Potosì, Bolivia, 1 aprile 2006  

Racconto di viaggio

di Donatella

 

… come lo racconto? … questa è la domanda che da 24 ore mi frulla nella testa, mentre una serie di immagini passano di fronte ai miei occhi, quasi come una vecchia pellicola … come lo racconto? … è la domanda che mi faccio, e nelle orecchie sento il rumore stridente dei carrelli che corrono sulle rotaie … come lo racconto? … ancora la stessa domanda, con il naso secco e infastidito dalle croste scure che si sono formate all’interno, le narici piene dell’odore di monossido di carbonio, polvere di silicio, gas sulfureo … come lo racconto? Ricompare il punto interrogativo, e intanto osservo le mie unghie, dalle quali il fango non vuole andare via, nonostante i lavaggi. Quel fango in cui ci siamo trovati a camminare fin dall’ingresso nella galleria, fin dal primo lungo tunnel dove, guardando indietro, la luce dell’entrata diventava sempre più piccola e meno luminosa. Siamo all’interno del Cerro Rico, il Sumaj Orcko, montagna che nel suo punto più elevato raggiunge i 4824 metri e che tanta ricchezza ha dato a Potosì nel XVI secolo, rendendola la città più ricca della Bolivia e di tutto il Sud America. Per tre secoli, l’argento estratto dal Cerro Rico, ha garantito opulenza e prestigio alle monarchie europee. Sulla montagna, dentro la montagna, intorno alla montagna … cumuli di argento, zinco, stagno e piombo, il lavoro di otto milioni di schiavi indigeni e africani … otto milioni di morti. Ma non è questo che mi viene in mente quando penso alle due ore trascorse nella Mina Candelaria … come lo racconto, come trovare le parole per esprimere quanto ho provato trovandomi di fronte un ragazzino di 18 anni che, con la sua carriola piena di detriti, corre verso l’ingresso, per poter scaricare. Lavora nella miniera da tre anni e pare un pò imbarazzato quando, abbassando la testa, sorride e dice che “quasi” non frequenta più i corsi notturni. E come dargli torto? Chi avrebbe voglia di andare a scuola dopo una giornata trascorsa andando avanti e indietro, su e giù per un tunnel, sempre lo stesso percorso, tutti i giorni, tutto il giorno, per arrivare a guadagnare 30/35 bolivianos al giorno … significa che, lavorando cinque giorni alla settimana, può arrivare a 70 euro mensili … di nuovo la domanda, come lo racconto? Mi mancano gli aggettivi per trasmettere le sensazioni che nascono quando raggiungiamo, strisciando a quattro zampe, un minatore, che lavora solo in un buco pieno di buchi, il buco più ampio è per lui, quelli più piccoli per i candelotti di dinamite, che possono essere acquistati liberamente al mercado minero per 2 bolivianos (equivalenti a 21 centesimi di euro). Nella testa posso ancora sentire il rumore della mazzetta che batte ritmicamente sul punteruolo, per preparare la sede che ospiterà la dinamite. Impiegherà circa tre ore per fare un buco della profondità di 18 pollici (circa 46 centimetri). Parla con noi, è allegro, ma come si può essere di buon umore in una situazione del genere? È lì dentro da ore, ha iniziato a lavorare in miniera a 19 anni, dopo la morte dei genitori … e questo è successo 34 anni fa … 34+9=53, ha 53 anni, ne dimostra di più, ma può considerarsi un fortunato, visto che fra i minatori di Cerro Rico l’aspettativa di vita si aggira intorno ai 45/50 anni. Lui lo sa, finge di non conoscere il problema che ha ai polmoni, continua a lavorare come sempre ha fatto, per la “gringa potosina” con cui si è sposato tanti anni fa, per gli otto figli che “non hanno voglia di lavorare” … e perchè, se non lavora, come sopravvive? Ma come sopravvive, le cifre sono impressionanti: un minatore che lavora in proprio può arrivare a guadagnare, vendendo i minerali che estrae, circa 300/400 bolivianos settimanali, cioè 150 euro al mese. Eccola di nuovo, come lo racconto? Come spiegare che mi sento una intrusa dentro questi cuniculi, così bassi, freddi e scuri, io, con gli stivaloni di gomma, la giacca e i pantaloni, il casco con la lampada … come racconto la voglia di portarmi via un pezzettino di quegli occhi, di quelle mani nere e piene di polvere, di quelle braccia che spingono i carrelli … come descrivo quelle guance gonfie di foglie di coca, spesso unico sostento per i minatori in tutta la giornata … e quelle luci delle lampade, che ogni tanto compaiono nelle gallerie laterali, accompagnate da visi scuri, sudati e da sguardi che ci seguono, sperando che anche per loro ci sia una bustina di foglie di coca, una bottiglia di gaseosa o magari una bottiglietta di trago. Come esprimere il miscuglio di pensieri, il desiderio di diventare trasparente per poter stare insieme ai minatori, guardarli senza essere vista, ascoltarli senza che loro lo sappiano, seguire i rituali del venerdì sera, che segnano la fine della settimana di lavoro … omaggiano il Tio, o Supay, figura della mitologia indigena andina, la divinità che domina sulla miniera e su tutto il mondo sotterraneo. Il Tio protegge i minatori, il Tio spaventa, il Tio attende il venerdì sera così come loro lo aspettano. È uno di loro e alla fine dell’ultimo turno i minatori si riuniscono intorno alla sua statua fatta di argilla, iniziano la challa, il rituale propiziatorio durante il quale al Tio viene offerto alcool, sigarette di puro tabacco, foglie di coca, a volte un feto di lama … grazie Tio, siamo ancora qui, siamo ancora vivi, gracias Tio. Ma come riuscirò mai a trovare i termini adeguati per raccontare che questi uomini trascorrono il venerdì sera bevendo tragos di alcool puro, sulle cui bottigliette di plastica comprare l’invitante scritta “buen gusto a 96 grados” … fino a stordirsi, fino a perdere la coscienza … fino a dimenticare che lunedì mattina comincerà una nuova settimana di lavoro. Nuovamente la domanda, come lo racconto? Come mi descrivo, arrampicata su un tavolone di legno, che mi sporgo fino a infilare la testa dentro un buco … parlo con un minatore che, indicando un altro buco più in alto, dice di non essere solo, lui lavora con un compagno. L’altro non si vede, ma è lì dentro, lo dimostra il rumore della mazzetta che batte … “è buono lavorare in due, ci facciamo compagnia” e sorride. Come lo dico? Non avevo voglia di lasciare le gallerie, nonostante il caldo, nonostante la polvere, i gas, nonostante la voglia di scappare da quel posto così stretto, scuro e poco ospitale. Come spiego la voglia di rimanere dentro quel labirinto mista al desiderio di uscire per poter respirare aria pura … come racconto quell’ultima galleria dove si inizia a sentire di nuovo freddo e compare un chiarore flebile ma che quasi fa male agli occhi … ancora qualche metro e saremo fuori, fuori da questo mondo di ragazzini che vivono come adulti, di uomini che non sanno quanti mesi ancora durerà … ho voglia di correre, ma non so se verso l’interno o verso l’uscita … non sarò mai capace di trovare verbi, avverbi, aggettivi che rendano, anche solo in parte, quanto ho provato in quelle due ore … scusatemi, ma credo che non racconterò niente, grazie Tio.

Donatella

trullalli@yahoo.it

 

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