Repubblica del Kazakhstan la destinazione.

Racconto di viaggio 2006

di Lello Mascetti

 

Questa volta non si tratta di alcunché di esotico o avventuroso (per lo meno non per come intendo io i “miei” viaggi), adesso che ci penso non stiamo parlando neppure di vacanza bensí del tanto vituperato lavoro! Poco male, da sempre la professione mi concede grandi possibilitá in questo senso, e me le godo tutte!.

E’ la mia prima volta in questo paese e, come tutte le prime volte che si rispettino, una certa dose di agitazione (tipo quella che ti attanaglia alla vigilia di Natale o al primo appuntamento con una bella ragazza) é immancabile e produce uno stress positivo tutto sommato piacevole. Perché poi, mi chiedo? Dovrebbe essere tutto programmato nei minimi particolari, imprevisti calcolati e nessuna possibilitá di ‘’evasione’’ (questo poi é tutto da vedere...faró il punto della situazione tra qualche giorno...).

Il motivo sta tutto nel nome, Kazakhstan. Di primo acchito mi viene in mente una delle tante ex-repubbliche sovietiche nei pressi della steppa siberiana, con la sua instabilitá geo-politica, spazzata 4 mesi all’anno da venti gelidi e temperature polari che mi fanno immaginare i suoi abitanti come esquimesi. Ci vado vicino, ma solo in parte.

Il Kazakhstan é una giovane repubblica nata poco piú di 10 anni fa sulle ceneri dell’impero sovietico, governata oggi dai soliti equivoci personaggi-smanettoni che spadroneggiano e dove il clientelismo, il nepotismo e la corruzione (qui mi fermo) sono all’ordine del giorno. La sua capitale é Astana, neonata anch’essa, giovane cittá-fantasma eretta nel nord del paese sullo stile architettonico (piú che discutibile) di Brasilia, dove tutto é finto, costruito di recente e che non lascia tracce storiche (presenti in gran numero invece ad Almaty, la vecchia capitale che, si dice, sia un piccolo gioiellino).

Per estensione il Kazakhstan pare sia il nono paese al mondo; confina a sud con Turkmenistan, Kyrgyzstan e Uzbekistan, a sud-est con la Cina e a nord/ovest con la Russia; deve le sue risorse al sottosuolo, alla pesca e alla pastorizia e, dulcis in fundo, si avvia a diventare, assieme a mamma Russia, la piú grande potenza energetica mondiale, soppiantando nel giro di 10/15 anni i paesi mediorientali. La culla di questo futuro boom si chiama Mar Caspio, zona nord, precisamente, un immenso lago d’acqua dolce poco profondo dove anche il vicino Iran recupera gli storioni per la produzione del famoso caviale Beluga. Io stesso, sotto ricatto del parentado, mi sono visto recapitare per lo scorso Natale una richiesta di caviale Beluga, alla quale ho risposto con una confezione di Veruga! (spero tanto si sia trattato di un tarocco d’allevamento o magari di un preparato industriale, visto lo sfruttamento senza regole di quelle acque).

La temperatura varia dai +40 in estate ai -45 in inverno (dipende comunque dalle zone, viste le diverse latitudini), in questi giorni non dovrebbe fare particolarmente freddo (+2 - + 14), i fiumi ghiacciano e quando piove il fango cinge d’assedio qualunque cosa, sedili dei taxi compresi. La popolazione è giovane e l’etnia prevalente, su quella russa, è quella mongola/cinese; i tratti sono inequivocabilmente asiatici, il Kazakho come lingua ha una sua dignitá e deriva ovviamente dal russo. La religione dominante è un islam moderato, piú soft rispetto a quello che si puó trovare magari in Turchia e pertanto meno pervasivo ed evidente nella vita di tutti i giorni.

Il viaggio inizia all’aeroporto Schiphol di Amsterdam (da me soprannominato Schifol), dove ritiro il biglietto dell’Air Astana (ma chi la conosce!!!); check-in alle macchinette automatiche della KLM e via verso il gate, non prima di aver acquistato del cioccolato fondente 81% per i colleghi (pare che per i kazakhi il cioccolato acquistato negli aeroporti rappresenti uno status symbol…mah!). Imbarco puntuale, mi sorprende in positivo lo spazio tra il tuo sedile e quello davanti nonché la mancanza del passeggero di mezzo tra il sedile di corridoio e quello di finestrino.

Stranamente l’aereo parte puntuale, il taxing da Schiphol è sempre fastidioso in quanto lunghissimo (13 minuti buoni) ma sono giá in preda al primo abbiocco della giornata. L’aeroporto di destinazione è Atyrau, situato sull’estrema propaggine nord del Caspio, dove arriveremo dopo 4 ore e mezza di volo e dove ci attenderá un fuso orario di 3 ore in piú rispetto all’Italia. L’aereo non è poi cosí pieno ma si respira un’aria strana, simile a quella che ho provato ai tempi (9 anni fa) del viaggio a Cuba…mi guardo attorno e vedo solo uomini, di tutte le etá, in prevalenza americani con i berretti da baseball, la camicia a quadri da boscaiolo e l’inconfondibile pancia sproporzionata.

Se non si trattasse di lavoratori, penserei subito ad uno di quei charter da “turismo sessuale”; le condizioni di vita in vaste zone kazakhe sono simili a quelle cubane, la povertá talvolta degenera in una prostituzione dilagante e diventa difficile non venire abbordati dalle ragazze locali.

Il pranzo non è niente male (a parte il dolcetto alla cannella e canditi), mi addormento con un pezzo di pollo ancora in bocca, sorridendo allo yankee di fianco che pasteggia allegramente con un doppio Johnnie Walker…

 

ATYRAU

I balzelli dell’aereo sulla pista mi svegliano dal torpore in cui sono caduto; ormai è sera, sono le 20.09, atterriamo con solo 9 minuti di ritardo, quando tutto intorno è buio. L’aeroporto di Atyrau non è altro che una baracca in lontananza. Sulla scaletta ci attendono alcuni militari in divisa dal buffo berretto, un po’ troppo largo in punta per non suscitare almeno un sorrisone.

Passeggeri normali da una parte, dipendenti della mia azienda dall’altra, veniamo smistati da un tizio che ci conduce ad una mini-baracca che funge da dogana e controllo passaporti. I privilegi per chi opera da queste parti nel campo petrolifero iniziano con questa procedura semplificata ma comunque estenuante per la trafila burocratica cui siamo sottoposti: ad uno ad uno ci presentiamo davanti allo sportello dell’ufficiale che controlla il passaporto, il visto, la landing card compilata in aereo, ci scatta una foto digitale ed infine ci indirizza ad un suo collega che ci porta in un’altra stanza dove il mio sgomento non puó che aumentare.

I bagagli sono infatti in mezzo al piazzale ancora impilati sul carrellino e ci tocca quindi andarceli a cercare, con il picio-pacio (acquitrinio fangoso) per terra, indi torniamo nella casupola giusto in tempo per compilare un form dove dichiarare qualunque oggetto elettronico (macchine fotografiche, iPod, etc) e passare infine ai raggi X i bagagli. Finalmente ci liberano e ci attende un’auto per l’albergo.

Non ci sono mezzi pubblici se non taxi, la cosa che colpisce di piú è la quantitá incredibile di fango sulle strade e sui marciapiedi non asfaltati (se cosí si possono chiamare per via della polvere che si deposita sulle strade non asfaltate

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BOLASHAK

Sabato mattina una jeep ci porta ad un sito a 40 km a nord di Atyrau, rinominato di recente Bolashak, il “futuro”, tanto per sottolineare una volta ancora l’importanza prospettica dell’oro nero per questa economia ancora in via di sviluppo ma dalle potenzialitá rilevanti. La strada appena fuori la cittá di Atyrau è quanto di peggio abbia mai visto in vita mia, al cui confronto certi postacci in Nicaragua o in Honduras sembrano autostrade americane, per via essenzialmente della mancanza quasi assoluta di segnaletica affidabile e della presenza constante di buche e sconnessioni gigantesche, che non consentono alla lunga fila di macchine di proseguire se non a passo d’uomo; non c’è bisogno di dire che l’asfalto per ora è solo una chimera.

Le cose migliorano leggermente con il procedere verso il sito (che, ahimé, non ha nulla di archeologico), ma solo perché gli enormi interessi in gioco hanno fatto si che alcune infrastrutture siano state costruite secondi crismi funzionali ed in tempi ridottissimi.

Si intravvede il parallelismo perfetto dei binari che corrono in una steppa desolata dove all’orizzonte la terra brulla bacia un cielo blu intenso dove alcuni cirrocumuli lo riempiono, monotono ma stupendo. Ad un certo punto la ferrovia si biforca verso destra, è il segnale che ci stiamo avvicinando alla meta, le autovetture e gli autocarri convergono in fila indiana verso il posto di blocco, il resto è solo un mostro di cemento e metallo brulicante di migliaia di formichine umane, che cresce lento ma inesorabile in mezzo al nulla.

Il ritorno ad Atyrau non ha niente di diverso dall’andata, il fango e le buche sono sempre le stesse, cosí come il cielo e la steppa che fanno assomigliare questo sperduto lembo di terra alle lande desolate ma stupende del mid-west americano.

Dopo cena, rigorosamente in albergo, ci prepariamo per la serata in discoteca, i colleghi vogliono portarci al Mayak. Un capitolo a parte meriterebbero le ragazze kazakhe ma soprassiedo, grazie al cielo con noi ci saranno anche un paio di colleghe italiane, eventuali assalti o tentazioni sono scongiurati.

Gli spostamenti in cittá avvengono giocoforza con il taxi ed in gruppo, pena correre il concreto rischio di essere aggrediti, anche in pieno giorno, da bande di valorosi ragazzotti evidentemente dediti alla lotta e alla violenza; il loro intento non è assolutamente quello di derubare, non è mai successo, bensí quello di pestare a sangue, giusto per il gusto della violenza fine se stessa o, se proprio vogliamo ricercare una qualche giustificazione razionale, per avversione e rivalsa sullo straniero benestante che viene visto come il colonizzatore, punendolo per essersi avventurato in giro per la cittá da solo, in spregio alla popolazione locale, che comunque prova acredine per la disparitá sociale cui è sottoposto. Un discorso che si potrebbe allungare all’infinito.

Il Mayak viene immediatamente soprannominato Mayalak, mi rifiuto di spiegare il perché anche se è facilmente immaginabile. L’ingresso costa 2000 tenghi (senza consumazione), l’equivalente di 13 euro, una cifra non irrilevante per i locali, il cui stipendio medio si aggira sui 450 dollari.

Il Mayak si trova al primo piano di un edificio proprio sopra ad un pub frequentato, guarda un po’, dai soliti inglesi (che non ritroveremo poi in discoteca). Fortuna (e sfortuna) vuole che ad animare la serata ci sia uno spogliarello femminile ed uno maschile, mentre la musica suonata mi è sconosciuta, a metá tra la nostra house piú o meno ballabile e una ritmatissima techno olandese.

Mi rendo conto che le bpm iniziano ad essere troppe per il mio fisico provato, divento quatto quatto parte della tappezzeria e, da buon scrutatore curioso quale sono, mi diverto a veder sfilare il fior fiore della gioventú locale (niente male, tutto sommato, quella femminile) e ad analizzare le dinamiche in atto tra colleghi e tra italiani e kazakhe, giusto per passare il tempo. Le etnie si mescolano senza imbarazzi, ragazze dai tratti chiaramente russi con kazakhi dagli occhi quasi a mandorla e altro ancora, percepisco peró nell’aria una certa strana tensione che non mi piace, soprattutto perché in futuro non puó che esplodere… ma solo l’indomani capiró il perché. Dai colleghi veniamo infatti a sapere che in una raffineria a Tengiz, 300k a nord di Atyrau, la crescente insofferenza verso lo straniero (che a paritá di qualifica guadagna piú del kazakho) si è manifestata in tutta la sua virulenza e una rissa tra turchi e kazakhi ha provocato un numero imprecisato di morti, ma le fonti ufficiali sono contraddittorie e tendono sempre a ridimensionare quanto accade in questo paese (l’ereditá sovietica è ancora forte, nonostante siano trascorsi più di 10 anni dalla fondazione della Repubblica).

Scopro sulla mia pelle che nelle discoteche kazakhe non è possibile bersi una birra in pista (e per gli altri, neanche fumare), troppi sono infatti i rischi che le bottiglie vengano usate come armi improprie, difatti vengo preso per un braccio ed allontanato da un tizio neanche troppo energumeno che, senza tanti complimenti, mi fa intendere che devo rimanere ai bordi della pista.

I prezzi delle consumazioni sono abbastanza incomprensibili (a parte il cirillico), ci sono due colonne di prezzi e non si capisce come vanno applicate, sta di fatto che consegniamo alla barista una certa cifra spannometrica per la quale ci attendiamo anche un corposo resto, ma di ritorno non riceviamo neanche un mezzo sorriso da questa ragazza che evidentemente ignora tutto ció che la circonda.

Il ritorno a casa avviene come al solito via taxi, rigorosamente ufficiale, la leggenda narra che alcune persone siano state addirittura dirottate in luoghi isolati e rapinate, ma questo avviene un po’ in tutte le parti del mondo quando si accettano passaggi da sconosciuti…

 

BAUTINO

E’ domenica, desidero con tutte le mie forze un lungo riposo in questo letto splendido, ma il dovere chiama, oggi si vola di nuovo. La solita jeep ci accompagna in aeroporto, dove ci imbarchiamo per ora di pranzo alla volta di Aktau, il secondo luogo piú radioattivo del Kazakhstan, dove in tempi non troppo lontani i simpatici sovietici scambiavano questa terra (ok, desolata) per il bersaglio dei loro esperimenti nucleari, insieme con il lago d’Aral. In effetti il paesaggio è ancora piú desolato e desolante di Atyrau, da queste parti pare proprio che la civiltá sia passata, abbia dato un’occhiata frugale e abbia tirato dritto.

Durante il volo noto con una punta d’emozione (e un malcelato disappunto, dettato più dalla mia anima ambientalista che dalla scocciatura del dover sporgermi fin quasi ad abbracciare il mio vicino di poltrona, un sonnecchiante ragazzone kazakho) una costruzione cementificata in mezzo al Caspio, la traccia inequivocabile della presenza dell’uomo e della sua sete di oro nero, cioè un’isola artificiale a forma inequivocabilmente vulvica (ma questa volta non si tratta di una delle solite deviazioni del mio cervello, e di ció mi compiaccio!).

Lo ammetto, la mania italiota dei telefonini non ha eguali nel mondo civilizzato, ma da queste parti l’inseparabile compagno trillante è davvero considerato uno status-symbol, al punto che pare sia usanza esibirlo ed accenderlo, insieme agli inevitabili bip-bip e suonerie varie, durante la fase d’atterraggio prima ancora di toccare terra; una sinfonia che mi riempie di una tensione inusuale, chissá come staranno impazzendo le strumentazioni di bordo!

Solita trafila per i bagagli, tutti fuori dall’aeroporto e al segnale convenuto, tutti dentro ancora a recuperare la valigia, stavolta senza l’omino che controlla la corrispondenza tra valigia e contrassegno sul biglietto; facciamo comunella (cioè, la mia collega veramente…) con un professore armeno di ritorno dall’universitá di Almaty, il quale porta un vistoso cerotto sulla guancia, souvenir dei soliti noti, cioè le bande codarde e vili di ragazzi locali che sbucano dai cespugli, ti “corcano” e ti lasciano a terra sanguinante (questa volta peró a lui hanno rubato portafoglio e cellulare…).

Dato il numero alto di persone da portare a destinazione, stavolta ci mettono a disposizione la solita jeep piú un pullmino da 15 posti, che occupiamo in 5, ansiosi di ristabilire il clima da “gita delle medie” con tanto di cioccolatini, macchine fotografiche e sguardi curiosi fuori dal finestrino (penso che a questo punto manchi solamente la classica zingarata con l’esibizione delle chiappe sul retro…ma il livello gerarchico della gente che mi circonda e la presenza di un rappresentante del gentil sesso spazza via ogni pensiero goliardico). Scatto qualche foto al nulla che ci circonda, la rotta ci porta verso nord, destinazione Bautino, un altro paesello fantasma animato unicamente da una base logistica che andremo a visitare. In questa occasione mi sembra proprio di essere in vacanza, in una della mie vacanze, zaino in spalla e autobus scassati in zone dove l’unico essere animato che si incontra è il guidatore di un qualsiasi autocarro sceso a sgranchirsi le gambe e ad espletare le sue funzioni, sicuro che nessun rombo di motore lo avrebbe mai disturbato! Invece no, turbiamo la sua quiete e, nonostante sia praticamente circondato, lo imito in uno dei gesti piú naturali e gratificanti, la pisciatina all’aria aperta con vista sul panorama circostante.

Un tuffo al cuore sta per causare il mio decesso anticipato, capisco che cosí non si puó andare avanti e che una sana alimentazione, unita all’attivitá fisica, è quantomai necessaria! Dopo lo spavento mi assale una tristezza esagerata nel ricordare una persona che non fa piú parte della mia vita…una donna? no; un parente? no; la causa del mio malessere è un cartello stradale che ci annuncia l’entrata nel paesello…il nome del paesello è Fort Schevchenko. Non ci posso credere, non faccio in tempo a fotografarlo, la rabbia del tradimento è sempre tanta, forse superiore a quella che ti fa provare una donna…

Superato a fatica lo sgomento mi butto a fotografare quanto di interessante viene offerto allo spettatore interessato in transito: i cimiteri. Nel breve tratto di strada che attraversa il paese ne conto almeno 3, molto simili tra loro, curati almeno esternamente, quasi monumentali nella loro architettura che contrasta molto con il nulla che li circonda.

Chi sono, cosa vogliono questi qua? Giá mi vedo, assaliti e rapinati da una banda di tamarri del luogo. La scampiamo per poco, la banda di ragazzotti che ci sbarra la strada non riesce ad evitare che la jeep che ci precede li scarti sulla destra e che il pullmino, dopo qualche incertezza che ci fa temere il peggio, la segua in una mini-fuga a scartamento ridotto ma non per questo piacevole, anzi. Stum! Un sasso colpisce il retro del pullimino, ci giriamo e i ragazzi sono lí che ci urlano qualcosa; non sapró mai quali fossero le loro intenzioni, se cercavano solo un passaggio per il paese successivo o se tentassero l’assalto alla diligenza, sta di fatto che in 3 si distendono sulla carreggiata quale estremo tentativo di impedire la circolazione dei veicoli (pochissimi, per la veritá), mentre gli altri 4/5 scrutano l’orizzonte per avvistare la prossima preda.

Giungiamo a Bautino, un minuscolo agglomerato di casupole bianche e basse, a metá tra le dimore maldiviane e quelle greche, non c’è invece traccia di attivitá commerciali, solo case. In fondo alla strada si staglia l’entrata recintata della base, che si affaccia direttamente sul porto. Da quest’area partono le innumerevoli navi che, come pendolari del mare, portano e riprendono i lavoratori dell’isola artificiale, scaricano materiali e mezzi senza interruzione, in qualunque condizioni climatica, anche d’inverno quanto vengono rimpiazzate da piú moderne ed attrezzate rompighiaccio. La telecamera virtuale ora si spegne, senza aver prima ripreso uno dei colleghi venir cazziato dal kazakho di guardia che gli vuole impedire di fare le foto sotto il cartello della base. “Che minchia vuole questo, non sa che lo licenzio domattina”, sembra gesticolare il collega siciliano dall’aria a metá tra il divertito e lo scocciato.

La giornata volge al termine, passiamo in guardiola a riconsegnare il badge assieme agli operai kazakhi che timbrano il cartellino e il pullmino ci porta ben 100 metri oltre la base, in un albergo che di spettacolare ha i prezzi degli alcoolici e la vista mozzafiato sul mare (che poi è un lago, il Caspio…). Corro fremente in camera sperando che la buona sorte mi abbia fatto assegnare un appartamentino vista mare, cosí in effetti è, non si vede nulla perché è tardi e mancano i lampioni dei nostri lungomare ma si percepisce l’aria salmastra e si sente chiaramente l’infrangersi delle onde sulla battigia. Che poesia…

Scendo per cena giusto in tempo per diventare testimone (e spalla) di una delle scene piú divertenti, l’ennesima parodia della stupiditá (o genialitá?) italiana. Sono a tavola con un collega di lungo corso, il solito collega che ha un sacco di storie interessanti sulle sue esperienze nei posti piú disagiati della terra, quello che ne ha viste e passate di tutti i colori e che quindi è sempre il piú spontaneo del gruppo; di fianco a noi sta cenando in solitudine una ragazza locale, né bella né brutta (anzi no, proprio brutta adesso che ci penso bene!), la cameriera viene al tavolo e si rivolge al mio collega chiedendo cosa voglia da bere. Paolo (chiamiamolo cosí, diamo a questo mito un nome di fantasia) sfoggia il suo russo impeccabile ed ordina una birra locale e una pizza, cosa che replico io ma in inglese; peró Paolo, come parli bene il russo, dove l’hai imparato? chiedo io. “Trombando”, reagisce lui, tirandosi su dal tavolo con lo sguardo allupato e incattivito, quasi simulando un amplesso con il tavolo, che tiene fermamente ai lati con le due mani. “e sai qual è stata la prima parola che ho imparato?” fa lui – no, non lo so Paolo, replico io - peró non dirla in russo che questa qui di fianco poi capisce, dimmela in italiano! – Una voce fuori campo aggiunge “Si dai, dilla pure in italiano, io lo capisco bene!” E’ la kazakha del tavolo di fianco che guarda Paolo quasi schifata ma comunque leggermente divertita. Cala il silenzio, io mi nascondo dietro al menú, Paolo tace (finalmente) per 10 secondi, dopodiché (io sono sempre nascosto) rincara la dose “eh ma lo sa signorina che funziona proprio cosí?”. Volevo morire, mi vergognavo da morire. Non so che faccia abbia fatto la collega (laggiú ci sono solo colleghi!), mi sono imparato il menu del ristorante a memoria, aspettando che questo tsunami si ritirasse. Ma Paolo non è uomo che si lasci sfuggire le occasioni e cosí la supercazzola continua. “Senta signorina (in italiano), siccome dovrebbero raggiungerci tra qualche minuto un paio di colleghi, le spiace se si siedono al tavolo con lei?” la kazakha accondiscende stupita, non sa cosa rispondere. La birra mi va di traverso, inizio a tossire. Il vulcano-Paolo è inarrestabile: “Anzi, signorina, perché non unisce il suo tavolo al nostro?” – e mentre pronuncia questa frase senza senso, il buon Paolo inizia a tirare verso di sé il tavolo della spaventatissima e sempre piú incredula collega kazakha. Tempo 20 secondi che la collega, trangugiando una mole incredibile di cibo giusto per non dare adito a dubbi al povero Paolo, si alza e si allontana, al che Paolo scoppia in una fragorosa risata che la fa voltare ed esclamare qualcosa nella sua lingua; dal tono sembra una bestemmia ma la sua faccia giá diceva tutto…

In fase di atterraggio su Atyrau entra ancora in azione Paolo, quello che conosce il russo. Questa volta la vittima sacrificale è un bambinello kazakho dai tratti molto simili a quelli degli eschimesi, tanto bello quanto noioso e molesto per via delle sue grida ininterrotte. Proprio mentre l’aereo tocca terra e il bambino urla, Paolo caccia un urlo animalesco, un buhh! talmente strano e forte che il primo a spaventarsi sono io, seduto al suo fianco, il secondo è il bambino e poi a ruota tutto l’aereo che si gira verso di noi, alla ricerca di quello strano animale (mi viene in mente una canzone di Vasco…). Il bambino ovviamente si zittisce, il padre sta decidendo quale arma utilizzare per far fuori Paolo, io non smetto piú di ridere (il bambino non ride e forse non riderá piú, secondo me Paolo l’ha traumatizzato).

Come al solito, appena atterrati ci attende il bus particular che ci porterá agli arrivi, scoppio di nuovo a ridere quando il bus percorre si e no 20 metri, ma subito comprendo il motivo di questo servizio e mi vergogno un po’…

Butto l’occhio dentro la sala d’aspetto, in tv danno un film americano in lingua originale, non ci sono sottotitoli in kazako, mi domando come possono capire i dialoghi…La spiegazione è semplice, non c’è doppiaggio, c’è solo una flebile voce fuoricampo che narra in kazakho gli avvenimenti, un racconto surreale senza pathos, senza tono. Anche questa è arte d’arrangiarsi.

Sono trascorse ormai parecchie settimane e del Kazakhstan non provo proprio alcuna nostalgia, ma una collega burlona mi ha portato proprio stasera a vedere “Borat” al cinema, una velata (ma non troppo) e divertentissima parodia della societá americana vista con gli occhi di un kazakho (Borat appunto), tanto ingenuo quanto cosí poco kazakho. Mi torna il sorriso, finalmente.

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