spaccatura tra le rocce della montagna nella quale scorre il wadi, un torrente ricco d’acqua che forma cascate e pozze. Tra le rocce vediamo saltare gli ibex, degli stambecchi dalle lunghe corna ricurve. E’ pieno anche di piccoli animali che somigliano a marmotte, chiamati iraci, che non hanno la minima paura di noi. E’ spettacolare fare il bagno nelle pozze formate dalle cascate, asciugarsi seduti sui massi, vedere in lontananza il Mar Morto.

 

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Tornando verso il kibbutz passiamo dal parco archeologico dove ci sono i resti di una sinagoga, la più antica ritrovata in Israele, risalente al III secolo, di cui rimane solo il bellissimo mosaico pavimentale con motivi geometrici e uccelli. Nella fascia laterale si vede intatta una misteriosa iscrizione in aramaico che ammonisce gli abitanti della città a non rivelare mai il proprio segreto, che potrebbe essere stato la fabbricazione di un profumo a partire da una resina prodotta da piante del luogo.

Prima di cena facciamo un giro nel kibbutz, tutto un giardino botanico, andando anche nella parte abitata dai residenti. A differenza dei rigogliosi giardini, le case sono semplici, di cemento, non particolarmente curate, come quasi ovunque in Israele, che è nata come un paese socialista e continua fondamentalmente ad esserlo, dato che la destra e la sinistra si distinguono più che altro per l’atteggiamento di falchi o di colombe verso la questione palestinese.

Nell’oscurità, affacciandoci verso il wadi, vediamo gli stambecchi aggirarsi sulle rocce, cercando forse dei varchi per entrare nel kibbutz e mangiarsi le piante curate amorevolmente.

 

Masada (30 aprile)

 

Ein Gedi è un posto bellissimo, ci dispiace davvero andarcene. La nostra prossima meta è Masada, in effetti distante solo una ventina di chilometri. Ci sistemiamo nell’ostello proprio ai piedi della fortezza, molto squadrato ma decisamente confortevole, c’è persino una bellissima piscina.

Già nel I secolo a.c. la situazione in Medio Oriente era piuttosto calda, per cui Erode decise di costruire una fortezza nel deserto, per ritirarvisi nel caso la situazione politica volgesse a suo sfavore. La fortezza fu costruita su un altipiano di circa sei chilometri quadrati, in cima ad un roccione a 400 metri sul livello del Mar Morto. Da dove siamo noi, cioè da dove proviene la maggior parte dei turisti, si può salire alla fortezza tramite il sentiero del serpente, usato anche nell’antichità, una ripida strada che si inerpica a zig zag sul fianco della montagna, oppure attraverso una comoda funivia che parte dal centro visitatori, dove c’è un suggestivo museo sulla storia di Masada. Dalla fortezza il panorama è mozzafiato: il deserto è corrugato come un paesaggio lunare e increspato in onde di colore ocra, giallo, grigio, il Mar Morto azzurrino a delimitarlo.

 

 

 

Le rovine della fortezza sono piuttosto deteriorate, non tanto a causa dell’assedio quanto per il terremoto, ma danno possentemente l’idea di quanto essa doveva essere splendida e imponente, si rimane trasecolati pensando che una simile operata architettonica sia stata costruita, su una roccia inaccessibile, in soli cinque anni, dal 36 al 31 a.c. Altrettanto incredibile è vedere i resti delle terme e delle piscine, e le grandi cisterne per l’acqua, che veniva portata in otri a dorso di mulo lungo una stradina scavata sul fianco della montagna dalla parte ovest, dove con sapienti canalizzazioni si raccoglievano le acque che refluivano dalla montagna attraverso i wadi.

 

 

 

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La storia di Masada è diventata leggenda per il movimento sionista, tuttora le reclute dell’esercito vengono portate alla fortezza per pronunciare il giuramento “Mai più Masada cadrà”. Dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.c. la fortezza era presidiata solo da un manipolo di soldati romani. Fu presa da un gruppo di circa 900 zeloti, un movimento politico-religioso che  lottava per l’indipendenza dello stato ebraico e per l’ortodossia religiosa. Gli zeloti, ideologicamente vicini agli esseni di Qumran, avevano fomentato la rivolta anti-romana culminata nella distruzione di Gerusalemme. Il gruppo si stabilì dunque a Masada sperando di essere lasciato in pace dai romani, sfruttando le provviste di acqua e cibo vecchie di un secolo ma in perfetto stato di conservazione ammassate da Erode come in un rifugio antiatomico. I romani però non volevano mollare l’osso, la X Legio Fretensis si acquartierò sotto le mura, tagliò le riserve d’acqua e cominciò un lungo assedio che durò due anni. Affacciandosi dai bastioni sono ancora perfettamente visibili le tracce degli accampamenti romani. Quando i romani riuscirono ad ultimare un poderoso terrapieno che gli permetteva di avvicinarsi alle mura con gli arieti, gli zeloti capirono che non sarebbero durati più molto a lungo e che presto sarebbero caduti nelle mani dei romani e fatti schiavi. Furono estratti a sorte dieci soldati, mentre l’undicesimo era il leader, il leggendario Eleazar Ben Yair. Nel museo sono conservati gli ostracon, i frammenti di coccio su cui erano scritti i nomi dei dieci estratti e del capo, trovati durante gli scavi archeologici. Gli undici uccisero a fil di spada tutti gli altri, e infine Eleazar uccise i compagni e se stesso. Alla terribile ecatombe di uomini, donne e bambini cui i romani si trovarono di fronte sopravvissero solo due donne e cinque bambini, che si erano nascosti o che forse furono lasciati vivere per raccontare. La storia di Masada è ben conosciuta perché insieme alla legione romana c’era lo storico Giuseppe Flavio, ebreo romanizzato che scriveva in greco, considerato dagli ebrei un traditore, ma senza il quale non sapremmo praticamente nulla della storia di quel periodo.

Scendendo non ci perdiamo il sentiero del serpente, con una camminata sotto il sole a picco che ci lascia esausti e disidratati. Ho scelto l’albergo vicino a Masada, invece di restare nel più suggestivo kibbutz di Ein Gedi, per due motivi: vedere l’alba dalla fortezza e vedere lo spettacolo suoni e luci alla sera. Dopo la discesa defatigante abbiamo comunque già abbandonato l’idea dell’ascesa all’alba.

 

 

Lo spettacolo suoni e luci viene fatto sul lato ovest, davanti al terrapieno costruito dai romani. è a poco più di un chilometro dal nostro albergo, ma una strada breve per arrivarci non c’è, scopriamo che bisogna fare un lungo giro circolare passando dalla cittadina di Arad, che dura circa un’ora. Arad è un posto abbastanza dimenticato da dio, con un certo desiderio di farne una cittadina vivibile ma siamo pur sempre in pieno deserto e tira un vento inclemente. Chiedendo ai rari passanti riusciamo ad individuare un pub in cui mangiare, quando ci entriamo dentro sembra di stare in Scozia. Bancone di legno scuro con tutti i tipi di birra, soffitto ricoperto dalle sciarpe multicolori delle squadre di calcio, tra cui individuiamo un “Forza Lecce!”, bellissime cameriere teenager con le tette esposte. Solo raccomandiamo di non prendere il vino rosso al bicchiere.

Dopo cena ci inoltriamo nel deserto verso questo suoni e luci che non sappiamo nemmeno bene se ci sia veramente. Ma quando alla fine arriviamo c’è un mucchio di gente, ci chiediamo da dove sia sbucata. In Israele le audio guide in italiano non ci sono mai, solo inglese, francese e tedesco. Lo spettacolo è bellissimo, raccontato da una voce maschile e una voce femminile. I bastioni della città e il lato sud con il palazzo di Erode si accendono di bagliori, dal terrapieno partono frecce incendiarie, infine tutta la fortezza brucia. L’uomo esalta il coraggio degli zeloti, la donna si chiede se tutto il sangue versato abbia un senso. Ovviamente questo dilemma si applica paro paro alla situazione attuale, e come sempre nelle rievocazioni storiche ufficiali gli israeliani sono molto misurati, con il dubbio e la tristezza che ci fosse un’altra via, orgoglio per la ricostruzione di un sogno impossibile e impotente rassegnazione di fronte all’inevitabile o al non evitato si mescolano continuamente.

 

Ein Avdat, Mitzpe Ramon (1-2 maggio)

 

A colazione incontriamo un’orda di ragazzi che tornano dalla visione dell’alba sulla fortezza, sono un po’ invidiosa ma l’idea dell’alzataccia alle quattro con sentiero del serpente ieri sera non sembrava nemmeno concepibile. Ci inoltriamo ancora più a sud nel deserto del Negev diretti a Mitzpe Ramon. All’incirca a metà strada ci fermiamo a Ein Avdat, per un piccolo trekking lungo un wadi. L’acqua della pozza dovrebbe essere di un azzurro cristallino invece è stagnante, qualcosa è cambiato.

Avdat è una città nabatea fondata nel I secolo a.c. dove c’era un caravanserraglio, chiamata come il leggendario re nabateo Obodas sepolto qui. Era un importante punto di sosta sulla via dell’incenso da Petra a Gaza, giunse al suo massimo sviluppo durante la dominazione romana, dal 160 d.c. fino a III secolo. Si vedono i resti di una villa romana e delle terme, alimentate da un pozzo scavato nella roccia profondo 70 metri. Quando passò sotto i bizantini le risorse della città si arricchirono anche dell’agricoltura, soprattutto della coltivazione del vino. Infatti si vedono i resti di una chiesa bizantina e di presse da vino. Siamo in pieno deserto, tuttavia i nabatei riuscirono con sapienti canalizzazioni delle acque piovane a coltivare con successo la vite, cosa che dopo più di 1500 anni gli israeliani hanno ricominciato a fare. Nel bel mezzo delle aride distese pietrose di tanto in tanto si vedono occhieggiare appezzamenti rettangolari di un verde intenso e brillante, il sogno di Ben Gurion fatto realtà di rendere fertile il Negev.

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Nel mondo antico l’incenso era preziosissimo, usato nelle cerimonie religiose e per le suo proprietà medicinali, la civiltà nabatea è praticamente fondata sulla prosperità che da esso derivava, oltre che sul commercio di altre spezie come la mirra e dell’asfalto estratto dal Mar Morto, usato dagli egiziani per la mummificazione. Sembra che produzione dell’incenso, la resina trasudata da particolari arbusti, fosse un segreto nelle mani di non più di mille famiglie residenti nella penisola arabica, nella zona corrispondente all’attuale Yemen. I nabatei erano i soli in grado di attraversare il deserto con i cammelli, conservando gelosamente il segreto delle piste che conducevano a riserve d’acqua accuratamente nascoste. Dallo Yemen, costeggiando la parte meridionale e orientale della penisola arabica, il viaggio delle carovane nabatee impiegava due mesi fino a Petra, poi altri cinque giorni fino al porto di Gaza sul mediterraneo, con fermate intermedie nelle città di Avdat  e Moa.

Sono molto belle anche le tomba a ipogeo, con loculi scavate nella roccia, situate ai confini della città.

 

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Arriviamo a Mitzpe Ramon, una cittadina situata nel cuore del Negev, abitata soprattutto da ebrei marocchini e rumeni. Nata come città industriale per lo sfruttamento delle miniere del Negev, la località ha adesso una vocazione turistica per il fatto di essere situata sul cratere, Makhtesh Ramon. Ho prenotato per telefono al Succah in the Desert, dei bungalow nel deserto, per godere di un’esperienza mistica (secondo la Lonely Planet). Sappiamo che sono a circa sette chilometri dalla città, lungo un wadi. Quello che immagino sono dei graziosi bungalow lungo un torrente che crea una piccola oasi, poco distanti dal cratere ai bordi del quale godere di meravigliosi tramonti. La signora del centro visitatori ci indica che strada prendere e ci dice “Vedrete…”, come per farci assaporare la meraviglia.

Al termine di una strada sterrata e sconnessa, arriviamo in un posto che non corrisponde affatto alle nostre aspettative. Ci sono delle specie di capanne coperte da polverose foglie di palma, sparse in mezzo a una pietraia. Entriamo nella struttura più grande, dove si mangia in comune, da un lato la cucina con il bancone, dall’altro le panche e i tavoli. Dappertutto sono stravaccati enormi cani addormentati di tutte le razze, in mezzo al passaggio e sulle panche. Due gatti soriani grassotti e dal pelo lustro passeggiano sul bancone della cucina incuriositi dai nuovi arrivati. La ragazza ci munisce di una lampada a petrolio e di lenzuola violette che prendiamo riluttanti sotto il braccio e ci dice di dirigerci verso le nostre capanne, che sono una circa a 150, l’altra a circa a 200 metri, in mezzo alla pietraia. Passando, esploriamo tristemente il gabinetto, distante almeno 100 metri dalle camere, un water a secco dove, a operazione ultimata, bisogna buttare della segatura. Per lavarsi in camera abbiamo un catino e una brocca come ai vecchi tempi. La doccia e un altro water secco sono vicini al ristorante, alias dormitorio dei cani. Ci immaginiamo nel buio della notte a cercare il cesso tra le pietre sconnesse, forse in mezzo ai coyote, con la nostra lampada a petrolio tremolante.

Torniamo atterriti dalla ragazza, che forse se l’aspetta avendo già assistito a scene di queste genere, e le dico “We are not ready for this”, come se mi riferissi all’esperienza mistica. La padrona sta dormendo e il padrone non c’è, che si fa? Ettore non è nemmeno sceso dalla macchina dove sta rintanato con fare risoluto, io, Mike e Silvana discutiamo se sia possibile passare qui almeno una notte, dato che conoscono il numero della nostra carta di credito. Dopo aver visto il cesso e le docce vicino alla sala comune diviene però chiaro che perderemo i soldi della prenotazione. Fortunatamente la Lonely Planet, che perfidamente ci ha attirato qui, dice che i proprietari affittano anche appartamenti in città di genere lusso, forse riusciamo a fare un cambio. Compare la padrona assonnata, ci sono in effetti due appartamenti vuoti in città, i Desert Homes. Con grande sollievo lasciamo Succah in the Desert e torniamo a Mitzpe Ramon. In  seguito ho scoperto che succah in ebraico significa capanna, e che gli ebrei osservanti usano riunirsi a mangiare in specie di capanne con solo il tetto senza muri durante Succot (plurale di succah), la festa delle capanne che celebra il primo raccolto in Israele dopo la peregrinazione nel deserto.

Desert Homes è tutta un’altra cosa, dei deliziosi appartamenti in una bella casa al limitare del deserto, immersi in uno splendido giardino traboccante di fiori, ognuno con la sua terrazza rivolta verso il deserto. “This we like”, dico alla padrona ancora un po’ indispettita da come abbiamo disprezzato le succah, mentre Ettore mormora: “Si, ma l’abbiamo scampata bella”. Tra l’altro il prezzo non è neanche molto più alto, anche se non è compresa la cena nel serraglio. Qui sembra di essere a casa propria: cucina, grande bagno, televisione, stereo, lettore DVD, candele aromatiche, accappatoio di fibra naturale non tinta, perché la signora è tutta bio e ecologica.

Usciamo a vedere il tramonto dal Camel Point, una roccia a forma di cammello protesa ai margini del cratere. Il sole radente illumina ancora la metà del cratere opposta a noi, accendendo di colori i suoi strati geologici, mentre l’altra metà è già avvolta nell’ombra.

 

 

E’ venerdì sera, passando per le vie vediamo le persone che si dirigono a gruppi verso le sinagoghe, anche qui ci sono gli ortodossi con i pastrani e i cappelli di pelo. Mangiamo nell’unico bar ristorante aperto vicino al centro visitatori, che non è male, ben contenti di non essere al Succah.

 

 

 

 

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Alle nove del mattino si presenta la padrona, carica di vassoi per la colazione. E’ diventata simpatica, e anche noi a lei, in fondo con il cambio ci abbiamo guadagnato tutti. E’ un tripudio di pane fatto in casa, uova che ci facciamo strapazzate, frutta e insalate bio, formaggi, che ci gustiamo sulla terrazza davanti al deserto. Per colazione non riusciamo a mangiare neanche la metà di quello che ha portato, così le lasciamo un biglietto di lasciare tutto il resto in frigo. Qui si sta così bene che già ci pregustiamo la cena in casa a base di avanzi.

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Il museo al centro visitatori è molto interessante e ben fatto. Il cratere (makhtesh) è un fenomeno  geologico di erosione circolare, unico al mondo per le sue dimensioni. Cinque milioni di anni fa un monte costituito da sabbia e rocce friabili ricoperte da uno strato roccioso più duro ha cominciato a perdere per l’erosione dell’acqua di fiumi sotterranei la sua parte interna, approfondendosi sempre più, fino a che la copertura di rocce dure è collassata, causando la formazione del cratere, che è lungo 40 chilometri, largo da 2 a 10 e profondo 500 metri nella parte più bassa, Ein Sharonim, dove scorre l’unico corso d’acqua, che sostiene la vita di numerosi animali selvatici. Il nome Ramon sembra che venga niente meno che da romano, perché ai tempi della colonizzazione romana passavano attraverso di esso le carovane nabatee per i commerci con l’impero.

 

 

In macchina andiamo all’interno del cratere fino al Carpenter’s Shop (il negozio del falegname), una collinetta fatta da rocce prismatiche nere, l’unico posto al mondo in cui sabbia allo stato liquido si è repentinamente raffreddata cristallizzandosi in perfetti prismi rettangolari e esagonali somiglianti a ciocchi di legno pronti per essere utilizzati.  Proseguiamo per un trekking attorno a Ein Sharonim. Non vediamo la sorgente, che in questo periodo dell’anno dev’essere già prosciugata, ma la terra è umida e crescono piccoli arbusti. Il percorso è un giro circolare di un paio d’ore, attraverso un canyon di bianche pareti rocciose che disegna un paesaggio suggestivo, come se fossimo su un altro pianeta. Fortunatamente non fa troppo caldo perché la giornata è nuvolosa, la luce lattiginosa contribuisce all’atmosfera di irrealtà in cui siamo penetrati.

Nel fondo del cratere, dove siamo, sono esposte rocce vecchie di 200 milioni di anni: il nero del basalto formato dalla lava di antichi vulcani, le guglie rosse dolomitiche, le rocce stratificate di vari colori, la sabbia gialla, grigia e rosa.

Tornati in città andiamo in un posto consigliatoci dalla padrona, Chocolat, un piccolo bar specializzato in dolci al cioccolato, con arredamento e atmosfera assolutamente francesi, sbalorditivo in questa cittadina ancora un po’ desolata nel mezzo del Negev. I proprietari sono probabilmente ebrei del Nord Africa emigrati prima a Parigi e poi finiti qui. Lui è stato a Milano e ha imparato a fare il caffè alla stazione centrale. La mousse al cioccolato è fenomenale. Chocolat è uno specchio della vita dell’ebreo errante che finalmente, speriamo, ha trovato una patria, portandosi dietro le esperienze vissute nelle vite precedenti e adattandole alla nuova.

Torniamo nella nostra bellissima Desert Home. Un bel bagno, accensione di candele aromatiche, DVD con Jack Nicholson (Qualcosa è cambiato) alla televisione sdraiati sul letto. Poi andiamo a cena giù da Silvana e Ettore, dove ci mangiamo il pane, le uova, le insalate e i formaggi della colazione, innaffiate da un Merlot di produzione locale che faceva parte dell’arredamento (per qualche dollaro in più). Fuori ulula il vento del deserto, ci chiediamo se saremmo riusciti a chiudere anche solo un occhio nella succah con il tetto di foglie di palma.

 

La casetta di Ben Gurion (3 maggio)

 

Andando verso l’aeroporto ci fermiamo nel kibbutz di Sde Boker, dove c’è un’importante università, fondato nel 1952 nel Negev settentrionale da un gruppo di soldati in congedo. Nel 1953 Ben Gurion, il primo capo di stato di Israele, scelse di trasferirsi qui con la moglie Pola in una modestissima casetta in cui visse, con interruzioni dovute alla cariche politiche, fino alla sua morte nel 1973 a 87 anni. David Ben Gurion (nome ebraico scelto al posto di quello natale di David Grün), nacque nel 1886 in Polonia sotto il dominio della Russia zarista. Nel 1906 emigrò a Gerusalemme dove cominciò attivamente a lavorare per l’organizzazione del movimento sionista, come tutti i sionisti era quindi socialista e ateo. Nel 1912 cominciò a studiare legge in Turchia, per divenire in grado di difendere il diritto di Israele all’esistenza. Esiliato dall’autorità ottomana, nel 1915 andò a New York, dove conobbe e sposò Pola, ebrea russa proveniente da Minsk, anch’essa del movimento sionista. Nel 1918 si arruolò come volontario nei battaglioni ebraici dell’esercito inglese, nel 1930 fondò il Mapai, il partito socialista, esponente del quale fu anche Golda Meir, sua grandissima amica. Lavorò indefessamente per promuovere l’immigrazione illegale in Israele dopo che il governo britannico aveva vietato gli ingressi nel 1931, proprio quando le cose per gli ebrei cominciavano a mettersi di male in peggio, e parallelamente per organizzare l’Haganah, un gruppo paramilitare che combatteva a fianco degli inglesi contro gli ottomani alleati dei nazisti. Nel 1948 dichiarò la fondazione dello stato di Israele e formò il governo di cui divenne primo ministro. Smantellò organizzazioni paramilitari come Lechi che si erano macchiate di atti di violenza contro gli arabi, pur essendo ateo trovò un compromesso con gli ebrei ortodossi, introducendo una sorta di concordato. Nel 1968 Pola morì. Nel 1970 David ben Gurion si dimise definitivamente da ogni attività politica e si ritirò a Sde Boker, nel suo caro Negev che considerava essenziale per l’esistenza di Israele.

Dentro la casetta provo un misto di sentimenti: ammirazione per quest’uomo che come soli tesori possedeva i suoi libri; commozione per l’unico ornamento della sua stanza monacale, la fotografia di Gandhi; rabbia verso il lusso di cui si circondano altri uomini politici e sovrani vari; pena per il grande leone vecchio e solo vedendo la lista delle medicine da prendere scritta con mano malferma appesa al muro della cucina, prima fra tutte la digossina per lo stanco cuore coraggioso.

 

La strada verso Tel Aviv è dritta e senza traffico. Passiamo da Beer Sheva, sentinella del deserto, grande città di arenaria bianca con giardini. Dopo il paesaggio diviene più verde, si susseguono coltivazioni intensive. Sul cellulare mi arriva la news che Veronica chiede la separazione da Berlusconi perché lui frequenta le minorenni, ci guardiamo increduli, pensiamo a uno scherzo, ma sull’Herald Tribune comprato all’aeroporto la notizia viene confermata addirittura in seconda pagina.

Addio Ben Gurion, in tutti i sensi. Il viaggio di ritorno va molto meglio di quello di andata, l’aereo è diretto e in orario, in neanche tre ore e mezzo arriviamo a Malpensa.

 

 

Notizie pratiche

 

Volo

Abbiamo prenotato circa 2 mesi prima scegliendo l’aereo diretto e durante il giorno, che poi all’andata, essendo Alitalia, ha avuto grossi problemi. Costo: 485 euro.

 

Sicurezza

Nessun problema.

 

Alberghi

A Gerusalemme consiglio YMCA, che abbiamo visto solo dall’esterno. La doppia costa circa 90 euro a notte con I colazione. Si prenota su internet.

A Ein Gedi il Kibbutz Ein Gedi, costosetto (240 $ per la doppia comprensivo di colazione e cena) ma ne vale assolutamente la pena. Si prenota su internet.

A Masada siamo andati al Isaac Taylor Hostel (00972-8-6584349). Circa 90 euro a notte con I colazione.

A Mitzpe Ramon Desert Homes, 120 euro a notte (00972-52-3229496).

 

Auto

Noleggiare l’auto costa piuttosto poco, circa 40 euro al giorno. Sul sito della Hertz si può prenotare il noleggio da Gerusalemme, dove non conviene avere l’auto, con consegna all’aeroporto.

 

Cambio

Meglio cambiare subito all’aeroporto una piccola cifra, poi i cambi  migliori sono a Gerusalemme nella città vecchia o in banca.

 

Clima

In aprile si sta benissimo, penso che in estate faccia troppo caldo, soprattutto per il deserto.

 

 

Nicoletta

nicolettafranca.danuso@fastwebnet.it 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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