T  U  R  I  S  T  A    V A G A B O N D O

 

ESPERIENZA DIRETTA DI VAGABONDAGGIO

 

ROMA  1968

 

 

 

NUCCIO GUARNERA                                    MARZO 2009

 

 

 

 

 

 

 

PREFAZIONE

 

 

IL SENSO DEL VIAGGIO

 

 

Caro Nuccio

 

non so quante persone percepiscano realmente e fino in fondo il meraviglioso “Mistero” del Viaggio.


Mi permetto di definire il Viaggio un “Mistero” e di accostarlo per quanto si possa, all'Amore.

Perchè il viaggio nasce e cresce in noi, ha bisogno di essere manifestato, vissuto appieno, condiviso ed è per questo che , dopo aver letto in queste sere il tuo “ Turista vagabondo 1968” mi viene da dirti semplicemente : è bellissimo!

Grazie!

 

Non è stato “strano” leggere questo tuo modo di vagabondare, affatto !

Il saperti girovagare per le strade e sotto i ponti, assetato di Vita, alla continua ricerca di Te attraverso gli altri, il nuovo, il sofferente, il diverso, mi ha fatto sorridere e conoscerti un pochino di piu.

L'aspetto che più mi è piaciuto è stata la tua voglia di andare oltre l'ipocrisia , la conoscenza, i continui incoscienti limiti che spesso la società ci appiccica addosso !

 

Questo scritto inizia con un tuo gesto di grande coraggio...e si conclude con un altro grande gesto ... d'Amore.

Dal giorno della tua partenza via Messina fino al momento del rientro a Catania, c'è solo il gusto della Tua Libertà, il gusto di Te !

Questa esperienza breve e sicuramente intensa ti ha aperto non solo gli occhi ma sopratutto la mente e il cuore !


E una volta tornato a casa, carico di fermento , di desiderio , vivo, di tutti quei cambiamenti interiori che il Tuo Cuore Forte ha vissuto, il nuovo Nuccio è andato a sbattere ..in un altro Meraviglioso misterioso Viaggio.

Quello con la Tua Pina che poi è diventata anche la nostra Marghe....

 

Alla fine della lettura sai che senza saperlo , mi son ri-posta la solita domanda...

ma noi Perché viaggiamo?

 

Ci sono mille motivi, mille ispirazioni e tante risposte sempre sospese...

A me la prima che viene in mente è per Passione.

Tutto qui!

Una passione che mi vive dentro e da sempre mi travolge, mi fortifica, mi completa.

 

Ogni volta che parto godo nel confondermi con i sapori dei posti nuovi, con il colore della pelle diversa dalla mia, mischiarmi e unirmi alla gente nell'estasi della Natura...

 

Il viaggio mi fa accettare in primis I miei errori, corregge i limiti, mi fa ricordare le responsabilità, le tante fortune , mi arricchisce e nel contempo mi alleggerisce,facendomi dono dell'Accettazione di me stessa e degli Altri.Mi regala Legami e Amicizie forti.

Come dice un caro Amico, il Viaggio è come dipingere un quadro in cui ritroviamo tutto.

Abbiamo i colori, i pennelli, la tela, magnifici scenari, le intensità delle emozioni, le sfumature dei sentimenti , le sensazioni positive o negative che siano.... ma non dimentichiamoci mai che a dover dipingere il nostro Paradiso...siamo sempre e solo Noi!

 

Credo che ogni VIAGGIO contenga sempre la ricerca dei sogni che vogliamo realizzare !

Non prendermi per matta quando dico che voglio continuare, fermamente, a credere che ogni Viaggio è una forma d'Amore esplosa in tutte le sue direzioni.

Per questo ... in ogni terra, in ogni stagione, a ogni distanza continuerò a ricercare nel Viaggio tutto ciò che mi incoraggia nella Vita!!

 

Vi salutiamo con infinito sincero Affetto, congiungendo le mie mani pensandoTi !

NAMASTE!!

Un bacione alla Marghe!!

 

Vi vogliamo Bene,

i vostri Saby e Ivo - “ un pochino vagabondi”

Inzago 10/04/2009

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE

 

 

Anni gloriosi………….quegli anni sessanta.

 

Scoppiavo di vitalità e di sogni.

Non riuscivo a non immaginarmi senza lo zaino sulle spalle mentre vagabondavo per il mondo.

 

Non vorrei ritornare indietro per rivivere quegli anni…..anche perché è impossibile.

Vorrei solamente continuare ad “esistere” con lo stesso Spirito di allora.

 

L’opuscolo narra di una mia avventura di vagabondaggio tra i barboni e i beatnik nella Roma dell’estate del 1968.

 

Ho ripreso un mio vecchio libro, “Turista vagabondo”, scritto nel giugno del 1981 dove trattavo già di quest’avventura. L’ho rielaborato, ovviamente ampliando gli stessi argomenti di allora alla luce delle mie nuove esperienze, seguendo passo passo gli eventi e le sensazioni raccontate sul libro stesso.

Le varie poesie, evidenziate in nero, in parte sono rimaste integrali così come le avevo scritte nell’81, altre invece, mi sono esplose dentro durante la rivisitazione del libro.

 

Lo propongo con gioia e con la consapevolezza di condividere con le persone che lo leggeranno l’Amore per la vita e per la Libertà.

 

 

Nuccio guarnera                                   29 marzo 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

T U R I S T A   V A G A B O N D O

 

 

 

Appunti su una esperienza di vagabondaggio vissuta nella Roma del ‘68.

 

Nel ricordo di tutti i miei anni trascorsi  sulle strade di mezzo mondo una esperienza, forse la più intensa e la meno razionale che abbia vissuto da quel luglio agosto del ’68 ad oggi, non si è mai persa tra i passaggi veloci del tempo. Dopo tanti anni, ancora oggi, la ricordo con grande emozione e nessuna immagine mi si è cancellata dalla mente e tanto meno dal cuore.

Quell’avventura è ancora presente dentro di me. Mi ha segnato profondamente.

 

Ricordo che avevo appena finito di dare gli esami di riparazione per una classe del superiore nel fantastico collegio di Santa Agata di Militello, ed avevo tanta voglia in corpo di viaggiare che avrei spezzato qualunque catena in quel momento mi avesse trattenuto.

Dipendeva tutto da me.

I miei genitori, e tutti i legami paesani erano lontani. Potevo finalmente decidere da solo se imboccare la strada della libertà o rimanere avvinghiato alle sicurezze di un piccolo comune del profondo sud.

Anche se ero fisicamente lontano dal paese, le sue catene sociali esercitavano una grande pressione sul mio desiderio di libertà. Era impensabile in quegli anni, specialmente in Sicilia, esprimere liberamente i propri sogni.

Quella volta fu una grande vittoria.

Un vero distacco.

Quel giorno un profondo desiderio represso stava prendendo consistenza iniziando a camminare da solo verso la libertà.

Salii sul primo treno che correva verso Messina dilapidando quei pochi spiccioli che ancora avevo in tasca. Allora preferivo dormire da amici e mangiare pochissimo pur di non spendere le diecimila lire che mio padre mi aveva dato. In futuro sicuramente mi sarebbero serviti.

Mi consideravo fortunato. Stavo volando verso il mio sogno.

Il vento rinfrescante di luglio mentre mi sporgevo dal finestrino, sul treno in corsa, mi proiettava nel meraviglioso mondo di Kerouac. Le estenuanti corse sulle strade americane  diventavano lunghi spostamenti dentro sé stessi, dove la meta si allontanava continuamente. Volevo andare via, arrivare, conquistare subito il traguardo e poi……… ringraziarmi, ammirarmi per quello che avevo fatto.

Non riuscivo a pensare ad altro.  

La spinta interiore che mi scuoteva il corpo e la mente era incontenibile. Dovevo per forza andare a Roma, vivere tra i beatnik sotto i ponti lungo il Tevere e bivaccare sulla scalinata di Piazza di Spagna.

 

Già nel 1965 avevo avuto i primi rapporti con questi personaggi.

Mi trovavo a piazza Duomo a Catania dentro un bar e proprio accanto a me vi erano due individui coloratissimi ed estrosissimi. Li guardavo ammirato e incuriosito. Mi avvicinai e chiesi chi fossero. Perché vestivano in quel modo e come mai si trovavano a Catania. Ebbi delle risposte “affascinanti”. Mi dissero che viaggiavano in autostop e si sarebbero fermati qualche giorno in città. Colsi l’occasione al volo e li invitai nel nostro club, “the beat young”, che proprio in quei giorni si era imposto alla bigotta e conservatrice mentalità del nostro piccolo paese.

Spiegai come fare per arrivare in paese e il giorno dopo, regolarmente in autostop, ce li siamo visti spuntare nella piazza centrale con gli zaini sulle spalle e l’immancabile sacco a pelo legato. Mi trovavo assieme agli altri al club e mentre parlavo dell’incontro, ce li siamo visti spuntare davanti la porta.

Il club era addobbato con poster dei grandi cantanti rock del momento e soprattutto, per manifestare apertamente il nostro desiderio di essere diversi, al tetto avevamo attaccato una pelle bianca di pecora.

Meraviglia!!

La loro presenza in paese suscitò le ire dei benpensanti e dei conservatori più accesi, ma principalmente furono   le prediche violente dei nostri genitori a scandire il forte dissenso che si era levato in paese.

“Li dovete assolutamente mandare via, sono sporchi, hanno i capelli lunghi, sono vagabondi, accattoni e non sono degni di rimanere in paese”. La reazione ufficiale del paese fu quella di mantenere un certo decoro e quindi di mandare via chi sporca la falsa morale imperante in quegli anni.

Malgrado tutto li ospitammo per una notte nel club.

Quel giorno la mia sofferenza fu  incolmabile.

Nel silenzio della mia stanza piansi moltissimo, non concepivo l’odio e la violenza scagliateci addosso.  Ricordo l’infamia con la quale la moralità conservatrice criticò quell’evento. Avevamo tutta la piazza contro, specialmente la  “buona” gente che contava ci si era sinuosamente scagliata addosso. Purtroppo, in prima linea, vi erano i nostri genitori che, pur di non contrastare l’ufficialità borghese e bigotta, conducevano una serrata battaglia contro di noi.

La “bella” società esige asservimento completo alle loro regole e, quando qualcuno tenta di sporgersi oltre determinati precetti, usa qualunque mezzo per incutere paura e rispetto. I nostri genitori, inconsapevolmente, erano armi sciocche e sincere da usare per simili scopi.

Nel mio intimo, mi ricordo, giurai eterno Amore per questa vita e per questo modo di viaggiare. Ancora oggi, 43 anni dopo, continuo a spostarmi per il mondo usando essenzialmente i piedi e i mezzi locali con i quali si muove la gente del luogo.

Negli anni la loro immagine si è diluita, però ricordo che per tanto tempo li ho ringraziati. Grazie a loro due il “vagabondo” che mi vive dentro non si è mai fatto rinchiudere dai paletti sociali.

Ci siamo attratti a vicenda. Avevo bisogno di quello stimolo per risvegliare la mia vera natura. E’ stato un vero miracolo.

Partirono la mattina dopo in autostop scomparendo lungo le strade del mondo.

 

Mentre il treno scivolava sulle rotaie pensavo alle sicurezze che prometteva la nostra società. Non prevedeva ne estremismi  ne, quantomeno, atti di contestazione fuorvianti. Era tutto così programmato, storicamente consolidato, che il solo manifestare il proprio dissenso verso le regole del momento, o eccellere in diversità, comportava biasimi castranti.

Quel giorno la frenesia interiore che avevo nell’andare via, lontano e da solo, verso la libertà, era arrivata al suo culmine. Esplose appena mi trovai solo, in un paese lontano, con qualche soldo in tasca e libero da tutti gli impegni scolastici.

Fu così che imboccai la strada della libertà……..salendo su quel treno che mi svuotò di colpo delle tante ansie accumulate.

 

Messina era la città più a nord del sud. Per noi ragazzi era una metropoli dalla quale partivano tutte le nostre speranze. La sua esistenza per noi giovani allora rappresentava l’incontro di due mondi dove le speranze represse prendevano il volo verso la sua realizzazione.

Messina mi sembrò accogliente come non mai.

Ebbi l’accortezza di disperdere in un sontuoso pasto e in una stanza da letto le ultime risorse rimaste…………………E VIA….via verso la libertà.

Mi sentivo come un iniziato ad una nuova vita, proiettato verso un nuovo mondo, verso il nord, verso la speranza di un domani migliore, più libero.

Ero slegato.

Mentre il vagabondo prendeva il sopravvento, la paura scompariva. Quella paura dovuta al mio balbettare, alla mia fragilità, alla mancanza di denaro, alla mia poca esperienza, avrebbe preso il volo perché cacciata via dalle fantastiche esperienze future che avrei vissuto lungo “la Strada”.

La Conoscenza mi sarebbe entrata lentamente dentro a sublimare anche il minimo imprevisto.

 

La locanda nella quale quella prima notte dormii stava proprio a ridosso della stazione dei treni. I rumori prodotti dai camion che si spostavano verso il nord mi davano tanta speranza…..sicuramente domani, pensavo, qualcuno di essi mi avrebbe preso su e portato verso nord………………..in effetti fu proprio così.

Quella notte non presi sonno. Lo stridere dei treni sulle rotaie e il rombare possente dei motori dei grossi TIR mi rumoreggiò nella mente. Non era l’unico rumore che mi urlava dentro, vi era anche l’attesa del domani ad inquietarmi.

Cosa sarebbe successo!

 La prima volta sulla strada da solo!

 

La notte prima di una partenza non riesco a dormire. Dopo 40 anni, 2008, dopo innumerevoli  viaggi, la notte che precede il viaggio entro puntualmente in paranoia. L’ansia di volare via, l’angoscia di affrontare il primo impatto con la nuova meta, il pensiero di abbandonare il “conosciuto confortante” per un ignoto insicuro, la frenesia di emozionarmi nuovamente di fronte alle visioni offerte dalla Natura………non mi fanno chiudere gli occhi.

 

Dopo l’ultima colazione normale, consumata fugacemente in un bar, mi avviai verso il traghetto. Ero certo che avrei trovato qualche passaggio su di un mezzo che saliva verso nord. Chiesi con timidezza, forzando la mia innata ritrosia, chiesi con insistenza, presentandomi come un bravo ragazzo, ancora vestito bene, lindo, olezzante dei recenti esami che avevo sostenuto pochi giorni prima…..ma nulla da fare. Anche dopo,                   sulla strada, per ore…..non vi è stato nulla fare. Le vetture mi sfrecciavano davanti incuranti della mia presenza.

Sembravo uno studente pendolare che per risparmiare qualcosa sceglie di fare l’autostop. Non avevo né borsa né tanto meno portavo lo zaino “incriminato”……..eppure nessuno si fermava. A quell’epoca non portavo ancora la barba, o per lo meno, mi alternavo tra pizzo alla Trotskiy, baffi alla Antonie e barba alla Bakunin, quel giorno però, mi ricordo, ero senza peli in viso perché provenivo da un periodo di esami quindi non sembravo un vagabondo squinternato o sporco da sembrare poco rassicurante.

Sembravo uno di loro, talmente normale da……….non accettarmi nemmeno io.

Evidentemente, pensavo, l’essenza del vagabondo che era in me mi zampillava da tutti i pori e nessuno voleva prendermi in macchina. Erano le mie movenze, il modo disinvolto con il quale chiedevo passaggi, non so proprio cosa dire, però , mi ricordo che per diverse ore stetti col pollice rivolto verso il nord…..e non vi fu nulla da  fare.

Sapevo delle difficoltà che avevano incontrato tanti autostoppisti in quel tratto di strada, ero già pronto, però la speranza di non appartenere alla schiera di quegli sfortunati teneva alto il mio morale.

Non esitai nemmeno un momento, anzi mi deliziavo nel guardare i visi della gente stipati sulle macchine ed ingaggiavo sommesse scommesse con me stesso cercando di indovinare chi si sarebbe fermato per primo. Negli anni  identificai quali tipo di macchine si fermavano con maggior facilità e quali mi sfrecciavano accanto lasciandomi col dito alzato ad inghiottire la loro scia di fumo.

 

La strada stava iniziando ad istruirmi sul giusto modo di vivere la vita.

Si circoscriveva o si schiudeva in relazione al mio stato d’animo.

Quando chiedevo con autorità un passaggio, ostentando la mia Dignità, le macchine, come se si sentissero attratte,  si fermavano e mi prendevano su, mentre invece quando mi mostravo più sottomesso, più indeciso, mi saettavano davanti con freddezza come se volessero punirmi della mia timidezza nell’alzare il pollice.

La strada sembrava un arena dove viene premiato sempre il più furbo e il più forte.

  

La fortuna non si fece attendere a lungo, difatti si fermò un camion di colore rosso, di piccole dimensioni, che mi prese su per depositarmi nel primo pomeriggio al bivio per Sapri. Un lungo spostamento in posizione privilegiata.

Dal finestrino ammiravo le immagini dei monti calabresi in lontananza, la fitta vegetazione ne contornava le altezze e le riconduceva ad un semplice ammasso di vegetazione impenetrabile. Risalimmo lungo la costa, allora l’autostrada era inesistente quindi l’unica via percorribile era il lungo mare.

La frenesia del viaggiatore incantato non tardò ad arrivare.

Guardavo sempre avanti, immaginandomi già proiettato nel dopo. Indietro non riuscivo a guardare, eppure i motivi per farlo erano tanti. Vi erano i miei genitori inconsapevoli di questa mia avventura, vi erano i vari affetti, tra i quali vi era una ragazzina meravigliosa che non riuscivo assolutamente ad allontanarla  dalla mente e dal cuore, vi era una certa sicurezza che mi dondolava in un afflato rilassante……..con tutto ciò ho deciso di andare via. Ho preferito esaudire l’ansia del partire anziché abbrutirmi tra quei soliti concetti del vivere sicuro e da borghese.

Allora l’autostrada iniziava ad Eboli. La civiltà del Cristo di Levi sembrava finire veramente lì, il resto……..tutto vuoto. Strade che si inerpicavano, in soli pochi metri, ad altezze da brivido, che costeggiavano strapiombi orribili dal fondo buio dove mi vedevo sfracellato in uno di questi precipizi.

Ebbi tanta paura, cercai di pregare con insistenza imprimendo un movimento istintivo alle mie labbra. L’autista, incurante di questa mia tensione, suonava all’impazzata per avvertire del suo arrivo le tante donne che aveva sparse  lungo la strada. MI annunciava in tempo da quale finestra si sarebbe mostrata la prossima femmina…..ed era vero.

Negli anni aveva intrecciato rapporti con l’ambiente e l’ambiente stesso lo ripagava con sorrisi e riconoscenze appena riappariva con il suo camion sulla strada.

Era molto spericolato, la paura la allontanava squillando assieme al clacson il suo amore per la vita.

Mentre Lui, mi ricordo, inconsciamente abbordava le curve cantando e suonando, io mi annegavo nella mia adrenalina. Fumava tantissimo ed ogni tanto mi regalava un po’ di fumo per farmi stare all’erta.

Mi scaricò nel primo pomeriggio al bivio per Sapri.

In poco tempo trovai il passaggio definitivo che mi condusse fino a Roma.

Era un controllore della BP, difatti si fermava in ogni rifornimento di benzina per controllarne l’efficienza. Un passaggio veramente da privilegiato. Mangiai a sbafo per tutto il tragitto e in più venivo rispettato come fossi un aiutante dell’ispettore.    

 

Spesse volte capita durante l’autostop di avere colpi di fortuna inaspettati. Si viene rifocillati con grande rispetto, a volte si raggranella persino un po’ di denaro e qualche dormita in letti comodi. Per i più fortunati a volte può capitare anche la bellezza di coccolarsi accanto ad un bel corpo di donna e trascorrere ore meravigliose………ma il vagabondo, dopo un po’, non vede l’ora di ripartire per rimettersi sulla strada, da solo, con sulle spalle l’immancabile zaino corredato di sacco a pelo……………….

Quel senso di libertà che risveglia il camminare sulla Strada, nessun altra sensazione è capace di accenderlo.

 

Quel lungo passaggio mi diede una grande speranza.

Scesi fin davanti la stazione Termini.

Era già notte e la città si popolava di corpi disfatti e arrugginiti per il lungo vagabondare. Era circondata da mendicanti di mestiere e da accattoni occasionali. Ognuno cercava di trovare il proprio angolo dove depositarsi per quelle poche ore di buio che ancora rimanevano.

Una realtà a me sconosciuta mi si schiantava di fronte catapultandomi improvvisamente nel mondo della povertà più indegna, dove si perde quel minimo senso di pudore pur di sopravvivere, e di una povertà “rivoluzionaria”, dove per scelta si decide di vivere povero tra i più poveri.

Non era il mio caso. Io stavo vivendo per un periodo la mia avventura, e, per mancanza di denaro, ho deciso di viverla comunque,  anche in questo modo.

 

Scesi dall’auto preso dal sonno e infreddolito. Barcollando, cercai di orientarmi e di capirci qualcosa tra tutto quell’apatico fermento che riempiva l’aria circostante.

File di fagotti umani erano distesi per terra mentre altri arrivavano ciondolando  perché cacciati fuori dalla stazione che proprio in quei minuti stava per chiudere. Camminavano come zombi, portando sotto braccio pezzi di cartone da stendere sul marciapiede prima di abbandonarsi su. Cercavano un po’ di spazio libero, specialmente coperto da un tetto per evitare l’umidità e il freddo della notte.

In silenzio si rannicchiavano sperando nel silenzio della notte per ricavarsi un po’ di pace. Una schiera di senza tetto, di barboni, di vagabondi, di malfattori, a quell’ora della notte si rintanava dentro di sé sperando in una intimità mistica capace di trasportarli in luoghi paradisiaci. Difficile.

Avevano fame, erano stanchi, abbrutiti, indolenziti, pigri, insensibili al dolore, denutriti, sporchi……………difficilmente avrebbero potuto sfruttare quella capacità mentale che ogni uomo ha di costruirsi il proprio sogno.

Il corpo crollava, la mente lo assecondava e la coscienza dormiva.

In tanti sceglievano di dormire direttamente sul posto di lavoro. Domani mattina, senza spostarsi, avrebbero iniziato a mendicare dallo stesso luogo in cui avevano trascorso la notte.

Una triste realtà.

 

Era quello che mi aspettavo di trovare o speravo in qualche altra realtà?

Chi lo sa……..l’unica cosa che mi ricordo è il freddo raggelante di quel marciapiede sul quale mi distesi vinto dal sonno e dalla stanchezza. Non avevo nulla con me, tanto meno disponevo di pezzi di cartone per attutire la durezza e per staccarmi dal gelido pavimento.

Non sentivo alcuna paura. Nessuno avrebbe mai rapinato un nullatenente come me, quindi mi sentivo sicuro. Non chiusi gli occhi facilmente. La prima notte da vagabondo a Roma non potevo farla passare in sordina.

Mi misi ad osservare dalla mia posizione gli altri fagotti umani che cercavano di rannicchiarsi sempre di più stringendo le gambe ed avvicinando le ginocchia al viso. Più si rimpicciolivano, più protetti si sentivano. Cercavano di ricavarsi un attimo di solitudine, ma………………..mancando l’intimità, difficilmente si riesce a sentirsi liberi.

 

Tutti i tuoi movimenti sono controllati, passa sempre qualche curioso che si ferma a guardare….come dormi, se parli nel sonno, se russi, se dormi con la bocca aperta….e poi, nella povertà vi è sempre qualcosa da proteggere, forse la vita, fatto sta che anche in quelle condizioni si ha paura di essere derubati di qualcosa…..forse della vita o forse dei sogni, non lo so, ma so che in certe condizioni, l’attaccamento alle piccole cose diventa un ossessione.

Alla fine ci si addormenta, la stanchezza prende sempre il sopravvento e poi….la mattina ecco che si riprende, un nuovo itinerario, una nuova speranza, un’altra notte…altro freddo, altra paura.

Questa è la vita del vagabondo per mestiere.

L’altro, quello occasionale, quello “rivoluzionario”, è sempre in fermento. Vuole per forza stravolgere l’esistente, anche questo mondo vuole innovarlo, rivoluzionarlo, sindacalizzarlo……….ma è talmente antico, radicato nella società che difficilmente si può intervenire. Viene da lontano, dalla miseria, dalla distribuzione sperequata delle risorse sul quale è fondata questa società.

I poveri del nuovo secolo sono figli dell’emarginazione, delle crisi esistenziali, del pauperismo galoppante, delle crisi da panico, di forme depressive e schizofreniche dovute alle vari forme di impotenza…………………

 

Osservavo tutto questo mondo e mi vedevo qualche anno prima già a Roma mentre con Pino andavamo alla ricerca di via Margutta, al Piper,  per comprare qualche pantalone alla moda da indossare in Sicilia per attrarre qualche ragazza.

 

Stavo sfidando la società.

Era la mia prima vera lotta….e mi sentivo un eroe.

Un ragazzino di appena 19 anni, balbuziente, timido, politicamente spostato più in la della sinistra, intellettualmente indefinito, stava iniziando la sua avventura nel mondo e, fortunatamente, oggi lo posso benissimo dire, quella mia prima notte tra i barboni della stazione Termini condizionò benevolmente tutta la mia vita futura.

Mi entrò dentro il “vagabondo” e non smisi mai di farlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           Mi svegliai tremando dal freddo. Non avevo niente con il quale coprirmi. Tutti avevano qualcosa io…..niente. Possedevo solo poche lire che presto avrei utilizzato per fare una sontuosa colazione.

Valutai la situazione e decisi di spostarmi per iniziare da subito e a stomaco pieno questa nuova avventura. Pensai di premunirmi per la prossima notte cercando pezzi di cartone, però mi resi subito conto che dovevo trascinarlo per l’intero giorno con me, tenendomelo stretto fino a notte. Decisi di rinviare tutto alla sera, per adesso mi volevo immergere in questa grande città calpestandola con orgoglio e con gioia.

 

La mia avventura.

Il mio andare oltre il consolidato mi ha sempre portato fortuna.

In tante altre situazioni ho patito il freddo, forse più intenso e più pericoloso, però come quella prima volta, da solo, spaesato e senza alcun indumento per coprirmi, mai. Posso dire, però, che mi sentivo colpito da un freddo amico, non lo sentivo ostile, avvertivo un certo calore nel suo pungermi. Era così preponderante la mia voglia di evasione che quella notte avrei accettato qualunque tortura.

 

In futuro, in una infinità di situazioni, vissi il freddo con paura ritmando compulsivamente i denti e battendomi i pugni sul corpo per riscaldarmi. In uno dei tanti viaggi in Cina addirittura, mi ricordo, usammo delle borse per acqua calda  per riscaldarci tenendole strette al petto. Più di una volta ho rischiato l’assideramento in Tibet e in Ladhak e grazie al calore profuso dalla mia Pina, sono uscito sempre indenne. Dormendo sotto i ponti dell’autostrada, vicino Brema, 1970, con Pino rischiammo veramente di congelare, e dentro cimiteri austriaci, sulla neve, dentro sacchi a pelo molto leggeri……..anche quella volta in Mali, di notte, su una jeep scoperta provammo i brividi del freddo….ci siamo abbracciati, riscaldati, ma l’aria fredda era tagliente come il fuoco e bruciava al contatto con la nostra pelle……..

 

L’ambiente dei barboni difficilmente si apre. E’ chiuso come chiusi sono i motivi che li hanno spinti a fare questa scelta. A volte non scelgono, ma sono pressati da situazioni familiari disastrose e si ritrovano a vivere da reietti in qualche angolo di strada. Non hanno fiducia in nessuno. Fuggono da soli e soli rimangono sommersi dalla loro sfiducia verso il mondo.

Questo ambiente era molto diverso dall’ambiente beatnik che conobbi appena un giorno dopo. Alla loro chiusura mentale e fisica si opponeva quello dei vagabondi per scelta rivoluzionaria. Erano quasi tutti vecchi, disfatti, sfiduciati, con problemi assurdi dietro le spalle, di mancanza di lavoro, di divorzi disastrosi, mentre gli altri, i miei idoli, si muovevano per scelta occasionale, momentanea, portavano in sé la rivoluzione della società, il cambiamento verso un nuovo mondo, erano quasi tutti giovani, stravaganti, accattoni dignitosi, amanti della vita, sconoscevano l’odio e la rabbia, contestavano già con la loro presenza……ed erano liberi, non cercavano la felicità, erano già felici così come erano.

Non erano attaccati al denaro, al loro piccolo spazio, al pezzo di cartone, mentre quelli, i barboni coatti, si legavano a quel poco che avevano con violenza, tenevano dentro tutta la rabbia del mondo perché continuavano ad odiare colui o colei che li aveva spinti tra le braccia di quella infelice esistenza.

I Beatnik di Piazza di Spagna li trovai aperti, disposti al gioco e alla gioia. Accattonavano ma sprizzavano Dignità. Il loro era di tutti, erano grandi sognatori e spaziavano con la mente senza alcun pregiudizio. Sicuramente avevano dentro un po’ di rabbia verso questa società, ma difficilmente la indirizzavano verso singoli individui.

Contestavano lo stato delle cose, rifiutavano i regimi, negavano le autorità, ripudiavano le formalità…………………..erano libertari, Anarchici, qualunquisti per scelta, individualisti positivi, fuori dagli schemi, aldilà di tutto e sensibili alla sofferenza altrui. In poche parole era il mio mondo.

Da anni li seguivo con il cuore e con tutto me stesso, leggendoli sui libri, seguendoli sulle strade americane mentre colonizzavano i piccoli spazi ignorati. Davano un senso, con la loro presenza, a tutto ciò che l’ufficialità borghese considerava inutile, improduttivo. Si radunavano in villaggi abbandonati immaginandosi la vita, occupavano pacificamente angoli di mondo trascurati e li rendevano vivi, vitali, fucine di libertà.

Era il mio mondo e, nel mio piccolo, allora, tentai di rendermi simile a loro. Non feci alcun sforzo per essere accettato……….mi abbandonai semplicemente mostrandomi così come ero.

 

Quella mattina di inzio luglio mi scuotevo dall’angolo dove avevo trascorso la mia prima notte da vagabondo e mi recai con passi fermi verso la mia meta: Piazza di Spagna.

Passi liberi, senza alcun senso, ma indirizzati, risvegliati da un nuovo senso della vita che stavo per imprimere alla mia coscienza.

Verso la libertà……a visitare i miei idoli che sapevo bivaccati su quella mitica scalinata.

Persi un po’ di tempo per guardarmi intorno, chiedere informazioni e sorbire un bel bicchiere di latte con dentro un bel pezzo di pane.

Una buona colazione sostiene lo Spirito. Apre la finestra sul mondo con un sorriso interiore pieno di sicurezza.

Quella mattina non mi dileguai in discorsi di risparmio, spesi tutto quello che avevo in piena consapevolezza. Tutto per presentarmi vuoto nella mia piazza. Non avevo nulla da tenermi stretto per considerarmi più “ricco” degli altri. Non volevo possedere nulla per scelta…………….volevo essere come loro.

Un piccolo vagabondo fuggito via dalle proprie sicurezze per contestare “il conosciuto”.

 

Mentre percorrevo le vie per arrivare a Piazza di Spagna, incrociai un corteo di giovani che contestavano scientificamente la società. Mi accodai istintivamente per solo pochi metri, tentai di gridare il mio odio seguendo qualche slogan……………ma non riuscii a tenere a lungo il passo. Mi discostai in silenzio, lentamente, per guadagnare nuovamente la mia strada.

 

In quegli anni la contestazione libertaria, dei Beatnik, esplosa anni addietro da una richiesta di libertà interiore, esistenziale, stava transitando nella rivoluzione scientifica, politica, asservita al partito, legata a sistemi autoritari i quali, si credeva, in tempi passati, sotto la bandiera della rivoluzione socialista, avevano celebrato la via della lotta rivoluzionaria.

Subito dopo scaturì l’autunno caldo. Operai e studenti insieme per lottare contro il declino della Democrazia, per la lotta di classe e per l’immaginazione al potere. In tanti abbandonammo il sogno di un esistenza libera per dedicarci anima e corpo al Partito e all’impegno politico.

Militai per qualche anno in un partito della sinistra spinto dall’emozione rivoluzionaria e dalle grandi opportunità che mi offriva la vita da “intellettuale”.

Dentro un partito se non si è un leader, si rischia di diventare semplici numeri rimovibili e condizionabili  in qualunque momento. La coscienza politica, la tanto inneggiata coscienza di classe, fa presto a trasvolare dalla realtà oggettiva ad una visione personale della realtà………da questo sociale scivolamento sono emersi i nuovi leader politici, quelli che ancora oggi, giugno2008, detengono il potere e determinano le sorti dell’intera società.

Tutti sessantottini, tutti rivoluzionari…….tutti di sinistra.

 

Quella volta a Roma non mi sentii coinvolto da quel genere di rivoluzione.  Mi interessava marginalmente, mentre ero più affascinato dal mondo dei vagabondi. Ero più per un tumulto interiore, psichico, scuotermi dalle fondamenta anziché pensare a certe forme di apparenza. Non volevo sentirmi un automa che lotta per la Libertà quando   ancora dentro non mi sentivo libero.

Volevo conquistare la mia Libertà, e a quel tempo La idealizzavo solo nel comportamento dei Beatnik che bivaccavano in tutte le piazze del Mondo.

Era lì che volevo andare, lì che volevo dirigermi quella mattina e istintivamente mi staccai dal quel corteo e mi avviai verso Trinità dei Monti.

La mia timidezza contrastava con il forte clamore esterno che a quei tempi caratterizzava tutte le grandi città. Un rumore tumultuoso, scientifico, programmato dai partiti e galoppato da qualche leader acculturato e parolaio.

In futuro vissi la mia ristretta esperienza universitaria con tutti i crismi del contestatore aprioristico.

Sempre contro, tutto sbagliato, mai accondiscendente.

Il mio era un NO grande quanto il mondo…..solo dopo, tantissimi anni dopo, con l’avvento del mio Maestro nella mia vita iniziai a balbettare un SI. Prima piccolo, ristretto, di parte….lentamente un SI più grande, in espansione, un SI che avvolgeva sempre più realtà….e poi un SI universale, cosmico, amorevole.

SI….SI…..SI….SI…..SI negli anni lo giaculai come un mantra…….forse sbagliando!!!!

 

Avevo sempre sognato di entrare in quella piazza e sedermi in quella scalinata con lo zaino sulle spalle sporco e fatto di mondo. Vi arrivai invece nudo, senza nulla in spalla e senza alcuna arroganza. Portavo qualche preconcetto, questo si…..vi entravo confuso e spaesato, senza l’arroganza del giovane rivoluzionario. Mi mantenei in disparte, a piccoli sorsi, come se stessi sorbendo un the caldo.

 

La Conoscenza è un procedimento, avviene gradatamente man mano che si acquista consapevolezza della realtà in cui ci si trova. Entra dentro respiro dopo respiro, si fa assimilare al momento che si è pronti….non prima non dopo.

Così speravo di conoscere quella Piazza.

Così desideravo avvicinarmi ai miei “vagabondi”.

 

Non attirai l’attenzione di nessuno. Ero talmente piccolo, normale, senza barba perché l’avevo tagliata qualche giorno prima di sostenere gli esami, maglietta rossa, scarpe da sostenitore di esami, e pantaloni a zampa di colore avana.

Mi ricordo perfettamente. Non avevo altro e nulla poteva farmi risaltare agli occhi attenti della scalinata.

Mi confusi tra il normale turista e mi accovacciai in un angolo.

Stavo vivendo il mio sogno sublimandolo nella realtà.

In paese avevo idealizzato questo mondo e ancora non me ne rendevo conto.

 

Era vera la mia avventura quella che stavo vivendo o era sempre il solito sogno, quello stesso che da tanti anni, puntualmente, mi si presentava quando sentivo addosso la sofferenza che mi causava il rapporto con il paese?

 

Spuntavano barbe di ogni tipo, sacchi a pelo sdruciti e coloratissimi, qualche chitarra e tante ragazze…..quasi tutte romane, belle, giovani e prorompenti.

 

Con passo leggero presi a salire la scalinata.

Sembravo un intruso quando prende possesso del nuovo ed usa tutti gli accorgimenti. Intanto, per via degli indumenti che indossavo, non mi sentivo a mio agio. Volevo strapparmi quella camicia nuova e linda che portavo addosso…..fortunatamente fu solo per qualche giorno…….volevo infangare le scarpe che calzavo e sui pantaloni, almeno, volevo scrivere qualche frase che inneggiava alla libertà.

 

Qualche anno prima camminai per diversi mesi con un paio di jeans con su scritto: “Fatti non foste per vivere come bruti, ma per seguire virtude e conoscenza”.

 

Un intruso silenzioso, che osservava senza emettere alcun giudizio.

Sentivo di appartenere a quel mondo, ma l’apparenza mi rendeva distante. Volevo avere già la barba lunga, come la tenevo qualche settimana prima, i capelli almeno sotto il collo e arruffati per sembrare anche esteriormente uno di loro.

Volevo essere e sembrare un semplice giovane vagabondo siciliano che viveva sotto i ponti romani il proprio sogno o in qualche angolo della stazione Termini.

Non avevo portato con me nemmeno la chitarra. Ne possedevo una che per un certo periodo vi strimpellai su mentre accompagnavo di sghimbescio un piccolo complessino di paese…..ma nulla di trascendentale. Non ero per niente bravo. 

Stetti l’intero giorno seduto sulla scalinata ad osservare e senza pensare a mangiare.

Mi sentivo talmente appagato che non sentii il peso della stanchezza e i morsi della fame.

 

In futuro mi inserii talmente bene nella mentalità e nel costume del beatnik che diventai un esperto “mendicante” che pur di non interrompere la meravigliosa avventura, faceva di tutto per racimolare qualche somma di denaro.

Chiedevo sigarette, soldi per comprare da mangiare e qualche coperta, chiedevo continuamente l’ora, anche per non perdere il vizio. Il mio balbettare mi spingeva a trasformare il semplice chiedere in un cantilenante mantra per non inceppare in qualche sillaba.

Mi consideravo veramente bravo.

Dal momento che capii che l’unica risorsa per continuare il mio vagabondaggio era il denaro…..chiesi e chiesi a più non posso.

In futuro sfruttai questa pratica in tanti altri viaggi con grande perizia, specialmente ad Amsterdam, nel ’70, quando affiancai all’accattonaggio la raccolta di bottiglie in vetro da rivendere al primo centro alimentare.

 

Da piazza di Spagna fino ad arrivare all’osteria dove andavo ogni giorno a mangiare, vi erano solo poche centinaia di metri…ebbene, con disinvoltura, durante il tragitto, riuscivo a racimolare la giusta somma per un pranzo decente. Il resto della giornata rimanevo seduto sulla scalinata a pensare, a guardare e soprattutto a scherzare con le schiere di turisti americani che in quegli anni, assieme a tanti giapponesi, popolavano le strade di Roma.

Li smorfiavo con libertà e con gioia. Erano attirati dai mitici barboni di Trinità dei Monti e accettavano qualsiasi scherzo.

A volte allungavamo le mani per tastare qualche florido sedere che, ondeggiando senza alcun ritegno, spigolava dalle nostre parti rendendosi appetitosamente accessibile.

I “Diversi” in quegli anni eravamo noi. Il nuovo e lo stravagante, a parte le opere d’arte, era dettato dal nostro bivaccare in quella Piazza. Eravamo su tutti i giornali del mondo ed eravamo consapevoli che questa popolarità ci avrebbe protetti dalle continue retate della polizia.

Tra di noi giravano tristi storie di scorribande della “forza” che, periodicamente, con l’odio che le sprizzava dagli occhi e dal cervello, cercava di ripulire la città dalla nostra presenza. In effetti le veniva difficile riuscire in questa impresa e si limitava ad intimorire e a rimarcare la propria autorità sul territorio.

Le schiere dei vagabondi aumentavano ogni giorno e poi si aggiungevano anche tutti coloro che per esplicita mancanza di denaro abbandonavano la sacralità della società ufficiale e si aggiungevano a noi.

La nostra presenza attirava un variegato mondo di vagabondi, tutti regolarmente non censiti e liberi da legami con il regime pseudo-democratico che dominava in quegli anni. Vi era persino il rischio di qualche infiltrato della politica “rivoluzionaria” che cercava di strumentalizzare la nostra Libertà per il proprio tornaconto. Appena veniva smascherato, subito lo popolarizzavamo nella pubblica piazza……e per lui diventava un dramma rimanere.

 

Trascorsi così il mio primo giorno in quella Piazza, racchiuso in un mutismo timido, osservante e invidioso dei miei tanti coloratissimi amati eroi che in quel momento punteggiavano, di gioia e di libertà, la mia scalinata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

          Primo giorno….seconda notte.

 

Il freddo della notte precedente mi canticchiava già la sua serenata. Tra poco avrebbe fatto buio e l’ora tarda mi avrebbe spinto alla ricerca di un luogo dove dormire. Non trovai di meglio che rientrare alla stazione a piedi sperando di raccattare lungo la strada qualche lira per riempirmi lo stomaco, dato che quel giorno non mi ero spostato dalla piazza, e recuperare qualche pezzo di cartone per coprirmi ed isolarmi durante la notte.

 

Un vagabondo che cammina!!!

Il suo non è un camminare normale, scrutatore, agile, saltellante….il suo è il camminare della vita tra i meandri di una coscienza implosa dentro sé stessa.

Cammina…ma non vede. Vede solamente quando cerca qualcosa.

Guarda…ma non sente. Sente solamente quando qualcuno tenta di togliergli la Libertà.

E’ così abituato al silenzio che tutto gli sembra attutito.

Quando deve fuggire da qualcosa….non corre. Ciondola ed è già distante.

Quando accattona….non chiede. Usa la Dignità per ottenere qualcosa.

Quando dorme…non chiude gli occhi. Si distende e…non sogna.

Guarda col corpo…sogna col cuore…vola con tutto sé stesso.

Un vagabondo non è umano….è un essere Divino.

 

Quel giorno le sensazioni che provai stando seduto sul luogo dei miei sogni mi tennero lontano i morsi della fame.

Entrai alla stazione portando diversi pezzi di cartone, mi consigliarono di comprare un biglietto Roma-Settebagni per non venire buttato fuori, e mi avviai verso la sala d’attesa di seconda classe.

E’ l’unico punto di ristoro per un vagabondo.

La stazione Termini chiudeva all’una di notte, e non vi era altra alternativa che uscire fuori. Quelle poche ore trascorse al caldo le custodii sul mio corpo quanto più a lungo possibile. Ero certo che fuori avrei trovato freddo e solitudine, quindi quel calore lo coccolai dentro di me con grande gioia………tentavo di circuirlo con le mie moine per non farmi abbandonare. Ne avevo di bisogno per sentirmi protetto e caldo.

Puntuali vennero le guardie e ci cacciarono fuori. Con in mano i pezzi squadrati di cartone uscii e lentamente, con il sonno in gola, mi depositai con tutto me stesso in un angolo illusoriamente più caldo e meno esposto.

Scricchiolio di ossa, spostamenti continui per trovare la posizione migliore, sbadigli condizionati, lampi di luce agli occhi lanciati da qualche curioso occasionale, lievi colpetti di piedi per sentire la vicinanza dell’altro.

La paura di rimanere solo, abbandonato da tutti i barboni che dormivano in quel luogo, non mi lasciava riposare in pace. Ero certo che nessun di quei barboni sarebbe intervenuto in un momento di pericolo, proprio perché la vita gli aveva riservato tanta sofferenza da renderli indifferenti alla presenza degli altri, però il solo sentire la vicinanza di altri accanto a me, mi rassicurava.

Mi creavo amici immaginari che avrebbero preso le mie difese……..solo così riuscivo a chiudere gli occhi. Mi raggomitolavo sfruttando il calore del mio stesso corpo e mi lasciavo andare.

 

Quella seconda notte da vagabondo tra i barboni della Stazione Termini di Roma mi trasportò con la mente agli hobos americani e all’epopea peregrinante che, con la loro vita, imposero nelle menti e nei sogni di tutti i viandanti del mondo. Un intera generazione di vagabondi a cantare la Libertà, chi sotto i ponti chi lungo una linea ferrata, chi attorno ad un bivacco su spiagge bianchissime chi a strimpellare su una chitarra in qualche piazza storica del vecchio Continente.

Una lunga sosta, chiusi nel nostro piccolo mondo, questo era il senso del vagabondo.

Un mondo che stava per sparire dietro l’avanzare scientifico della rivoluzione.

Rivoluzioni giovanili in America e in Europa stavano fagocitando qualunque forma di indifferenza politica. Tutti per forza dovevamo interessarci della loro politica se volevamo essere accettati.

Spontaneisti controrivoluzionari, così ci definivano i realisti della rivoluzione.

 

Il viso trasognante del beatnik, quella notte, sulle banchine attorno alla stazione, preavvertiva già l’avvento di un potere oltremodo enorme che avrebbe trasformato quelle banchine anarchiche, fucine di aneliti individuali verso la Libertà, in focolai scientifici dove analizzare strategie di lotta per abbattere “questo tipo” di Potere statale e, subito dopo…………….rimpiazzarlo con l’altro Potere, quello “gentilmente imposto” dalla classe operaia finalmente illuminata.

I canti  mansueti e trasognanti della contestazione libertaria, stavano per transitare nell’Internazionale Comunista…….il sogno del vagabondo di un Mondo Libero e senza schemi stava decadendo nel freddo delirio di uno “Stato comunista diretto e programmato dal Partito”. L’ideale delle piccole comuni autogestite dove l’Individuo poteva partecipare direttamente alla costruzione del proprio “sogno”, stava regredendo nel freddo massificante ideale della costruzione del Partito.

 

Tutto perso.

Tutti i sogni confusi……..miscelati tra cervellotici tesi e antitesi, fusi con l’irreale “immaginazione al potere”, diluiti tra proletari e borghesi, tra imperialisti e internazionalisti……………..un guazzabuglio di teorie e prassi annichilirono quel grande sogno di Libertà che in quegli anni rappresentava l’epigono del giovane.

 

Quella notte, la seconda notte di vagabondaggio vissuta in prima persona, questi discorsi ancora non occupavano la mia mente.

Tra poco sarei stato cacciato via da quel luogo, dovevo quindi rintanarmi dentro di me per non farmi sfuggire l’ultimo calore accumulato. Quei pezzi di cartone che tenevo stretti sarebbero serviti a poco,  il freddo ne avrebbe oltrepassato la fittizia compattezza………..però ugualmente lo tenevo stretto, almeno, pensavo,  mi rimaneva la sparuta illusione di coprirmi con qualcosa.

Ritrovai lo spazio della notte precedente ancora vuoto. Era riscaldato dalla figura di due vecchietti dalla barba lunga e proprio da loro seppi dell’esistenza dell’Esercito della Salvezza e di un convento nei pressi di Trinità dei Monti dove servivano in beneficenza  a colazione e a cena un pasto sontuoso e rinfrescante.

 

In futuro, per diverse notti, con Pino fummo ospiti dell’Esercito della Salvezza, addirittura una notte creammo un po’ di casino perché involontariamente occupammo un letto già assegnato ad un barbone che mendicava nei dintorni della stazione. Il capitano della missione si inalberò talmente da indossare la divisa dell’Esercito per manifestarci la propria autorità e decidere di buttarci fuori dalla “missione”………….e così fece.

 

Capii di non fare alcuna domanda e di aspettare che quel mondo mi si aprisse spontaneamente.

Vecchietti saggi, dignitosi, dal viso rilassante e promettente……….per qualche altra notte mi tennero accanto a loro consigliandomi come muovermi in quel mondo.

I barboni di Roma mi instillarono furbizia e una certa malizia, armi essenziali per muoversi in quella Roma del ’68.

 

L’apertura del “terzo occhio” avviene sempre quando meno ce lo aspettiamo.

Chi poteva immaginare che sotto quegli indumenti sudici e sporchi si celavano due “piccoli” saggi capaci di illuminarmi con perizia sui pericoli della realtà in cui mi trovavo? Bastava ascoltare con leggera presenza mentale per prendere l’essenza di quegli insegnamenti e poi ricondurli nella realtà.

Basta poco per proteggersi.

A volte perdiamo troppo tempo ad analizzare un messaggio…..intanto l’attimo fugge  e quel messaggio non è più attuale. Fugge via come fuggono via tutte le paure quando apriamo gli occhi agli avvertimenti della Coscienza.

Basta così poco per illuminare il Paradiso che ci vive intorno……….una sparuta Luce risvegliata da un attimo di consapevolezza.

La consapevolezza di essere fortunati in un mondo di individui soli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            La stazione apriva alle prime luci dell’alba. Lentamente i soliti corpi infreddoliti si scrollavano dagli strati di cartone e cercavano di scuotersi da quei sogni tristi che la notte gli aveva imposto. Ci stiracchiavamo per sciogliere i grumi fastidiosi che infierivano sulle nostre ossa e con grande lentezza cercavamo di metterci su.

Per me era il secondo giorno, per gli altri chissà quanti giorni si erano accumulati sotto quelle croste di cartone.

In quegli anni Roma rappresentava la Luce per tutti noi. Era tanto luminosa che i nostri sogni venivano abbagliati da così tanto bagliore. Noi stessi venivamo oscurati dalle scintille della città.

Il sogno di un ragazzo del sud non riusciva a decollare per la troppa luce. Facilmente si confondeva e non definiva più i contorni…..tutto era così bello, così grande da sembrare un sogno.

ROMA……caput mundi.

Per me era il centro del mondo.

 

Quella seconda mattina mi spinsi per inerzia verso Trinità dei Monti. Ne sentivo il richiamo già appena sveglio e, ancor prima di fare colazione, mi incamminai verso quel luogo.

Negli anni futuri ogni volta che partivo per uno dei miei viaggi, mi fermavo un giorno a Roma per visitare la piazza, quasi come fosse un feticcio da onorare prima di intraprendere le avventure lungo le vie del mondo.

Quella mattina mi sentivo spinto, impaziente, fiutavo nell’aria un inquietudine interiore, bramavo al pensiero che tra poco mi sarei disteso su quella scalinata….mi sentivo come un detrito della società che tra poco sarebbe rinato a nuova vita………..

 

Oh se potessi essere diverso, unico…….

sarei me stesso.

Oh se potessi dare più di quanto non ho……..

sarei me stesso.

Oh se potessi avere Amore da dare agli altri………

sarei me stesso.

Oh se potessi sentire i suoni repressi nel corpo umano…e tirarli fuori…..

sarei me stesso.

Oh se potessi………

 

(1981)

 

Erano arrivati nuovi vagabondi. Quelli di ieri non erano più gli stessi, altri, con altri zaini e con nuove chitarre, erano appena arrivati. Non sembravano spaesati….erano di casa. Sentivano il calore delle vibrazioni emanate da tutti quei vagabondi che ormai da anni bivaccavano nella piazza. Anche se al momento sembrava vuota, permaneva un concentrato di energia che attirava il simile.

 

Un vagabondo è ovunque a casa propria.

Nel silenzio percorre le passerelle delle piazze come una prima donna.

Non recita alcuna parte.

E’ così……perché è bello essere un vagabondo.

 

 

Non sentivo affatto il bisogno di girare per Roma. Per me il mondo iniziava e finiva in quella piazza. Era tutto lì, concentrato nelle speranze di tutti noi e nelle chitarre che, a qualunque ora del giorno, istintivamente ritmavano una dolce armonia.

Non eravamo noi a fuggire dalla società, ma era la società ad essere emarginata. Si era posta aldilà dello steccato che lei stessa aveva innalzato per distinguersi da noi. Noi eravamo felici di questo e glielo dimostravamo continuamente intonando i nostri canti e le nostre nenie che parlavano di Libertà.

 

L’armonia unisce ed avverte quando è il momento della grande festa  dell’Amore.

Chi si trovava a transitare da quel luogo si sentiva attratto da quel caos trascendentale. Le schiere di turisti erano avvinti da quel suono a più voci che si perdeva nell’Unità.

Sembravamo sirene mentre accalappiano i loro Ulisse.

L’indifferenza vigile del potere statale sembrava non sentire, ma noi sapevamo che registrava il pulsare della piazza dalle telecamere poste sui tetti dei palazzi, sapevamo che assieme a noi qualche infiltrato annotava i nostri movimenti, sapevamo che prima o poi qualche retata avrebbe invaso di un rumore sconcertante la nostra piazza, sapevamo tutto questo…..eppure eravamo felici di essere li.

 

Nessuno può fermare  l’armonia che proviene dal cuore.

E’ musica Divina, avvincente, entusiasmante, limpida……….musica che crea, che sprizza gioia, contatto, che emana profumo…..che vola.

 

Non mi venne difficile inserirmi nel mio mondo. Ormai stavo assumendo l’aspetto desiderato. Gli indumenti che indossavo perdevano gradatamente la limpidezza del loro colore naturale, la piazza li stava tingendo di sè e il mio spirito li stava “appestando” di quell’anelito atavico che gridava LIBERTA’.

Ero nuovamente li, seduto a bocca aperta ad ammirare la diversità della gente che mi passava davanti. Anche quel secondo giorno rimasi seduto nel solito gradino spaziando con gli occhi e spostandomi solo di qualche metro per osservare qualche frivolezza messa in campo da qualche giovane stanco di non fare nulla.

Quella sera scelsi di spostarmi assieme al gruppo mentre transumava con tutti i propri averi verso un altra piazza.

La solita storia veniva accordata con più chitarre e gridata con una nuova linfa…..non cercavamo spettatori, desideravamo silenzio, tranquillità e forse un luogo dove poter dormire al sicuro dalle forze dell’ordine che non ci lasciavano in pace.

 

 

 

 

 

 

 

 

   

       

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           Le vie luminose della Roma turistica affascinavano la curiosità del viaggiatore. Astrarsi dalla realtà per effettuare voli pindarici non era impossibile. Erano così tante le attrazioni e le novità che difficilmente si resisteva alle loro sviolinate.

 

 

Un vagabondo in genere passa senza osservare….guarda con distacco, ma non si lascia attrarre.

La Sua vita è molto più importante.

I Suoi sogni sono pervasi da un realismo dovuto al momento.

Sa cosa fare e dove andare in ogni momento.

Anche se a volte l’inconsapevolezza lo proietta in un vuoto sconfinato…….ma è sempre vigile, attento.

Sa di essere un vagabondo in un mondo di cose “consolidate”, abbellite per apparire sempre interessanti e attuali…..

………sa di essere leggero e trasparente…

………sa di non fare la rivoluzione perché già la vive dentro di sé.

 

Un vagabondo cammina con svogliatezza, sembra distante…..ma non lo è.

 

 

Tutte le volte che mi avventuravo in quelle strade assistevo da fuori all’agitazione degli altri. Erano presi dallo shopping a buon prezzo e da quel tipo di frenesia endemica che la città sa spacciare con maestria.

Cosa gli passava per la testa!!! Pensavo.

Quale desiderio volevano realizzare per primo di fronte a quelle invitanti vetrine!!!

Erano singoli individui che si muovevano o era una massa indistinta di “cose vive” che si spostava per esaudire “il sogno” collettivo del momento?

Mi chiedevo quale potere ammaliante esercitavano sulle menti della gente l’acquisto di  un vestito, di un oggetto qualsiasi o di un anello.

Ero un ragazzo, forse un po’ troppo sognatore, ma non me ne rendevo conto.

Cosa facevo tra quelle strade. Quella non era la mia Roma. Le strade del commercio, dell’esibizionismo, della moda, dell’apparenza….non erano il mio mondo.

Io ero lì per vagabondare, per vivere il mio sogno, per raggiungere l’etereo….che non raggiunsi mai.

 

 

L’irraggiungibile pressava.

Stringevo il mondo…..e subito dopo sentivo che mi sfuggiva.

 

Momenti di onnipotenza…..momenti di esiguità.

 

Vagavo tra uno stato e l’altro.

L’indecisione svuotava l’essenza delle cose.

 

 

Mi rincorrevo per darmi l’illusione che avevo tra le mani ciò che cercavo, ma era un semplice gioco mentale.

Per arrivare a Fontana di Trevi seguivo sempre il medesimo percorso, sapevo che anche gli altri si spostavano per quelle viuzze. Ci trasmettevamo sicurezza e informazioni. Erano tempi difficili per i barboni, al primo errore si veniva messi dentro e poi spediti a casa con un biglietto sulle tradotte militari….quello che mi capitò dopo qualche mese preso per fame e con le mani “a vagabondare” a Ceprano, in Ciociaria, nei dintorni di Frosinone.

 

Durante la mia vita, sostenuto e amato dalla mia Pina, ho sempre cercato di riempire i miei sogni con belle immagini di mondo. Da spiagge limpidissime a monoliti di roccia immensi, da visi di bambini affascinanti a bellezze femminili trasognanti, da villaggi colorati ad ecosistemi paradisiaci……in quei giorni a Roma le tentazioni di via Nazionale o di via Condotti ammaliavano il turista. Ricordo, di non essermi soffermato mai nemmeno per un attimo a guardare. Le mie visioni mi proiettavano lontano e mi trattenevano dentro me stesso. Forse era l’incompletezza oggettiva che contrastava con la mia finitezza interiore, fatto sta che nulla mi tratteneva all’infuori della bellezza dei miei sogni.

Mi risvegliavo solamente appena entravo in piazza. Li si che ero vigile, attento ai nuovi arrivi. Non mi sfuggiva nulla.

 

 

Quando sogno di essere altrove….il risveglio è sempre una delusione, un ricadere nel buio della stabilità…………..

…….e la noia mi assale e mi rende un anima in pena.

 

Un sogno mi trasporta lontano……dal conosciuto.

 

 

Quella notte fu la mia prima notte sotto il  mio primo ponte.

Una nuova conquista. Per me lo era….eccome! Ragazzino come ero, sognatore come mi sentivo, quella nuova esperienza mi stava per coinvolgere interamente.

 

Sotto un ponte sul fiume Tevere, dietro piazza del Popolo a dormire. Mi sembrava un miracolo, il titolo di un film…….eppure era la cruda realtà.

Quella notte, e per le diverse notti che seguirono, fino a quando la “forza del potere” non ci schiacciò da quel luogo,  l’odore acre di un fumo inebriante, riempì di sé le menti e i sogni dei vagabondi.

L’intera visione, soffusa dall’esilarante nuvola di fumo che scaturiva dal nostro fermento interiore, divenne la scena per antonomasia. Quell’immagine idealizzata nei nostri sogni scese nella realtà e fu veramente un esplosione di colori e di gioia.    

Il fiume che scorreva lentamente verso la sua meta e noi che, trasognanti, spaziavamo con i pensieri verso le nostre rispettive mete, sublimavamo l’interezza della scena. Niente sembrava essere fuori posto. Tutto si incastonava con armonia e tutto scintillava di luce propria.

La scena era sovrastata  dalla figura impenetrabile e gentile di una ragazza americana che tutte le notti, prima di abbandonarci tra le braccia di Morfeo, si avvicinava, ci lisciava con una dolce carezza e poi ci gratificava con un fresco bacio in fronte.

Tutte le notti che dormii sotto il ponte Lei, impenetrabile, si accostava ad ogni vagabondo e lo baciava…………dolce notte….

Non vidi mai il suo viso alla luce del sole. Era come il vento….impalpabile ma punzecchiante. Grazie al suo bacio vi ritornai per diverse notti, anche se ero consapevole del forte freddo e dei rischi di retate che avrei corso continuando a dormire sotto quel ponte.

Mi inserii spontaneamente in un cerchio di fumatori mentre attendevano il proprio turno per inspirare l’ebbrezza che donava la canapa indiana.

Più in là vi era qualcuno che preferiva bucarsi con aghi incestuosi sperando di “eliminare” in questo modo i propri simili e le paure e le angosce che gli creavano dentro…………..riuscendo ad annullare, purtroppo, solo sé stessi.

 

 

 

 

 

           Un tedesco con un rotolo di baffi sotto il naso e una lunga criniera di peli in testa si bucava atrocemente sotto quel ponte. Tutte le sere lo faceva e tutte le sere tentava di convincerci che solo in quel modo la fredda società avrebbe ricevuto un vero schiaffo.

Uno dei suoi figli, nell’indifferenza assoluta, si lasciava morire per suscitare scalpore. Era come se volesse creare dei sensi di colpa alla società.

Poveretto…..sconosceva l’insensibilità di questa nostra “civile società”.

Mentre Lui si lasciava morire per punire il suo carnefice, essa celebrava l’avvento di una nuova multinazionale sul campo mondiale e glorificava l’elevazione, tra gli alti ranghi delle forze oscure, di una nuova fratellanza di potenti per dominare e controllare l’intero pianeta.

Figuriamoci se la Sua fine avrebbe creato scalpore o qualche crisi interiore tra i componenti di simili organizzazioni………..ne doveva passare tanta di acqua sotto quel ponte.

 

Si perforava con attenzione e prima di farlo coccolava l’ago con la lingua per non disperdere nemmeno un goccia di quel nettare divino. Lo seguiva con gli occhi sbarrati, se lo spingeva con tutto se stesso dentro la pelle ancor prima che quell’ago consolatore la traforasse.

Consolazione celeste.

Sensazioni di pace, di abbandono, di accettazione………….il tedesco non contemplava alcun rischio, l’ultima cosa alla quale pensava.

Era l’atto in sè, trasformato in rito, a tranquillizzarlo. Era geloso del suo buco, lo ammirava mentre lo praticava. Da lì a pochi secondi l’eroina sarebbe corsa dentro le sue vene e avrebbe interrotto quel fiume di adrenalina che lo stava prosciugando.

Un altro di quei “coatti” miracoli che la società spinge a fare.

Un buco per la libertà.

Sentivamo l’attimo in cui l’ago attraversava la pelle. Pur essendo qualche metro distanti percepivamo il gorgoglio di quel liquido mentre si comprimeva per scorrere meglio dentro quelle vene.

Malgrado tutto………ci lasciammo cullare dal silenzio e dalle placide acque del Tevere.

Notti incantevoli.

 

Io avevo trovato da qualche parte un ritaglio di coperta con la quale tentavo di riscaldarmi. L’umidità che saliva dalle acque del fiume era impietosa, non riusciva ad innalzarsi verso il cielo perchè all’impatto con il sotto ponte ci ripiombava addosso  martoriando le nostre fragili ossa.

 

Il vagabondo non chiede, non è curioso, vuole solamente vivere in pace e trasfondere per conduzione questa sua pace all’ambiente circostante.

Quando sente puzza, non la scosta………si allontana più in là.

Osserva in silenzio ed in silenzio, dentro di sé……..cerca di capire.

Conosce già la Verità…………sa che è Una e sa che gli vive dentro.

 

Nessuno sotto quel ponte mi chiese mai chi fossi, da dove venissi. Parlavamo con gli occhi e ascoltavamo con l’intero corpo. Dai sottili sorrisi ci scambiavamo le essenziali comunicazioni. Dalle movenze, dalla tensione che ci riposava sul viso, dal modo come dormivamo si intuiva chi eravamo. Qualcuno non riusciva a rilassarsi per via di pregiudizi non superati, qualcun altro si scuoteva nel sonno pensando alle proprie situazioni familiari…………..la società non l’avevamo abbandonata, la stavamo ancora portando con noi e, purtroppo, le conferivamo ancora un peso enorme.

Tra la scalinata e il sotto ponte iniziai a trascorre i miei giorni da beatnik.

Di giorno seduto sulla scalinata, di sera a piazza Navona e di notte sotto il nostro ponte. Per una settimana fu questo l’itinerario giornaliero.

Di tanto in tanto durante questi spostamenti sentivo qualche “Vietnam libero” lanciato al cielo con rabbia. L’altra parte di me poneva le orecchie e il cuore verso questa altra realtà. Ancora non ero entrato direttamente nel movimento studentesco, però mi sentivo attratto anche da questo altro mondo.

Stava nascendo la rivoluzione. Stava già camminando in noi e tra poco sarebbe sfociata tra le paludi compromettenti della politica.

Un errore di non lungimiranza.

 

Stavo già iniziando a conoscere qualcuno e stavo lentamente istruendomi specialmente sull’arte del chiedere con dignità quel “minimo” di denaro per continuare la mia avventura romana. Imparai anche le vie di fuga da usare durante le retate che la “forza” ogni tanto decideva di fare. Ci dileguavamo in forma scomposta per evitare concentramenti. In questo modo le loro reti non riuscivano ad imbrigliare tutti, qualcuno sgattaiolava sempre………….per tenere  alta l’insegna della Libertà.

 

Tutti, a turno, abbiamo trascorso qualche ora sulle panche di legno duro di qualche caserma della polizia. Volevano sapere chi eravamo e come mai ci trovavamo a Roma. Io tenevo sempre in tasca una banconota da cinque mila lire per dimostrare che almeno per un giorno sarei stato capace di nutrirmi…..e poi, il giorno dopo, dicevamo, sarebbe arrivato il fatidico vaglia da casa per permetterci di comprare l’atteso biglietto del ritorno.

Una infelice storia che periodicamente si ripeteva rendendoci l’esistenza impossibile.

Imparavo anche a riconoscere la gente sincera da quella furba, chi avrebbe donato qualcosa e chi nemmeno si sarebbe soffermato a guardarci.

Stavo diventando un esperto dignitoso dell’accattonaggio.

 

L’arte del sapersi proteggere è una pratica da imparare il più presto possibile. Anche se ufficialmente non abbiamo delegato nessuno al rango di nostro Maestro, vi sono però le nostre esperienze che parlano. Esse dovrebbero servire a  proteggerci da noi stessi, dovrebbero darci la forza del discernimento basata sul “già vissuto”, eppure, come si dice……………cadiamo sempre nelle stesse trappole. Sono gli stessi errori a martellarci in testa con la mazza dei sensi di colpa, che poi, puntualmente si presentano tutte le volte che scopriamo che potevamo benissimo, questa volta, non sbagliare.

 

Nel nostro ambiente girava la voce che dalla “forza” bisogna sempre stare lontani. Fidarsi sarebbe stato un disastro, però, quando si decideva di ritornare a casa e non si aveva voglia, né la forza di affrontare il lungo spostamento per il rientro, accettare qualche lieve compromesso con la polizia, non sarebbe stato un male. In tanti, mi ricordo, si fecero “guidare verso casa” dagli aiuti che lo Stato elargiva gratuitamente a chi decidesse il ricongiungimento con la famiglia.

Per molti era diventato addirittura un semplice divertimento.

Ci si consegnava spontaneamente nelle loro mani, si veniva rifocillati, messi a contatto con la famiglia e caricati con un foglio di via tra le mani, su vecchie tradotte militari per rientrare a casa.

Dopo pochi giorni si ripresentavano alla scalinata da eroi, non arrivavano nemmeno a casa. Scendevano prima in qualche stazione e in autostop ripercorrevano la strada verso Roma, o………..come ricordo, anni dopo, mentre vagabondavo ad Amsterdam, qualcuno riuscì a farsi pagare il biglietto di ritorno per poi rivenderlo a metà prezzo e riprendere alla grande l’avventura itinerante della propria coscienza.

Era come un sfida obbligatoria da sostenere per essere accettati nel mondo del vagabondo romano.

 

Più loro ci “perseguitavano”, più aumentava l’unione tra di noi.

Loro ci trattavano con odio e ci consideravano sporchi……noi ci amavamo sempre di più. Sapevamo che in fondo al loro cuore ci invidiavano perché volevano essere come noi……liberi, belli, felici, con tante ragazze intorno.

Godevamo dei nostri odori ed ognuno colorava di sé l’intera comunità.

Sotto il ponte, protetti dal sole e da occhi indiscreti, vi trascorrevamo diverse ore anche di giorno. Ormai si era sparsa la voce che sotto quel ponte si viveva bene senza essere disturbati……………..arrivò, purtroppo anche il momento di abbandonare quella pacchia. Troppa gente vi girava intorno e troppa droga fluiva nelle vene di diversi ragazzi.

La “forza”, dopo appena una settimana, si manifestò in tutta la sua potenza. Arrivarono con camionette e con i manganelli in mano per sloggiarci…….il sogno, quel sogno finì e lo trasferimmo momentaneamente in piazza di Spagna per trovare un'altra soluzione.

Ormai il ponte era il luogo di ritrovo per antonomasia. All’imbrunire ognuno si ritirava in quell’oasi di pace e ci raccontavamo le esperienze del giorno: dove eravamo stati, in quali luoghi la questua era più facile e dove gli sbirri esercitavano con maggiore forza la propria autorità….si parlava di rimpatri e di come farsi gratis un lungo viaggio sfruttando i veicoli dello Stato. Qualcuno ci raccontò di essere stato rimpatriato dall’India proprio da Bombay imbarcato su una nave merci fino in Italia, passando per Gibuti, Mombasa, Capo di Buona Speranza in sud Africa, Lagos, Dakar Canarie e poi Genova in due mesi di stupenda crociera.

Per un vagabondo era come fare un viaggio mistico alla ricerca della propria Mecca come lo è per i musulmani.

Si parlava di queste cose…..e si sognava.

 

 

Un viaggio nell’eternità

Un pensiero nel nulla

Una vita passata

Un mondo immenso

Tutto nasce per rinascere nuovamente dopo la morte

Ma quando ci fermeremo…..!

Quando potremo ricominciare a correre per non fermarci più.

Dipende da noi o dagli altri!!!

Dal potere, dai ricchi…..

L’esistenza che stiamo assaporando dipende dal volere dello Stato.

 

Autonomia vuol dire libertà

libertà vuol dire vivere

vivere vuol dire sentire sé stessi

sentire sé stessi vuol dire amare il mondo, la gente….

Amare vuol dire essere riusciti a scoprire anche la vita degli altri.

 

Non si può vivere sempre allo stesso modo

Bisogna che si cambi

Che si inizi una nuova vita

Diversa

Più viva.

 

E’ difficile cambiare

Ormai siamo scivolati nell’abitudine

 

E’ difficile

dobbiamo riuscire

Sarebbe la morte precoce

Un viaggio!

Dove……………

 

(1981)

 

 

Intanto la “legge”, nel buio della propria infida mente, tramava contro di noi.

Una mattina fummo svegliati a calci da una masnada di sbirri che godevano nel vederci impauriti e indolenziti. Le loro “gentili maniere” segnavano ulteriormente la differenza che vi era tra noi e loro. Dalle potenti zampate che ci scaricavano sulle ossa e dagli strattoni irriverenti con i quali tentavano di farci spostare, emergevano tutte le loro frustrazioni interiori. La loro rabbia repressa la svuotavano  su di noi perché per loro, noi, rappresentavamo l’espressione viva dei loro sogni frenati. Non solo volevano spostarci da quel luogo, ma anche volevano punirci per come eravamo.

Diversi si, ma……come mai felici??!!.....questo non potevano sopportarlo.

Guai a gioire della situazione in cui ci trovavamo…..dovevamo soffrire, stare male, essere per forza tristi  ma, soprattutto, dovevamo nutrire invidia per la vita che conducevano loro. Solo così si sarebbero sentiti appagati e forse avrebbero inveito con meno rabbia sui nostri corpi……la nostra invidia li avrebbe rigenerati.

 

A volte per stare bene o per gratificare la propria persona ed essere certi che ciò che si sta per fare è sinonimo di bellezza, certi uomini hanno bisogno dell’invidia dell’altro.

……………ma noi non li invidiavamo…..forse li commiseravamo, e questo loro non potevano sopportarlo.

 

Di questi contatti così tristi ne ho avuto con le polizie di mezzo mondo.

Da Amsterdam quando i nazionalisti in combutta con la legge ci bruciavano sin dentro i sacchi a pelo a Kopenaghen dentro i parchi durante le retate violente della legge, da Monaco quando venivamo sfrattati con violenza dalle case in costruzione a Montecarlo mentre dormivamo sulla nostra R5 ci siamo visti accecati da fari potenti, svegliati e cacciati via come dei ladri, da Sofia accompagnati fino al confine a Mosca controllati a vista come terroristi……………un intera società coalizzata ad opprimere le persone libere.

Frontiere come bunker, ostili al vagabondo e servili nei confronti del potente. Doganieri corrotti, sadici che ci tastavano con palese soddisfazione mentre cercavano qualcosa che noi non potevamo avere……..volevano semplicemente far sentire la loro “autorità” su di noi e costringerci a sentire il loro “controllo” anche dentro di noi, obbligarci a chinare le teste e la dignità.

Ignoravano che la nostra Libertà è qualcosa che ci vive dentro, e nessun potere sarebbe mai riuscito ad annichilire il senso di  Bellezza e di Sovranità interiore che immanentemente ci rende OVUNQUE E COMUNQUE UOMINI LIBERI. 

 

 

 

 

 

 

 

         

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

          Fummo costretti quindi a sloggiare. Cacciati via come animali rabbiosi, pericolosi per la gente. L’insensibilità della polizia non capiva le nostre esigenze, per loro eravamo solamente dei vagabondi drogati senza una fissa dimora, sporchi, che lordavano la loro città.

Transumammo in massa in Piazza di Spagna. Era l’unica zona che rimaneva ancora libera da retate, quindi sembrava essere più sicura.

Sotto quel ponte la vita era diventata difficile, persino l’acqua sembrava stagnare più a lungo del solito emettendo odori nauseabondi. Noi non ce ne eravamo accorti perché stavamo bene tra di noi, si cantava, si suonava e si sognava. Qualcuno raccontava le proprie avventure, a volte qualcuno al suo rientro portava una borsa di dolci e di bottiglie di vino. Si faceva subito festa e con poco eravamo felici.

Una bella vita.

Ormai il ponte era vecchio, decaduto tra le grinfie dell’abitudinarietà………….e si doveva sloggiare.

 

Grazie sbirri….le vostre retate ci fanno gustare l’ebbrezza della libertà.

Ci spingono al rinnovamento…..e noi ci rinnoviamo.

Ci costringono ad unirci, a stare vicini….e noi ci amiamo.

Ci impongono cambiamenti esistenziali….e noi cambiamo perché siamo liberi.

(1981)

 

In quei giorni a tenerci uniti ci pensò l’Amore.

L’Amore per la vita libera, con zaino in spalla e con i nostri sogni sempre vivi e prossimi, ci tenne compagnia.

Ne avevamo veramente di bisogno.

Nei momenti di sbandamento, in cui si sente l’alito al collo del persecutore, rifugiarsi nell’Amore e ad Esso dedicare tutti gli attimi della giornata, è l’unica salvezza.

Dovevamo trovare un nuovo posto dove dormire sereni durante la notte, e non era facile. In quel periodo l’occidente rigurgitava dalle fogne un nuovo nazional-fascismo intriso di violenza e di odio per i “Diversi”. Gruppi di giovani armati di spranghe di ferro giravano di notte alla ricerca di vagabondi per pestarli e mandarli via dalla loro città

 

Amsterdam senz’altro ne era la capitale.

In una delle mie tante notti trascorsi in quella città, mentre in centinaia dormivamo sotto una galleria nei pressi di piazza Dam, un vagabondo venne bruciato sin dentro il proprio sacco a pelo. Facemmo appena in tempo a tirarlo fuori e trasportarlo in ospedale.

Estate del 1970.

L’odio stava ritornando. Era il frutto represso della ricerca ossessiva di un bello spacciato per buono che non soddisfaceva più.. L’ unica realtà indifesa, pacifista per indole, sulla quale scaricare questo odio…..eravamo noi: i beatnik di piazza Dam.

Noi, secondo loro, sporcavamo il salotto della loro città, noi eravamo gli intrusi, i libertari da bruciare, da prendere a calci…..eravamo noi, non loro, a lanciare immagini negative nel mondo sulla loro città.

Il motto patriottico “Europa pulita” camminava in combutta con la “rivoluzione totale”. A volte entrambi si confondevano negli atti di violenza che sputavano contro chi era dall’altra parte……….e vergognosamente diventavano la stessa cosa caratterizzati dall’odio per il “diverso” e dalla bramosia di prendere il potere per divenire loro stessi persecutori………   di chi non la pensava come loro.

Il potere non smentisce mai la propria natura. Chi lo detiene viene come posseduto da un entità malefica che non vuole altro che “altro” potere……sempre più potere per mantenersi radicati al potere stesso.

 

Sfrattati ma felici ci depositammo sulla nostra scalinata come quei principi che hanno perduto il proprio regno.

Solo qualche ora per raccattare qualche soldo per poter mangiare e poi nuovamente ad immaginarci la vita distesi su quelle scale. Il problema consisteva adesso nel trovare un buon luogo dove dormire…..e non era facile. Eravamo in tanti e tutti controllati e schedati dalla “forza”.

Non sapevo dove andare. La stazione ormai era lontana dalla mia mente, l’unica cosa che rimaneva da fare era sdraiarsi su un gradino di quelle scale e aspettare l’arrivo……della fortuna.

 

In quel periodo la fortuna, almeno da parte mia, non veniva per niente scomodata. Già quel poco che stringevo con il mio corpo era il massimo. Mi sentivo felice sopra ogni cosa. Bastava un angolo ritenuto sicuro dove deporre le mie ossa, ed ero l’Uomo più ricco del mondo.

Per mia propria natura non sono stato mai incline al lamento, ho sempre traghettato la mia esistenza nelle altre sponde sempre con il sorriso sulle labbra e la fiducia nel cuore. Nessuna tempesta ha assunto dentro di me aspetti turbolenti e disastrosi, è stata sempre vissuta con dignità cercando di rispettarla fino in fondo senza trascendere nell’odio o nella violenza per proteggermi.

 

Quei giorni, anche se gravidi di instabilità, li vissi con gioia. Sapevo che ogni momento era un momento di “vagabondaggio” lontano da casa e dalle sicurezze che essa proponeva, quindi ero felice e mi sentivo sempre in viaggio.

Per due notti ci assiepammo a Trinità dei Monti, anche se fino a notte fonda difficilmente si riusciva a prendere sonno. Il caldo estivo richiamava schiere di turisti per buona parte della notte, altri vagabondi confusi si affiancavano a noi sperando di trovare un po’ di calore e poi vi era sempre la “legge” che non smetteva mai di “proteggerci” con i loro sguardi. Addirittura in quel periodo avevano installato sugli alti palazzi di fronte la scalinata delle video camere, collegate con le sedi centrali 24 ore al giorno, per controllare i movimenti di tutti coloro che vi bivaccavano.

Erano così cari i nostri poliziotti che non ci lasciavano mai da soli, nemmeno di notte. La nostra incolumità li assillava. Volevano essere loro per primi a prenderci con le mani nel sacco….non so con quale refurtiva….che quasi quasi avrebbero essi stessi messo in un angolino un po’ di droga per poi usarla come grimaldello per scardinare la nostra “onorabilità”.

Eravamo a conoscenza dell’Amore sadico che sentivano per noi, e noi, in un certo senso, cercavamo di dilettarli a tutte le ore inscenando davanti i loro obbiettivi pantomime esilaranti.

Scene di lussuriosi rapporti sessuali per stimolare la loro fantasia, scene di lotte furibonde per eccitare i loro istinti, gesticolavamo senza senso pur di tenere i loro sguardi impegnati su di noi. Non scordavamo mai di dargli la buonanotte, prima di abbandonarci tra le braccia di un sonno liberatore.

Stranamente quelle due notti non successe niente di strano, anche se ci arrivavano continue voci di attacchi fascisti a gruppi di barboni o di beatnik durante le ore notturne. Agivano al buio ed usavano il fuoco come arma………….infami.

Non mi sono stancato mai di ripeterlo nella mia mente.

 

 

 

 

 

 

          L’alba tra i palazzi romani non si vede.

Si sente nell’aria solo un leggero bagliore rossastro che sembra tingere di rosso rosa le facce della gente.

 

 

La lunga notte ha sublimato le visioni scontate del giorno.

I colori vivaci, dal tepore caldo dei giochi d’ombra che crea il sole, s’incupiscono divenendo blandi e piatti.

Le corse frettolose della gente si assiepano tragicamente in un letto.

I canti degli uccelli diventano lugubri e silenziosi.

La gente aperta si chiude, diffida e fugge il rapporto diretto col prossimo.

Ciò che di giorno è normale, di notte diventa irreale, misterioso……

 

Una donna sola di giorno rientra nella normalità……

…..di notte diventa civettuola, prostituta, facile preda.

Un cane di giorno non fa paura….ma di notte insospettisce la nostra sicurezza.

I locali aperti diventano centri di incontri fugaci e……..

……la strada illuminata e sicura di giorno, la notte la rende diffidente e triste….

…….e noi, milioni di vagabondi, diventiamo guardinghi, rinserriamo le schiene per farci coraggio……..e chiudiamo gli occhi al mondo per osservarci dentro.

(1981)

 

Per un Vagabondo affrontare la notte è un’incognita.

Anche se vive l’intero giorno chiuso nel proprio buio, la notte è qualcosa che arriva da lontano e non sa come gestirla. Porta poca luce e non riesce ad illuminare il buio dell’anima, anche se a volte la Luna tenta di squarciare questa coltre di oscurità e le Stelle tentano, in armonia,  di affievolirne le tenebre……..difficilmente il Vagabondo si presta a questa fonte di luce esterna.

Lui vive di luce propria, riflessa dentro di Sé, che illumina, a sprazzi, ciò che gli interessa rischiarare in quel momento.

 

Quelle due notti sulla scalinata sognai ad occhi aperti……………vedevo luoghi lontani, deserti e montagne cariche di neve, sognavo rumorose città orientali e prodigiosi spostamenti su fatiscenti autobus. Osservavo con distacco la mia vita sulla Strada mentre si affiancava al camminare del Mondo, in punta di piedi…….pensavo ai miei fratelli Vagabondi d’America, sprangati dalla polizia in qualche stato puritano dell’est, al freddo che sentivano e al calore che si trasmettevano rinserrati su qualche vagone ferroviario………..

 

Quella notte ero l’unico essere esistente sulla Terra.

Dove era finito l’Uomo!!!

In quella scalinata mi aggrappavo a me stesso per fugare la paura, volevo salvarmi dalla distruzione…………..e mi abbracciavo.

Non ero io a fuggire dal Mondo, erano gli altri che fuggivano da me.

La mia Sicilia, le mie certezze, in quelle notti mi turbinavano dentro. Pensavo agli amici, all’Amore che ci scambiavamo…..se era sincero o se era un semplice rito da recitare per mantenere alto il gradimento di una morale borghese.

 

Intanto mi trovavo a Roma a vivere la mia avventura e a toccare con tutto il mio corpo il mio sogno. Scivolavo nella notte senza aspettare il giorno. Sapevo che sarebbe arrivata la luce da fuori e che si sarebbe aggiunta alla mia luminosità, sapevo anche che la mia luce sarebbe servita solo a me, difficilmente avrebbe scardinato la patina di buio che avvolge la società.

 

 

Desiderando di correre…

…non sento altro che la corsa.

La libertà raggiunta….si ferma e si annulla.

 

Desiderando di contino…

…mi sento vivere.

Non si può essere se non si desidera.

 

Desiderando qualcosa…

…diventa inutile quando la si possiede.

E’ bello conoscere…e mai poter sapere.

(1981)

 

 

La pace della notte dà sempre buoni consigli. La mattina seguente, infatti, in tanti si trovavano già lontani da quel luogo. Non si sa come e perché, ma, appena il sole inizia ad alzarsi, si è già con lo zaino in spalla a ciondolare verso altre mete.

Questo ricambio avveniva continuamente, e regolarmente la nostra piazza si colorava sempre di nuovi elementi.

La caratteristica di un luogo non viene segnata solo dalle opere artistiche che vi risiedono stabilmente, ma è questo continuo ricambio di gente e di energie che dipinge sempre di nuovo la sua Bellezza. Un negozio di fiori inebria di olezzi delicati l’intera piazza, un ragazzo in un angolo, mentre esegue la propria musica, colma di delicata armonia l’atmosfera del luogo.

 

Tutto ciò che scorre alla fine lascia sempre qualcosa di sé.

Colora di infinite sensazioni l’attimo e da quell’attimo esplode l’Assoluto.

Senza di Esso nulla esiste……grazie ad Esso il divenire rimane Assoluto.

Non fugge via come sembra……………

 

Gli zaini accatastati in un angolo coloravano di mondo la scalinata. Ognuno conteneva una vita. Portavano speranze, sogni, sofferenze, felicità, amori……rabbia, tristezza, delusioni, amarezze……zaini intrepidi, muti testimoni di avventure estreme, folgoranti, pesanti e nostalgici………zaini pieni di cianfrusaglie, di storie personali, di impavide avventure lungo le strade…………..

Ancora non possedevo un mio zaino. Avevo acquistato solo qualche indumento intimo in una bancarella e nient’altro. La leggera coperta, raccattata sotto il ponte, la tenevo al sicuro dentro una busta di plastica che accuratamente durante il giorno nascondevo aldilà di un muretto. Ancora usavo strati di cartone per isolarmi dal freddo e non pensavo affatto di cambiare la mia condizione.

L’igiene intima trascendeva le normali regole sociali. Usavo l’acqua di giorno per rinfrescarmi il viso e di notte ci immergevamo nelle sontuose vasche romane per sciacquarci le parti nascoste.

Non pensavo ancora al rientro a casa, tenevo già Firenze stampata nel mio cuore come la prossima meta da dove arrivavano notizie di piazze brulicanti di Beatnik e di Vagabondi.

L’alluvione del ’66 aveva creato un clima così caldo di solidarietà che sembrava vivere in una Comune allargata. Mi raccontavano che il vagabondo veniva accolto con grande apertura mentale e racimolare qualcosa per mangiare era molto facile e poi la polizia era molto tollerante……….bastava solo rimettermi sulla Strada per dare piedi a quest’altro sogno.

La Strada era sempre lì, mi aspettava e non rischiava di annoiarsi durante l’attesa. Dovevo prendere solamente la decisione………

 

 

……..la Strada!!........cambia continuamente.

Il colore emergente è il grigio scuro, a volte si colora di grigio chiaro, altre volte assume il colore della sabbia…..diventa persino bianca, una lunga striscia di ghiaccio, poi diventa color fango….ma è sempre la Strada.

Viene usata da tutti per spostarsi………….

………………per noi vagabondi è UN MIRACOLO.

L’amiamo come nessun altra cosa e combattiamo contro quel potere che cerca di limitarne su di Essa il libero movimento.

Le barriere non bloccano il Vagabondo, Lo rendono triste..….limitato.

Le frontiere non sanciscono nulla.

Lui è Libero…..ovunque.

Anche se viene bloccato…..riprende la Strada di prima, ed è sempre in cammino.

 

 

L’alba tra i palazzi romani tinge di rosso solo i tetti delle più alte costruzioni. Le piazze e dopo le viuzze vivono questo rossore solo di riflesso. Non riescono a colorarsi pienamente, aspettano più luce per brillare di luce propria.

 

 

Un Vagabondo non chiude mai gli occhi.

Assiste inebetito al travaso della luce nel buio e del buio nella luce…distaccato.

Un distacco contemplativo…….mistico.

 

Un Vagabondo non aspetta la luce….e nemmeno il buio.

………….vive semplicemente.

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

          Quelle due notti mi servirono da base di lancio.

Conobbi due “grandi anime” che mi custodirono, mi nutrirono e mi istruirono per l’intero mio soggiorno a Roma.

Quando, tempo dopo, scomparirono perché risucchiati dalla “legge”, soffrii moltissimo. Non rimasi nemmeno un giorno in più in quella città e ripresi a vagabondare partendo per Firenze.

Furono agguantati mentre facevano le loro abluzioni mattutine in una delle antiche fontane romane, messi dentro e puniti per aver infranto la legge.

Quei due miei primi Maestri erano entrati nella mia vita come un fulmine, stravolgendomi dentro e sollevandomi fisicamente a rango di “vero Vagabondo”.

Franco era di Milano e Mario di Genova, due vagabondi prodigiosi nel vagabondare e affascinanti per il modo come affrontavano la giornata.

Per intere settimane rifocillarono  tutti i vagabondi di Piazza di Spagna.

 

Il sole era già alto quando, da sotto diversi strati di cartone, sprizzarono allo scoperto le mani e i piedi di un corpo raggomitolato su se stesso. Cercava di liberarsi  dal freddo della notte stirando le membra e lanciando nell’etere sonore imprecazioni, tipiche manifestazioni di un polentone milanese disturbato nel meglio del sonno.

Nella bestemmia Franco esprimeva tutto sé stesso. A parte le tante qualità che possedeva, nel nostro mondo divenne famoso per l’intensità e la potenza con la quale riempiva l’etere con le sue bestemmie. Le recitava come fossero un mantra, e dagli alti e bassi dei toni, di volta in volta, trascinava sulla terra le divinità corrispondenti verso le quali le indirizzava.

Un grande bestemmiatore, forse per abitudine o forse perché sentiva il bisogno di avere un interlocutore continuo disposto ad ascoltarlo in ogni momento della giornata……fatto sta che, nella nostra piazza, non passava un minuto senza sentire risuonare l’eco di qualche sua imprecazione.

Era un relitto della contestazione studentesca milanese ancora in stato nascente. Da subito si era posto in posizione critica perché aveva intuito l’interesse morboso che nutrivano su di esso i vari partiti della sinistra………abbandonando tutto e scendendo giù a Roma a vivere la Sua lunga esperienza di Vagabondaggio.

 

Da qualche mese si muoveva in questo mondo ed era diventato, suo malgrado, uno dei più famosi vagabondi di Piazza di Spagna.

Decideva ed agiva da leader. Personaggio di grande cultura, incline all’ironia e con un cuore immenso. Sempre pronto a difendere il più debole e a mettersi in prima linea quando ci si doveva confrontare con la polizia. Questo Suo carattere gli costò diversi giorni di gattabuia fino a quando, improvvisamente, non si seppe più nulla di Lui.

Non soffriva gli sguardi pietosi della gente. E’ stata una sua scelta vivere quest’avventura e nessuno doveva commiserarlo per come al momento viveva.

Per la grande Dignità con la quale chiedeva denaro incuteva timore e la gente si sentiva obbligata a darGli qualcosa. I suoi atteggiamenti così sicuri e liberi mettevano in imbarazzo. Non sembrava un “vagabondo”, sembrava più un intellettuale con i suoi occhialini rotondi pronto a fare una lezione sulla “vita da vagabondo”.  

Per diversi giorni dipesi da Lui. Non voleva che andassi a chiedere denaro, pensava  a tutto Lui.

Vi era anche Mario, genovese dalla statura immensa, che insieme formavano una coppia insostenibile. Quando si spostavano insieme la questua era assicurata e abbondante. Divenni il loro pupillo. Avevano qualche anno più di me, ma dimostravano esperienze innumerevoli e capacità eccezionali.

Spesse notte uscivano da soli per poi rientrare alle prime luci dell’alba. Nessuno sapeva cosa facessero e dove fossero stati……..ritornavano sempre carichi di soldi e con scatole piene di dolci.

Seppi anche di concitate corse con la polizia e di lunghe ore distesi sotto le macchine per non farsi notare. Verso la fine della mia avventura romana, prima che scomparissero del tutto, mi parlarono di piccoli furti in tabaccherie dove entrare furtivamente in piena notte era un gioco da ragazzi.

Alla fine tentai di aggregarmi a loro perchè mi sentivo di peso, però non vollero mai. Vollero tenermi sempre in disparte da quelle acrobazie notturne.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

          

 

 

          Mentre si strofinava gli occhi con una mano, con l’altra cercava di prendere da dentro le scarpe gli occhiali. Non vedeva ad un palmo dal naso, senza di essi non riusciva a spostarsi nemmeno di un metro.

-         Di dove sei!!! mi chiese,

-         Siciliano

Simultaneamente la mia timidezza mi coprì il viso di quel solito rossore che già conoscevo.

-         E tu!!

-         Milano…..andiamo a prendere un latte!

Scosse gli ultimi strati di cartone che lo coprivano e prese nuovamente possesso di quella scalinata.

-         Aspetta un momento quando vedo se posso recuperare qualche lira, risposi.

-         Non ci pensare…..ho piene le tasche di spiccioli e possiamo benissimo usarli.

Qualche gradino e subito ci trovammo al bar a consumare una sontuosa colazione.

-         Da molto che stai a Roma!

-         Lo sai……….come ti chiami!

-         Nuccio.

-         Lo sai Nuccio, chiedimi qualunque cosa, ma non chiedermi mai da quanto tempo mi trovo in un posto. Non riesco a rispondere liberamente sul tempo trascorso, e poi…..è meglio non ricordarsi da quanto tempo si è liberi. Quel poco spazio di libertà che abbiamo non ci è stato regalato da nessuno, abbiamo sicuramente, ognuno, sofferto e lottato per ottenerlo.

Chiedimi chi sono, se sono vivo, se amo, se mi sento me stesso…..

-         Come mai ancora non hai trovato un luogo migliore in cui dormire?

-         Vedrai stasera di quanta estrosità sono fatti i vagabondi. Per noi non esiste ostacolo. Al momento, se lo vogliamo, siamo capaci di andare oltre qualunque ostacolo. Riempiamo completamente il momento presente e da esso traiamo quel bello che altri non vedono. Altri momenti invece ci abbandoniamo rovinosamente in una apatia imbelle priva di alcuna reazione…..un vagabondo è anche questo.

-         Ti credo………..come ti chiami!

-         Francesco………..ma chiamami Franco.

-         Hai ragione Franco, lamentarci di ciò che abbiamo al momento è come rinnegare le scelte che noi stessi abbiamo fatto………

-         Ma che cazzo dici……perché non dovrei lamentarmi della mia situazione quando al momento mi trovo con tutte le ossa rotte! Io mi lamento, protesto…le mie ossa gridano dolore, la mia rabbia strilla, però, tu giustamente dici….ma se l’abbiamo voluta noi questa situazione!! Si…si, però è una situazione coatta, indotta da uno stato di fatto infelice che viviamo in questa società  liberticida…….

 

L’energica personalità di Franco da quelle poche parole iniziava già a scandirsi con netta definizione emergendo su tutti gli altri. Prometteva notti comode su caldi materassi in gommapiuma. Speravamo in Lui per spostarci da quel luogo pieno di insidie e di tristi presagi, in uno spazio più protetto e più caldo.

Gli altri stavano per svegliarsi proprio in quei momenti. Dai loro stiracchiamenti e dal gonfiore del loro visi, si intuiva come avevano trascorso la notte. Qualcuno ritardava più degli altri prima di rimettersi in piedi, era stanco o non aveva ancora alcuna prospettiva definita nella mente sulla giornata che stava per iniziare. Non volevano assolutamente scostarsi, intanto gli spazzini comunali, come tutte le mattine, non solo spazzavano dal lerciume quella scalinata, ma la inondavano con un getto d’acqua violento in modo da togliere il grasso che vi si era depositato il giorno prima. Dovevamo per forza spostarci da quel luogo, almeno per qualche ora.

 

-         Cosa fai oggi!?

-         Preferisco rintanarmi in questa scalinata perché non ho voglia di girare tra i palazzi romani. Non riescono a stimolarmi nulla. Sono solo fredde sculture in cemento dove vi si rifugia l’Uomo illudendosi che tra quelle quattro mura un giorno, forse, ritroverà sé stesso e parte della Libertà perduta…………….ma tu sai che è solo un sogno. Sai che la Libertà non è qualcosa da cercare o da ritrovare, sai che nel continuo cercare difficilmente trovi ciò che veramente desideri…sono le solite frasi ad effetto che abbiamo imparato a memoria e che non portano a nulla. La Libertà, caro Nuccio, non la si deve cercare perché in questo modo legittimi il Suo diretto contrario, la Libertà si vive…….si gusta e ci si perde dentro il momento presente, perché è li che Essa risiede.

-         ……….allora non senti proprio il bisogno di conoscer qualcosa di Roma? Vi dormiamo da diversi giorni ma ancora non conosciamo nulla….nemmeno il Vaticano….

-         Quel luogo è meglio non conoscerlo, anzi più lontani vi stiamo e meglio è. Vi risiede il Papa e tutte le Sue ricchezze. Vi si muovono intorno suadenti arpie che con i loro canti cercano di imbrigliare le libere Coscienze della gente……..è meglio sognare altri siti in cui soffermarsi per fare il turista.

-         …………e quella felicità celeste che offre indistintamente a tutti………basta essere moralmente bigotti e socialmente altolocati?!

-         ………non ne ho proprio bisogno. Sto bene così.

 

 Il decadere dei discorsi ci spingeva istintivamente ad alzarci. Volevamo interromperli subito perché sapevamo a priori verso quale malessere interiore ci avrebbero spinti.

Eravamo andati tutti via da casa con rabbia, con un forte sdegno verso questa società……..nel tempo però, questa collera rabbiosa, a contatto con la nostra nuova condizione, lentamente stava divenendo amarezza, senso di apatia cosciente che tende più al rifiuto che all’accettazione. Sentivo qualcosa avanzarmi dentro, spingermi all’emarginazione, ad escludermi coscientemente da quella società così farisea e fortemente razzista. Già sin d’allora ero consapevole che un mio allontanamento da questo mondo avrebbe contribuito, seppure indirettamente, al mantenimento delle sue sozzure. Li avrei sostenute pur non condividendole e allevate dentro di me fino ad esplodermi dentro………………era quello il mondo in cui vivevo, ed era lì che dovevo apportare il cambiamento, la rinascita, e non potevo allontanarmi per contestarlo da fuori.

 

-         Lo sai Franco che hai ragione!! Smettiamo di parlare di queste stupidaggini e diamo conto al nostro stomaco che inizia a borbottare……  

-         ….dividiamoci per mezz’ora lungo le strade per racimolare qualcosa per mangiare e mandiamo a quel paese questi nostalgici pensieri.

 

Chiedere qualcosa mi era diventata, in quel periodo, un azione congeniale. Mi sentivo felice di farlo perchè sapevo che grazie a quell’azione si sarebbe prolungata la mia permanenza in quella piazza.

Osservando gli altri e ammirando la mia intraprendenza nell’accattonaggio, affinai nel tempo delle tecniche particolari da impiegare, sempre in modo diverso, ogni qual volta si presentava un soggetto nuovo.

L’esperienza in quest’arte, nella storia dell’Uomo, ha permesso a milioni di beatnik o di viandanti di “vivere il Mondo” senza fermarsi di fronte a nessun ostacolo. La diversità dei vagabondi, la loro Conoscenza, la loro sensibilità e l’Amore che hanno per se stessi ha dato più o meno lustro a quest’arte.

Viverla con Dignità ne gratifica l’essenza  e la rende decorosa di fronte alla propria coscienza.

L’arte si ingentilisce quando la si vive intensamente, non come un semplice gesto dal quale si vuole ricavare qualcosa, ma come un esigenza dell’anima che coinvolge l’intero corpo.

Cercai di personalizzarmi un mio metodo, ed in effetti i risultati furono più che soddisfacenti. Non mi fermavo di fronte a nessuno. Li consideravo miei potenziali clienti dai quali trarre il mio sostentamento. Ancora prima di avvicinarmi, dentro di me, li ringraziavo e li abbracciavo a prescindere. Sapevo che quell’atteggiamento interiore mi avrebbe facilitato l’operazione. Vedevo il mio cliente non come un pollo da spennare ma una cara persona da ringraziare, oltretutto, per essersi messo sulla mia strada.

 

Credere al “caso” fortuito, capitato lì per miracolo, già fin d’allora sentivo una certa avversione. Non mi abbandonavo liberamente a quel concetto superficiale che raggruppava molti degli eventi della vita sotto l’emblema della casualità. Pensavo ad un programma, ad un cammino costruito da tempo dove i partecipanti principali ed esclusivi saremmo stati noi. Noi che inter agiamo con l’intero Mondo………Noi che già abbiamo implicito il percorso  sul quale camminare per ritornare nel luogo dal quale siamo partiti……….Noi che non ci siamo mai impediti di camminare ed illusoriamente crediamo che forse un giorno arriveremo, senza sapere che già la meta ci vive accanto da tempo.

 

Prima di partire alla carica osservavo il viso dei miei potenziali sostenitori………se era meravigliato, infastidito, annoiato, pietoso, sprezzante, gioioso, amorevole…….quante più sensazioni gli leggevo nel suo corpo e meglio era per me. Sarei andato a colpo sicuro adottando la strategia giusta.

Ad Amsterdam, solo due anni dopo, stavamo seduti in tre in piazza Dam dietro ad un cartello trilingue, italiano, francese e inglese, dove vi era scritto che eravamo semplici studenti in giro per l’Europa. Con noi vi era un tedesco con il suo flauto a deliziare la curiosità del passante e, miracolosamente, una pioggia di denaro scendeva ai nostri piedi. Tempi gloriosi.

 

Col tempo su quella scalinata l’arte del chiedere subiva continui ritocchi. Ognuno apportava miglioramenti  funzionali alle proprie esperienze.

Si scrutava “l’oggetto” animato che si doveva abbordare e si cercava di rubargli una fugace occhiata. Quel breve incrocio di sguardi smorzava le ritrosie interiori e come per incanto, allungando la mano, ottenevi sempre qualcosa. Con quelli invece che non si riusciva ad intercettare lo sguardo, difficilmente si otteneva qualcosa, a quel punto era meglio rinunciare.    

Tutto questo travaso di sguardi e di sensazioni avveniva in pochi secondi.

Ognuno di noi si era preparato nella propria mente, in relazione al personaggio da abbordare, dei piani d’attacco…………..ed era veramente una pacchia.

 

Se era giovane e un po’ beat bastava avvicinarlo con un semplice “ciao”, dargli il “tu” per trasmettergli la nostra “vicinanza”, e quasi sempre si riusciva nell’intento.

Se era giovane e un po’ borghese….avvicinarlo sempre con il solito “ciao” dandogli il solito “tu” seguito dalla fatidica parolina “per piacere” in modo che permane la vicinanza però rimane anche un po’ di distacco per fargli sentire la nostra inferiorità…..risultato quasi sempre assicurato. Costoro si sentono gli unici preordinati capaci di stimolare il cambiamento della società, a noi bastava allora farglielo credere e tutto era fatto.

Se era una giovane signora di belle avvenenze…..mi scusi potrebbe darmi qualcosa!! Il risultato dipendeva dall’intensità e dal modo come si guardava negli occhi. Avevano bisogno di “riconoscimenti”, e noi con i nostri sguardi di apprezzamento stimolavamo queste sensazioni.

Se era una vecchietta un po’ trascurata…….signora mi scusi, può darmi qualcosa…è da tanto che non mangio ed ho tanta fame. Risultato assicurato.

Se era un uomo di mezza età bisognava avvicinarlo invece quando era con la famiglia…….mi scusi, potrebbe aiutarmi in questa mia avventura!!?

 

Tecniche approntate sul momento ma efficacissime. Bastava renderle elastiche e praticamente l’effetto desiderato era assicurato………..e poi vi era sempre l’attrazione personale ad attrarre l’attenzione del passante. Bastava strimpellare qualcosa su uno strumento musicale, bastava leggere a voce alta la Divina Commedia, bastava mimare qualche scenetta senza senso, bastava raccogliere bottiglie di vetro abbandonate e portarle in salumeria………ad Amsterdam vivemmo diverse settimane raccogliendo e rubando da dentro i bar qualunque contenitore di vetro……….allora chiedere sussidi alle ambasciate italiane all’estero era molto di moda e nessuno dei vagabondi incontrati aveva rinunciato a questa fonte di sopravvivenza sicura. Lo feci a Rawalpindi, a Kabul, a Bombay e a New Delhi, a Malta, a Tunisi e in Polonia……

Qualcuno andava anche a chiedere sussidi nelle ambasciate straniere e quasi sempre vi riusciva, si cercavano cantieri di lavoro italiani all’estero per avvicinarli e chiedere un aiuto. A Tunisi mi avvicinai in un circo equestre italiano e ottenni qualche aiuto……era sempre il desiderio di andare avanti, di calpestare questa nostra Terra a farci immaginare una vita serena, libera e piena di cose belle.

 

Un mio grande amico e Maestro di vagabondaggio, Attilio Angelo Aleotti, mi istruì a Monaco, nel 1971, sull’arte del mangiare deambulando.

Entri in un super mercato, con dignità prendi un quadratino di cioccolato e lo sciogli in bocca…….una banana, la sbucci, e la gusti con il sorriso sulle labbra…….un formaggino della “vacca che ride”, lo scarti e con delicatezza lo ingerisci……un panino e lo mastichi con distacco…..alla fine apri una bottiglia di acqua frizzante, o un birra, e la fai scendere con gioia lungo il palato. Una degustazione “itinerante” non può essere punita, al massimo possono gentilmente consigliarci di uscire fuori……..e noi lo facevamo con passi sicuri e dignitosi.

In un Suo libro, discusso come tesi durante la laurea, Attilio asseriva che anche i medici consigliano di mangiare in movimento. E’ l’unica terapia che stimola la digestione e  permette, se lo si vuole, di risparmiare un mare di soldi.

Nel ’70 a Mons, con Pino Pesce, dopo aver attraversato più di mezza Europa in autostop, ci trovammo in uno di quei capannoni che usano i Testimoni di Geova per rinverdire il loro credo. Siamo stati accolti come quel “figlio prodigo“ che si è smarrito sulla strada del risveglio da sfamare e da aiutare. Erano tutti emigrati italiani quindi ci hanno coccolati con grande gioia e per diversi giorni siamo stati loro ospiti.

 

In quegli anni gloriosi la questua per sopravvivere era veramente un itinerario sul quale camminare a testa alta. L’unica possibilità che avevamo per viaggiare e per conoscere il nostro Pianeta era l’incedere su questa strada ovunque ci trovavamo.

La mia famiglia non poteva sostenermi economicamente in queste avventure, bisognava inventarsi qualcosa, essere intraprendenti e “faccia tosta”, come si dice da noi. Io, per natura e per via della mia balbuzie, difficilmente mi abbandonavo a comportamenti da “faccia tosta”, eppure pur di  vagabondare strattonavo la mia Coscienza assoggettandola alle esigenze del momento.

Non perdevo occasione per “appropriarmi giustamente” di qualcosa di solido che sarebbe servito al mio sostentamento. Qualche volta dormimmo in ostelli senza pagare, dando generalità fasulle, salendo su autobus o su treni senza biglietto, sfruttando qualunque mezzo di comunicazione aleatorio pur di non pagare….in Perù, e in buona parte del Sud  America, ci siamo spacciati per studenti mostrando attestati universitari scaduti da anni, anche in oriente, specialmente in India, abbiamo avuto accesso in musei o su aerei esibendo tessere per studenti fuori corso…….insomma una vita continua alla ricerca di risparmiare qualche somma di denaro pur di continuare la nostra avventura.

Orgogliosi lo siamo sicuramente.

Mi sento felice di aver viaggiato in questo modo, e se posso ancora oggi continuo a farlo, soprattutto quando si tratta di sfruttare l’assurda presenza del potere. La sua prepotenza è irrispettosa, non guarda in faccia nessuno, specialmente quando sa di aver da fare con individui deboli, indifesi, affina le proprie armi e la sua forza diventa veramente opprimente e devastante. Solo col   potente di turno, il prepotente occasionale si ridimensiona un po’, ma solamente perché ha capito che grazie a quel potente l’essenza stessa del “potere” trova legittimazione e continuità.

 

Ci rivediamo dopo un ora sulla scalinata e pervasi da una gioia interiore ci avviamo a tramutare quel “vile denaro” in cibo per il Corpo e per lo Spirito.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           Intanto il trascorrere del tempo cadenzava la mia permanenza a Roma.

Non avevo notizie dei miei genitori  da giorni, e loro, sicuramente, soffrivano per questo mio silenzio. A volte mi ritmava nella mente lo scandire dei passi nella piazza del mio paese. Sentivo quelli di mio padre, possenti e autoritari mentre aspettava l’arrivo   del prossimo autobus sperando di vedermi scendere.

Ero cresciuto nella piazza, in essa avevo vissuto momenti di gloria e momenti di tristezza. Essa rullava tutto ciò che le si metteva contro, emetteva un proprio suono fatto di falsi moralismi e di poteri consolidati nel tempo. Vi erano tutte le sedi dei partiti politici, le varie associazioni rionali, lì si fermava il fercolo con la Santa da festeggiare con accanto il prete e i potenti del paese……..la piazza non lasciava spazio al “diverso”, lo rimbrottava con urli grondanti di un gretto conservatorismo o lo confondeva con un silenzio tonante.

 

Il vociare del paese è molto assordante, specialmente rimbomba con più rumore nelle orecchie e nella psiche  di chi a queste voci da un importanza vitale. Mio padre era uno di questi. Non riusciva a liberarsi da questa cappa opprimente.

“La piazza è il polso del paese, diceva, essa crea mostri o santi con grande superficialità…….dobbiamo vivere in silenzio senza andare oltre quel “già consolidato” e accettare le regole senza protestare in modo da rimanere a distanza dai giudizi della piazza”.

 

Quella sera Franco mantenne la promessa. Ci condusse tutti nel luogo vagheggiato dove poter dormire in comodi letti sicuri e caldi. Si doveva solamente percorrere qualche chilometro di strada, ma era tutto così bello, ovattato, odorava addirittura di casa, che rinunciarvi era da incoscienti, difatti vi dormimmo per più di una settimana, fino a quando la solita polizia non venne a cacciarci via.

Era il luogo dove venivano depositati i treni in disuso o in via di manutenzione. Le carrozze erano veramente tante ed in parte erano già occupate da altri vagabondi, noi eravamo gli ultimi arrivati, ma non ci scoraggiammo perché ci siamo subito sentiti a casa. Mancava solo la luce e l’acqua corrente, il resto sembrava disposto tutto per noi. Ci stavano aspettando comodi letti viaggianti, due per stanza, pronti ad accoglierci e dondolarci con quel senso di movimento connaturato in un vagone ferroviario.

Mi ricordo che sognai quasi tutte le notti.

Ad occhi aperti ammiravo l’andirivieni di paesaggi affascinanti, cullato dallo sferragliare di un treno che sapevo mi stava portando lontano.

Chilometri e chilometri di spazi vuoti venivano bucati dal mio treno e man mano che li attraversava li riempiva e li colorava dei luoghi verso i quali sognavo di andare. Un viaggio da sballo tra interi branchi di Hobos assetati di Libertà, avvinghiati agli assali dei treni che rischiavano la vita pur di vivere all’aria pulita.

Un sogno itinerante, che trascinava e disintegrava interi agglomerati di emozioni accatastate dentro di me         che non mi lasciavano respirare.

 

Ci guardammo intorno, emozionati e felici del bel regalo che ci aveva fatto Franco.

Entravamo da una fessura praticata nel muro di recinzione. Qualcuno prima di noi aveva provveduto ad allargarla e a mimetizzarla con pezzi di mattoni amovibili. Guardinghi scivolavamo dentro e con passi felpati da pantera rosa, tutte le sere, sceglievamo ognuno il proprio vagone per prendere possesso delle proprie stanze.

 

-         Franco…come hai scovato questo posto!

-         Fregatene, dormi, sballati e non pensare a nulla. Ringrazia la fortuna e vivi intensamente il momento presente.

 

Aveva come sempre ragione e nelle sue parole trovavamo tanta saggezza.

A differenza dei mitici Hobos americani tanto decantati nel libro di Jack London “La strada” che vivevano pericolosamente sui treni la loro vita, noi, grazie alla nostra buona stella, usavamo quegli stessi treni per riposarci e per vivere favolosi viaggi virtuali.

Non cercavano comodità, per Essi l’importante era “muoversi” e sentire l’ebbrezza del vento sul proprio corpo.

 

 

Ubriacarsi di piacere, di sottigliezze incantate………

inebriarsi di esili passioni represse, di impalpabili certezze…….

stregati dal sorriso di un cuore rinato, di sicurezze espugnate……………

volevano semplicemente essere lasciati in pace di vivere la loro vita, anche nelle situazioni estreme, di grande instabilità……….

volevano Pace.

 

Correre col vento raggelante della notte

Correre col caldo asfissiante del deserto

Col pericolo che incombe sulle spalle

Una morte violenta da mazza di sbirro

Una morte sospinta sotto una ruota

(1981)

 

 

Intanto il gruppo di vagabondi con il quale mi ritrovavo durante la giornata cercava di costruirsi momenti di amicizia in cui condividere esperienze di vagabondaggio e storie di vita personali. Il mondo dal quale provenivo, quello di un piccolo comune siciliano, mi aveva abituato a vivere i rapporti umani, specialmente tra amicizie giovanili, in modo completo. Sconoscevamo la malizia, e la condivisione, anche delle piccole storie sessuali vissute in comune, era veramente la nostra forza.

Mi ricordo quando per giorni interi Franco scompariva. Nessuno si meravigliava e nessuno chiedeva in giro sue notizie. Al suo ritorno sembrava tutto normale, rientrava nel gruppo a riprendere la sua immagine da leader e nessuno gli chiedeva dove fosse stato.

 

L’Amicizia non impone obblighi come non è soggetta a regole da rispettare. E’ nella Libertà che Essa trova la massima espressione. Deve esploderci dentro come un filo d’erba  in un piazzale di cemento quando con Gioia sfrutta la minima crepa per svettarsi verso la Luce.

Quante volte sotto quel ponte un semplice sorriso è servito a riaccendere la speranza…….e quante volte siamo stati felici quando qualcuno decideva di ritornare a casa. Non mi sono mai sentito solo. Nel silenzio intorno ho sempre avvertito un calore rinfrescante.

 

I vagoni che ci ospitavano rimasero fermi per tutto il periodo del nostro soggiorno. Tutte le notti, durante il tragitto, ci fermavamo a comprare delle fette di anguria rosse molto rinfrescanti. A volte ci fermavamo a Piazza della Repubblica per assistere, da lontano, a piccoli concerti organizzati dai gestori dei bar per i propri clienti.

Un momento di quiete in quella Roma così rumorosa.

Prendevamo qualcosa da mangiare di fronte la stazione Termini e spesse volte mi ritrovai da solo ad aspettare l’arrivo di un treno proveniente da Catania, più per nostalgia che per curiosità.

Sentivo la mancanza del mio dialetto. La presenza di un siciliano a Roma a quei tempi era sempre una nota di novità. Ci siamo sempre spostati più per lavoro che per viaggi di piacere. Il continuo bisogno di lavoro ha segnato l’essenza del meridionale, lo ha ricoperto di una patina di nostalgia che difficilmente potrà liberarsene.

 

Invogliavamo gli altri a visitare i nostri alloggi, a sentirsi a casa loro e a ringraziare, una volta tanto, il nostro Stato benefattore.

In poco tempo quel luogo si riempì di vagabondi. La pacchia non durò molto.

Il clamore di felicità che pervase l’intera comunità beatnik fu talmente rumoroso che incuriosì le forze della legge.

Presero informazioni e al momento opportuno ci fecero sloggiare riproponendoci la loro forza e la loro autorità. Stavolta però non fuggimmo, sapevamo che al massimo ci avrebbero preso i connotati sul luogo e poi lasciati andare.

Sfruttammo gli ultimi residui di gioia dato che presto si sarebbe ripresentata la solita fastidiosa ricerca di un nuovo luogo dove dormire.

 

Intanto la vita continuava alla grande.

Ci spostavamo in piccoli gruppi per evitare i pericoli dovuti alle orde dei nazionalisti nostrani che in quel periodo impazzavano per le strade di Roma. Da via Condotti a Piazza Navona o gironzolando verso Fontana Di Trevi, via del Corso verso Montecitorio…..in queste zone   spaziava il nostro raggio d’azione.

 

Una delle esperienze più curiose e per certi versi tristi che mi ricordo ci capitò mentre giravamo per Roma in una delle solite vie invase da turisti, fu l’aver avuto un rapporto ravvicinato con una famiglia di messicani, in particolar modo con la moglie la quale, anziché ammirare le bellezze artistiche della città osservava allibita le fattezze fisiche del nostro Mario. Si spinse con insistenza con i propri occhi verso la cerniera dei suoi pantaloni immaginandosi chissà quale furioso rapporto. Improvvisamente si mise a gridare indicando col dito il basso ventre di Mario, colpita da un grosso rigonfiamento proprio nelle zone dove risiede il pene.

Mario evidentemente in quel preciso istante lo stava stimolando con il pensiero facendolo rigonfiare in misura anormale. Quanto di più naturale possibile.

Il clamore divampò quando l’ingrossamento del membro, grazie ad un paio di pantaloni molto succinti, si manifestò in tutta la sua irruenza anche all’esterno.

Quel rigonfiamento non sfuggì agli occhi assatanati di quella messicana.

Gridava così forte da richiamare l’attenzione della gente e specialmente del marito che, sbigottito anche lui, fece un salto indietro ed indicò anche lui lo spropositato ispessimento del pene di Mario. Un vigile si fece largo tra di noi ed anche lui, incuriosito, ammirò sbigottito l’oggetto del contendere. Non riuscì a trattenersi dal ridere e nello stesso tempo mostrare la faccia seria della legge.

Mario tentò di spiegare che la dilatazione spropositata del pene era dovuta ai pantaloni attillati e alla pressione che esercitavano sul membro………la messicana, nel frattempo, aveva smesso di gridare però rimaneva scossa dal furente giavellotto che ancora sprizzava con prepotenza la propria forza.

Ci allontanammo sconsolati dalla scena e mogi mogi, cercando di nascondere la tristezza che ci era caduta addosso, guadagnammo quanta più distanza possibile da quel luogo.

 

Continuammo a scendere per via Condotti verso piazza Navona in silenzio come se volessimo lavare l’onta subita. Mi ricordo che ci siamo bagnati nella fontana centrale denudandoci completamente. A quell’ora tarda non vi era la legge a controllare e ne libidinosi occhi di messicane assatanate a gridare per la visione dei numerosi  membri italiani che a quell’ora di notte si trastullavano nelle acque della fontana del Nettuno. Scaricammo la nostra amarezza dentro l’acqua, vi sguazzammo in piena consapevolezza inneggiando un inno alla Libertà. Era come mondarsi di una sensazione di sporco che  ricopriva la nostra anima.

Oggi mi viene semplicemente da ridere, ma allora mi sentii molto triste. Qualcuno di noi pianse per la rabbia, altri si racchiusero nel loro mondo suggellando l’incontrovertibile distanza che momento dopo momento ci separava dalla società dei benpensanti.

 

Sui treni intanto aumentavano i clienti e la contestazione si tinteggiava di nuove energie. Ognuna emanava una propria vibrazione e colorava di diversità l’intero convoglio. Passeggeri sprovvisti di biglietti, non paganti, ogni notte abbandonavano il proprio corpo su quelle comode poltrone…..e viaggiavano per il resto della notte.

Qualcuno usciva all’alba per evitare di essere scoperto, altri ci trastullavamo ancora per qualche ora gustandoci l’ebbrezza rinfrescante di quel luogo.

Le notizie sul mondo e sulle ultime contestazioni giovanili circolavano di bocca in bocca. Ognuno portava le proprie novità…..chi ci parlava di grandi colorati raduni beatnik ad Amsterdam a piazza Dam, chi cominciava a sognare l’India e ce la raccontava traendo ispirazione dal sentito dire e dalle aspettative vagheggiate dai suoi sogni, chi ci mostrava Istanbul come porta dell’oriente e come luogo di incontri per scambiarsi sensazioni e visioni vissute lungo le strade dell’oriente, chi, dal viso trasognante, si incantava al pensiero di tirarsi qualche spinello alla marijuana, chi suonava e cantava Joan Baez sognando di cavalcare una contestazione globale, chi ci parlava di luoghi sicuri in cui dormire nei pressi di Villa Borghese………ognuno aveva qualcosa da dire. Anche rimanendo in silenzio la loquacità del messaggio fluiva ininterrottamente…..e tutti crescevamo in bellezza e fortezza.

 

Intanto i giorni trascorrevano serenamente. Avevamo scoperto la questua come mezzo di sussistenza proficuo e sopratutto privo di rischi. Anziché prendere qualche dolce o qualche mela senza pagare, rischiando le ire dl proprietario, preferivamo trascorrere qualche ora lungo via Nazionale, o nei dintorni di Piazza di Spagna, a chiedere qualcosa alla gente. Trovavamo sempre qualcuno disposto a sostenere la nostra avventura e poi, a volte, l’opportunità di incontrare qualcuno con il quale scambiare qualche parola non mancava mai.

L’unica abitudine che rimase in tutti noi era l’idea e il desiderio di fregare, ovunque se ne presentasse l’occasione, il ricco……..colui che con disprezzo e freddezza sfrutta l’ingenuità e i bisogni della povera gente. Ovunque ve ne stesse uno, tentammo quasi sempre di fregarlo, anche se sapevamo che non era facile.

 

Fottere un ricco o un potente non è cosa di tutti i giorni. Sono talmente legati a ciò che possiedono che controllano con mille occhi. Anche se a volte sembrano gentili o condiscendenti, nella loro mente rimane sempre l’intento di rubare all’altro per arricchirsi sempre di più. Triste constatazione, ma purtroppo l’elemento caratterizzante, per costoro, rimane il potere ed esso, sappiamo, può ottenersi esclusivamente possedendo grandi somme di denaro così può comprarsi tutto, anche la Libertà della gente.

 

Questuando qua e là sorvolavo dall’alto la città eterna. Scoprivo l’animo della gente e il respiro di una metropoli. Ogni giorno orde di turisti affamati di conoscenza venivano scaricati dai treni alla stazione Termini. Io trascorrevo, a giorni alterni, ore intere ad assistere a tutto questo frenetico andirivieni.

I treni fischiavano, si arrestavano e improvvisamente le banchine adiacenti si riempivano di moltitudini di corpi felici, stanchi e confusi.

La grande città stava alle porte, il vuoto generato dalla “grandiosità” rimpiccioliva le menti e i sogni dei nuovi arrivati.

Io ammiravo tutto questo e mi sentivo “grande”, ormai padrone della realtà romana. Singoli individui si mischiavano tra il fiume di gente che si riversava in via Nazionale e si sentivano protetti……uno confuso con gli altri.

Li individuavo con facilità. Mi ricordavo i miei primi giorni e la confusa paura che mi strappava il cuore dal petto. Ragazzi indifesi, traboccanti di sogni, con poche risorse in tasca, si lasciavano spingere dal flusso di gente……ciondolando a bocca aperta.

 

Una mattina sentimmo l’odore infestante di due poliziotti mentre defloravano la nostra oasi. Qualcuno aveva parlato tanto e la voce di questo paradiso nel centro di Roma era arrivata alle loro orecchie. Stavano controllando vagone per vagone. Tra poco sarebbero arrivati in quello nostro…..quindi bisognava sloggiare.

L’ennesima fuga ci costrinse a rimetterci nuovamente sulla strada alla ricerca di un nuovo spazio in cui dormire in serenità.

Stavolta trovammo un villa abbandonata proprio nei pressi di villa Borghese, sommersa da alberi secolari e da una fitta vegetazione da dove poteva ammirarsi dall’alto, senza essere visti, la Roma delle chiese e dei tetti fino ad arrivare al cupolone. Stava proprio inserita nel parco del Pincio, proprio sopra piazza del Popolo confusa tra la folta vegetazione che negli anni l’aveva completamente coperta.

Salendo per la scalinata di Piazza di Spagna, proprio sotto la chiesa SS. Trinità dei Monti, girando alla sua sinistra subito dopo qualche decina di metri, bastava saltare il muretto per trovarsi in aperta campagna, fuori dalla confusione e lontano dai rumori assordanti della città.

Un lieve salto e ci si trovava sulla cima di un albero che ci permetteva  l’accesso in un luogo sommerso dal verde dentro il quale si snocciolavano viottoli dall’erba pestata che conducevano alla nostra mitica villa. Vi erano diversi letti in mattoni sui quali avevamo disteso i nostri sacchi a pelo. La grande porta rimaneva sempre aperta, qualcuno l’aveva divelta per venderla in qualche mercatino delle pulci.

Il luogo divenne il centro stanziale per tanti di noi, difatti potevamo tranquillamente rimanere anche di giorno senza il rischio di essere disturbati. Si fumava, si discuteva e si progettavano futuri viaggi in altre piazze d’Europa per incontrare altri vagabondi come noi che vivevano la vita in completa libertà.

Quell’estate romana, tra spinelli sotto i ponti, tra fughe precipitose in concorrenza con la polizia, tra comodi viaggianti letti, tra questue milionarie, sembrava ripagarci  per i fastidi continui che avevamo subito.

Nel fitto della vegetazione rimaneva ancora qualche residuo di furore borghese. Qualche siepe ingentilita da mani esperte, ormai decaduta nell’antico caos vegetale, sembrava svettare sopra tutte le altre forme intricate della natura dove l’identità di una singola pianta si era confusa, o venne soprafatta, con l’irruenza naturale di quel luogo.

Sembrava tutto così intricato, eppure, quell’antico ordine “anarchico” insito nella bellezza della Natura, prendeva sempre più spazio. Nessun intervento dell’Uomo, da anni, in quel luogo, è più entrato a sconvolgerne la Sua armonia. Proprio nel centro di Roma, a cento metri di Piazza di Spagna, di fronte Villa Borghese e a pochi centinaia di metri da via Condotti la Natura si inorgogliva liberamente sprizzando odori e colori senza alcun ritegno. Serviva a deliziare i nostri incontri e ad allietare i nostri lunghi momenti di silenzio.

Una musica Divina si alzava in cielo, e i nostri passi stanchi, attenti, consapevoli di calpestare un suolo misterioso, pieno di storia, spingevano il passo successivo con gentilezza per risvegliarlo alla presenza mentale e all’Armonia di quel luogo.

 

Il luogo si riempiva un giorno dopo l’altro. Non potevamo nasconderlo. La gioia per aver trovato quella lussuosa dimora era incontenibile e non poteva contenersi. Quella nostra improvvisa serenità, risaltava subito agli occhi esperti di un vagabondo.

Non eravamo stanchi e morti di sonno. Tutte le mattine sembravamo essere usciti da una stanza di hotel dove, seppure striminzite, non mancavano le comodità.

Già sin davanti l’uscio una brezza d’aria romana ci accarezzava l’intero corpo. Qualcuno, mi ricordo, usciva completamente nudo e si stiracchiava alla luce prodotta dal sole che, solamente in tarda mattinata, poteva riscaldarci con i suoi raggi. Uscivamo alla chetichella, specialmente quando dovevamo salire sull’albero per saltare sul muretto adiacente la strada. La legge era sempre in agguato e noi in quegli anni, eravamo le loro prede predilette.

Scendevamo dalla scalinata per andarci a lavare alla “barcaccia” e poi subito al bar per consumare il primo cappuccino della giornata. Una buona colazione seguita da una liberatoria pulizia degli intestini e poi……piano piano, senza dare nell’occhio, rientravamo nelle nostre stanze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         

 

 

          Roma non è diversa da tutte le altri grandi città del mondo. Sa come accogliere il vagabondo, ma sa anche come sfrattarlo.

In quei pochi luoghi dove ci incontravamo Roma era ormai abituata alla nostra presenza, cercava di non interferire nella nostra vita. Solo quando Roma, in un attimo di orgoglio nazionale, si sentiva “capitale”   era costretta ad intervenire. Non erano le sue borgate ad intromettersi nella nostra esistenza, esse lasciavano vivere in pace, ma erano i suoi palazzi ministeriali, i suoi imbellettati borghesi e le sue bigotte e timorate bizzoche a lucrare sulla nostra presenza.

Ogni tanto speculavano su di noi per mettersi in vista loro.

Improvvisamente, come se Roma per un momento fosse attraversata da un ondata di disprezzo verso il “Diverso”, si inorgogliva della propria romanità e ci vomitava addosso tutto quel marciume che tratteneva dentro di sé.

Evidentemente la nostra solare “diversità” ogni tanto li scuoteva dalla loro becera normalità……e ci davano addosso senza pietà.

Non ho mai capito perché la polizia o la legge in genere, ci lasciava vivere in pace e poi ogni tanto infieriva con odio e violenza su di noi caricandoci come fossimo degli squadristi attrezzati di elmo e frustino.

Mi riconoscevo diverso, fuori da certe regole, pronto a difendermi, ove richiesto, anche con i denti, però fondamentalmente mi consideravo, e mi considero oggi più che mai, una persona “pacifica”, che non cerca appigli per impiantare plateali proteste.

Vivevo e lasciavo vivere, questo era, allora, il mio motto.

 

Malgrado tutto la vita sembrava scorrere felicemente, l’unica controversia l’ebbi con me stesso e con l’altro sesso che, volutamente, per mia stupidità, dovuta a falsi intellettualismi da piccoli borghesi, non riuscii ad avere grandi rapporti.

La strada che percorrevo mi poneva fuori da qualunque lotta sociale o politica. Stavo giorni interi sdraiato su quella scalinata a sognare il mio futuro e a vivere con distacco il presente. A volte mi rintanavo dietro un cancelletto che stava proprio in alto, alla fine della scalinata, sul lato destro salendo, per consumare una pressante sega. Non riuscivo ad avere rapporti completi con le ragazze. Pur avendone l’opportunità, ed anche il desiderio, non conclusi nulla. Si era scioccamente inserita tra di noi l’idea di essere superiori alle brame erotiche, di vivere il sesso con distacco per non decadere, tra di noi, nelle solite manfrine da spacconi dove chi più “fotte” più conta.

Pur smaniando per un rapporto sessuale, sceglievo di masturbarmi anziché declassarmi in semplice borghese che vive solo per il sesso. Strana teoria, ma allora, mi ricordo, mi obbligai con la volontà a non cadere in questa trappola. Ebbi diversi rapporti con belle ragazze che frequentavano il nostro gruppo. Con Claudia, una ragazza di colore romana, passavamo ore a baciarci e a toccarci, alla fine di concreto non capitava nulla, l’unica cosa che, ero costretto poi a fare, consisteva nel farmi una sega.

Non volevo perdere, soprattutto agli occhi degli altri vagabondi, quel mio aspetto di beatnik, figlio di una contestazione globale che condannava, a priori, qualunque espressione  di quella società.

Il sesso senza Amore era da condannare, pensavo, mentre, plagiato da un orgoglio rinunciatario, dentro di me soffrivo tremendamente.

Disimpegnandomi dal vivere come viveva la società che condannavo o privandomi delle stesse emozioni che turbavano gli altri, pensavo, avrei mantenuto integra la mia dignità di vagabondo.

 

L’infantilismo intellettuale e di appartenenza ha creato sempre grossi problemi.

Allora credevo di non riconoscermi in nessuno schema, eppure oggi, a distanza di 40 anni riscontro una mia completa dipendenza dal ruolo di vagabondo che ostinatamente e convintamene in quegli anni mi ero appioppato.

Non è stato un errore dal quale pentirmi, ero troppo giovane e troppo sognatore per non considerarmi in quel mio personaggio migliore degli altri. Era il mio sogno.

Dal ‘63 la mia strada era già definita. Non so dove, ma avevo letto di Jack London e del suo “La strada”, sapevo degli hobos e dei loro spostamenti avventurosi sui treni e del loro odio per un lavoro imposto, dopo arrivò Kerouac con il suo “Sulla Strada”, e poi venne Woody Guthrie con “Questa terra è la mia terra” e poi arriva Dylan con il Suo folk graffiante e contestatario….arrivano tutti gli altri, e così via di seguito arrivai anche io con i miei sogni e con le mie corse sulle strade.

Da li nacque il mio Amore per questo mondo.

Venivo da lontano e mi tenevo stretto tutti i miei idoli perché grazie ad essi, ero sicuro, che un giorno mi sarei sentito veramente libero. La loro forza mi era entrata dentro, non sapevo vivere senza di loro e senza le loro storie.

 

Prima di rincasare nei nostri appartamenti, la sera, di tanto in tanto, ci fermavamo in un convento di monaci benedettini, proprio a Trinità dei Monti, a cenare. Offrivano gratuitamente del cibo a tutti coloro che si presentavano ad una determinata ora. Non chiedevano nulla, l’unica richiesta era quella di farci il segno della croce e di sorbire, prima di iniziare la cena, qualche minuto di lettura di brani della Bibbia.

Pochissime volte sfruttai questa loro cordialità. Mi sentivo soffusamente in disagio. Forse non ero pronto ad una contemplazione consapevole accanto all’essenziale, mi sembrava tutto innaturale, in pieno contrasto con ciò che viveva oltre quelle mura. Eppure quella pace doveva coinvolgermi, ammantarmi, dato che qualche anno dopo anche io percorsi la via verso l’oriente per cercare la Pace e la Libertà interiore…….eppure quella volta, almeno esternamente, non produsse nulla di trascendentale.

Mi sembrava tutto così scontato, come se fosse una scena da recitare per offuscare crimini orrendi……..eppure il cibo era buono, nessuno ci chiedeva chi fossimo, da dove venissimo, il semplice sorriso dei monaci già appagava la nostra sete di Pace….vi era qualcosa però dentro di me che non riusciva ad abbandonarsi. Forse era la presenza costante di un prete che tentava di convincerci della bontà della chiesa o della magnificenza del vaticano che ci elargiva gratuitamente quel cibo, forse perchè sentivo quel loro dare come un mezzo per attrarre gente alla loro causa….fatto sta che pochissime volte entrai in quel santo luogo, a differenza degli altri che ne approfittavano appena possibile.

 

Nelle piazze del mondo già si vagheggiava un oriente mistico e liberatorio dove la pace che cercavamo non era un luogo o un ideale per cui lottare, ma era presente ovunque, bastava solamente abbandonarsi per viverla intensamente.

Tre anni dopo, estate 1971, feci il pellegrinaggio in oriente come da buon vagabondo. Non potevo mancare a quest’avventura. Quel viaggio mi permise di trasvolare oltre la Coscienza, di ricondurmi al mio punto di partenza per “farmi ritrovare” in una stradina indiana, accanto ad uno di quei templi dove si recitava l’Amore per il Dio che ci vive dentro.

Allora non Lo riconobbi…non mi riconobbi tale. Mi considerai ancora in cammino, però verso la retta via che al momento giusto mi avrebbe risvegliato alle ombre che ottundevano la mia mente.

Guru e Sadhu itineranti invasero i miei sogni.

Il Buddha, il Risvegliato, per lunghi anni mi scandì il Suo grande OM nel cuore e nello Spirito fino a condurmi mano nella mano nel monastero di Pomaia “Lama Tzong Khapa” dove in diversi anni trascorsi lunghi mesi a meditare.

 

L’anacronismo immoto di quel luogo eccitava i nostri sensi. La sua tranquillità, la mancanza di luci stridenti e di rumori assordanti, generava sensazioni di pace innaturali. Tanti riuscirono persino a strappare qualche notte di sonno nelle loro celle vivendo per qualche giorno cadenzati alle loro ore, ai loro ritmi colmi di preghiere, di contemplazioni e di vibranti Amen che tanto avevano da fare con l’Om orientale.

 

Alla fine sono le vibrazioni a riunificare con l’Universo la spiritualità di un luogo. Lo Spirito risponde al mantra vibrante perché si sente a casa propria. Riconosce la vibrazione emessa simultaneamente dallo stomaco e dalla passione……..si risveglia, risponde, apre la porta della Coscienza per permettere un facile rientro…….dove si scioglie, si annulla e si confonde nell’Assoluto.

 

Il potere temporale in quel luogo, dove preghiera e lavoro scandivano il proprio tempo in sincronico silenzio, sembrava inesistente. Solo qualche immagine purpurea di papa o di vescovi risaltava alle pareti, ma non era motivo per suscitare dinieghi mentali…….eravamo li per cenare, il resto calpestava altre vie che in quegli anni proprio non mi interessavano.

 

Altri giorni, preferibilmente di domenica quando il mercato era brulicante di merce e di vita, invece ci recavamo tutti insieme a Porta Portese per sguazzare con gli occhi e con i sogni in quel mondo di zaini, di borracce in alluminio e di sacchi a pelo regolarmente usati da altri vagabondi che in un momento di assoluta indigenza hanno scelto di vendere parte della loro vita.

Capisco cosa vuol dire vendere uno zaino. E’ come svendere una parte dei propri sogni a quella stessa società borghese dalla quale si cerca di fuggire……per avvenuta sconfitta.

 

Zaini appesi ad un chiodo dai colori sbiaditi, consunti, logorati dalle intemperie del clima e dall’adrenalina di chi li portava in spalla, stavano lì ad attendere un nuovo proprietario. Contrattavamo non solo sul prezzo, principalmente volevamo sapere dal venditore se ne conosceva il proprietario. Era molto importante sapere qualcosa della sua vita, conoscere la vita dello zaino, quali luoghi ha conosciuto, quali esperienze ha vissuto e come è stato trattato……..l’energia contenuta in uno zaino contiene l’immagine di chi l’ha usato per ultimo. In una sorta di continuità implicita lo zaino preferisce continuare a camminare sulla medesima strada sulla quale camminava prima.

Vi erano borracce in alluminio usate dai militari, e vi erano tanti sacco a pelo accatastati l’uno sull’altro, di colori diversi, smunti e rattoppati da mani affrettate.

Chissà, pensavo, quale corpo aveva riscaldato quello verde….e quello rosso, era forse appartenuto a un grande vagabondo!!? Vendere un sacco a pelo è come liquidare il proprio rifugio.

Perché vendere un sacco a pelo?? Posso capire uno zaino perché è logorato dalle intemperie della strada, distrutto, ma vendere un sacco a pelo ancora “funzionante”, mi sembra una cosa da pazzi.

 

 

Una sconfitta!!! Forse.

Un ripensamento….speriamo di no.

Lasciarsi dietro la propria casa sicura per cosa!!!

Per qualcosa di meglio….ma cosa!!

(1981)

 

 

Quella volta non comprai nulla. Possedevo qualche coperta militare raccattata chissà dove, quindi potevo proteggermi dal freddo e nascondermi il viso quando volevo stare lontano dal mondo…….ed ogni tanto mi capitava, specialmente quando mi sentivo solo, disperato, triste, quando mi chiedevo cosa stessi facendo in quel luogo….e non so quante volte mi capitò in quel periodo.

Quando avvertivo il bisogno di stare da solo, di rifugiarmi in un luogo tranquillo…in quel momento la mia coperta rappresentava la mia ancora di salvezza….la stendevo per lungo, mi ci rannicchiavo sotto, ovunque mi trovassi….e subito mi sentivo  “solo”, libero, disposto a rivedermi, ad osservarmi. Mi nascondevo alla realtà e mi trasferivo in quella dei miei sogni, lì mi ritrovavo a fantasticare mentre vivevo momenti di Gioia e di assoluta condivisione con l’intera Umanità. Trasvolavo con facilità nel mondo in cui desideravo trovarmi in quel momento……e mi sentivo libero.

 

Spesse volte mi trovavo a pensare la mia Pina che già in quegli anni conoscevo e ne ero profondamente innamorato. La sfioravo con un dolce pensiero mentre l’attiravo a me per toccarla con un bacio sulla guancia.

Allora il nostro rapporto era veramente impossibile. Potevamo solamente guardarci da lontano, quando era possibile, ed aspettare il carnevale per poterci stringere. La Sua ritrosia nel cedere alle mie pressanti richieste e la Sua timidezza mi costringevano a vivere continuamente con Lei nella mente. Ne ero già innamorato, ma il desiderio di stringerLa e di toccarLa era molto pressante. Un Amore così irraggiungibile mi deprimeva, la mentalità bigotta e paesana di allora ostruiva le strade che portavano ad un libero e gioioso rapporto con la persona che si amava. Regole, ostacoli, formalismi, pregiudizi, imposizioni, chiacchiere indecenti, forme di ipocrisie sociali e ecclesiali………………un mondo di intralci lastricava la vita di noi ragazzi.

Ecco le insoddisfazioni, le drammatiche “fuitine” per spezzare le catene sociali…..i precoci matrimoni senza Amore, per colmare un vuoto o per calmare le sottovoci di un paese che pretendeva “il giusto rimedio”. Genitori “non liberi”, sottomessi alle   voci del paese, ai mormorii di una società bigotta, meschina e discriminatoria.

………………..ecco le fughe di tanti giovani, questo bisogno di Libertà, di autonomia, di Amare liberamente e senza falsi impedimenti…….avevamo bisogno di aria pulita, volevamo sentire l’ebbrezza di un Amore vissuto pubblicamente, non di nascosto o sottecchi dietro qualche colonna di una chiesa o nel buio di una stradella non illuminata.

Libertà….Libertà….Libertà……seguendo questo istinto naturale mi incanalai sulla via dei miei vagabondi e, mi ricordo, in quegli anni vissi sulle strade lunghi momenti di gioia e sulle piazze di un intera Europa attimi di indicibile Libertà.

 

Solo qualche giorno prima di lasciare in autostop Roma per Firenze, mi ricordo comprai una coperta militare.

L’anno prossimo invece, nel mese di giugno, prima di partire per un lungo viaggio in autostop in Europa (Grecia, Turchia, Bulgaria, Jugoslavia, Ungheria, Austria, Italia del nord) acquistai il mio primo sacco a pelo di colore verde da un lato e azzurro dall’altro lato. In piume d’oca, leggerissimo, con una lunga cerniera in mezzo che ne permetteva l’estensione completa trasformandolo in una comoda coperta per due persone…..difatti con Pina negli anni a venire lo usammo tantissimo per i nostri viaggi, ed Alice, ancora oggi, dopo 40 anni, rimpinguandolo continuamente di piume e ricucendone gli strappi, continua ad usarlo come coperta sul proprio letto.

Un sacco a pelo avventuroso, coraggioso, caloroso e indistruttibile.

Fui felice, mi ricordo benissimo, e fu felice anche Lui. Mi si offrì subito appena intuì quale corpo avrebbe accolto e quali avventure avrebbe vissuto.

L’ho disteso sulla neve del Tarvisio mentre attraversavo a piedi il confine austriaco, dentro cimiteri jugoslavi per proteggermi da pericolosi delinquenti, sulle sabbia del Sahara nel Sahel mentre mi spostavo con una guida Tuareg, sui tetti delle macchina per proteggermi dal freddo marmo, a piazza Dam mentre cantavo la rivoluzione…..mi ci sono infilato nudo, vestito, con le scarpe per tenermi pronto alla fuga, in corridoi di treni affollati incurante della gente che mi transitava addosso…..mi è servito da accappatoio, vi ho fatto all’Amore, l’ho usato da cuscino sui treni indiani, sui marciapiedi di mezza Europa, sotto le gallerie di Amsterdam e di Milano, l’ho usato per proteggermi dalle pulci………….l’ultima avventura glielo fatta vivere nell’81 in Egitto, dopo è andato in pensione. Ancora oggi ci gironzola intorno ed è stato rivestito a nuovo.

Ci sono persone che non riescono a dormire lontano dal proprio giaciglio, un vagabondo non saprebbe vivere sempre sullo stesso letto. Si sente ovunque a casa propria, la provvisorietà lo mantiene sempre in fibrillazione. La rassegnazione lo inquieta.

L’acquisto dello zaino invece procedeva su altre vie. Guardavamo la solidità, il cosmopolitismo, specialmente se vi erano degli adesivi che raffiguravano altre nazioni o scritte contestatarie quali “…non faccio la guerra ma faccio l’Amore…….”, oppure cercavamo la scritta “….libertà…..” che sapeva di contestazione, di rivoluzione e di vagabondaggio. Guardavamo se vi erano nomi di città, borchie militari per ridicolarizzare l’arma, se vi erano catene legate tipo quelle per tirare lo sciacquone in bagno, cimeli qualsiasi per fantasticare un po’......davamo allo zaino un aspetto umano con il quale discutevamo senza alcuna inibizione.

Mi ricordo in tutti quegli anni sessanta in cui lo usai per vagabondare per la vecchia Europa, mentre attendevo sulla strada lo stop di una macchina disposta a “portarmi oltre”, quante ore passavo ad osservarlo. Era il mio compagno inseparabile durante le lunghe ore di attesa ad attendere un passaggio, conteneva poche cose, ma essenziali per sopravvivere “alla grande” i lunghi momenti di pausa forzata sulla strada. Conteneva penna e rubrica, qualche pezzo di pane duro, borraccia in alluminio, coltello, cartina stradale sempre spalancata sulla parte di mondo in cui mi trovavo al momento, sbrindellata e spiegazzata proprio perché, spesse volte, capitava che mentre la ammiravo nella sua massima estensione, qualche macchina si fermava ed allora la avvoltolavo in un pugno per inserirla nello zaino,………e via, non potevo fare aspettare la macchina, poteva andarsene lasciandomi a bocca aperta.

 

In quel mercato vi erano in vendita un infinità di altre cose tutte collegate col mondo dei viaggiatori con zaino in spalla. Anelli che raffiguravano un viso scheletrito con un berretto militare in testa con la stella a cinque punti cucita di fronte, scarponi militari rimessi in vendita con pochi soldi, spilli e stemma inneggianti le ultime battaglie coloniali, calzettoni verde cacchina di spessa lana e vecchi eskimo nostalgicamente rivoluzionari…………..i nuovi arrivi attiravano l’attenzione di tutti, specialmente quei pellicciotti turchi bianchi o avana contornati da lana caprina erano le attrazioni principali. Non costavano molto e tenevano caldi, però, per i miei gusti, che amo viaggiare con poco peso sulle spalle, erano da scartare. Troppo voluminosi e troppo appariscenti. Amavo vivere in silenzio  e in disparte e indossare quell’indumento voleva dire espormi troppo, non passare inosservato ovunque andassi, e questo era contro la mia natura.

Gli altri si contornavano di cimeli e simboli molto vistosi.

 

Anche questo è un modo per cantare la propria rivoluzione. Contestare con le parole può essere maggiormente incisivo se ad esse le si affiancano anche atteggiamenti esteriori pertinenti. La rivoluzione sa di camminare in un mondo di persone differenti, anche se la forza intellettuale spinge al risveglio e alla presa di Coscienza con i loro discorsi, ci vuole anche, e soprattutto, la parte pratica. Ci vogliono i poveri, i disoccupati veri, che soffrono la fame, che subiscono lo sfruttamento un giorno dopo l’altro, che la rivoluzione parta da loro e non si costruisca a tavolino possibilmente da rifuggiati politici che vivono in un'altra nazione

Non si costruisce un nuovo mondo basandosi solamente su parole pompose, ma questi concetti devono camminare con i propri piedi nella realtà………….e questa realtà, questo popolo di “affamati”, proprio perché indigenti cronici,  non rispondeva ai richiami della rivoluzione, era molto flessibile, nel senso che si vendeva a chiunque per un pezzo di pane……………e il “governante e il padrone” l’hanno sempre saputo.

 

La rivoluzione era totale, non solo ideologica, ma principalmente di costume, di stravolgimento delle false buone creanze, dell’ipocrisia e dei finti saluti sostenuti da “amichevoli” pacche sulle spalle.

Sbeffeggiare l’ultimo grido di moda con i nostri “incoerenti” tipi di indumenti….disarmonici, sconclusionati e senza il minimo accostamento di tinte. Sgrammaticare il consolidato, il falso bello…….sezionare i fasulli cristi innalzati a modelli irreprensibili di vita.

Cultura sociale asservita al potere, religioni noleggiate dalla storia e ammodernate ad uopo per accomodare apparenti incomprensioni……………….questo mondo così strano, fittizio, non vero, che affossava gli spiriti liberi cercando di assumerli alle proprie idee.

Scappavamo da tutto questo………..anche al mercato ci tenevamo lontani dalle bancherelle che esponevano le ultime frenesie della moda. Vi era più ordine, più decoro, più linearità…….vestiti ben piegati con la riga sottolineata ben bene, cinture con fibbie dorate o di osso di foca, maglioncini di ottimo cotone a giro di collo o quadrettati in perfetta armonia cromatica, scarpe a punta felpate di ottima pelle traforate per mantenere sicuro e al fresco il bel piedino, camicie dal colletto inamidato, unica tinta, cravatte coloratissime dai disegni floreali, fermacravatta, slip o “mutande da sbarco” in seta per mantenere profumato il sesso, profumi misteriosi, rossetti cancerogeni testati sulla pelle di animali, gonne lunghe a campane e mini gonne ridotte allo stremo, cappelli dalle tese rigide e larghe….mutande in pizzo, foulard  floreali, bracciali, pellicce di cadaveri, volpi bianche della Groenlandia……….sceglievano più per classi sociali che per bellezza o per comodità. Basta pagare un po’ più cara la merce e subito ci si sentiva……migliori.   

 

Dopo un po’ ci rintanavamo nella nostra scalinata. Ci sentivamo protetti e il semplice stare sdraiati senza fare nulla, ad osservare la massa di gente che in tutti i momenti transitava da quel luogo, colmava di meraviglie la nostra mente.

Riuscivo a stare in quel luogo senza muovermi anche per interi giorni.

Il nuovo che navigava in quegli anni mi transitava sotto gli occhi, non avevo bisogno di spostarmi. I racconti di luoghi lontani gremiti di vagabondi, sublimavano la mia permanenza su quella scalinata. 

Pur rimanendo fermo………………mi sentivo permeato da un movimento inarrestabile. Il movimento impresso dalle idee che in quegli anni circolavano liberamente di bocca in bocca e le avventure che ascoltavo mi facevano volare molto in alto.

Troppi attimi di vita vissuta all’insegna della contestazione e troppi momenti di gioia ritrovata lungo le strade di un mondo in fermento mi rintronavano continuamente nella mente. Allora sconoscevo la noia. Quell’impegno nel sociale al quale ho dato tanta importanza e per il quale mi sono ritrovato a vagabondare sperando di vivere la contestazione in qualche università insieme a tanti altri ragazzi, in quel luogo, mi sembrava superato. Sotto l’emblema di quel partito dietro il quale sfogavo la mia rabbia, scopersi che fermentava lo stesso potere dal quale ero fuggito.

La scalinata era diventata un Maestro sottile, un saggio, che mi suggeriva nuovi modi per contestare la società.

La coscienza di quella gradinata mi lucidava la mente un giorno dopo l’altro. Le copiose scorie emesse da una società in declino, depositate sul mio cervello,  annebbiavano il risveglio della mia coscienza. Grazie ai lunghi giorni trascorsi a bivaccare in quel centro del mondo, mi rendevo conto che la contestazione doveva avanzarmi prima dentro, mi doveva scuotere sin dalle fondamenta, ridonarmi al Divino che mi viveva dentro il quale avevo trascurato per lungo tempo per dedicarmi a lotte sociali manovrate, con molta finitezza, dal sistema vigente.

I partiti, anche quelli apparentemente rivoluzionari, vivevano in un ammucchiata sfacciata. Sembravano contestarsi l’un l’altro, con posizioni inavvicinabili, ma alla fine, quando si trattava di fare il grande salto aldilà del “certo”, rimanevano tutti uniti. Si confondevano rispettivamente l’uno dentro l’altro in un formalismo bigotto e di maniera, pur di non scuotere la falsa morale, dettata dalla chiesa e dalle varie confraternite borghesi.

 

Io contestavo rimanendo seduto su quei gradini da dove mi sfilava sotto gli occhi l’intero pianeta. Non aspettavo nulla di definito. Stavo li ad osservare, ad ascoltare musica e a gioire di quella forma di apatia in fermento che mi stava trasportando in una nuova forma di contestazione non catalogabile dalle forze dominanti e quindi dagli sbocchi imprevedibili. Contestavo in silenzio, forte del mio esistere fuori dagli schemi. Eravamo dei mistici che ondeggiavano intorno a sé stessi.

Non ci interessava nulla che venisse da fuori. L’attenzione non era rivolta alle cose che potessero arrivarci da fuori. Eravamo pieni di noi stessi e…………quella Libertà per la quale ognuno di noi aveva affrontato strade pericolose………su quella scalinata la sentivamo fluirci dentro, colorando di sè il mondo circostante.

 

Momenti di gioia trasognante

Momenti di fuga dalla realtà

 

Vivevamo ognuno nel nostro mondo.

Ogni beatnik, nel proprio silenzio, trascendeva la realtà. Non le dava retta. Lasciava che lo avvolgesse, che lo triturasse……….ma non si sentiva oppresso da essa.

 

Un vagabondo è un mondo a sè…..non si lascia coinvolgere.

Spazia sempre dentro se stesso perché sa che la verità risiede dentro di Lui.

 

Acquattati dentro di noi, affrontavamo la vita con dignità.

Sopravvivevamo ai mali della società proteggendoci con le nostre chitarre, cantando le nostre poesie dove si vagheggiavano mondi migliori, più liberi e meno freddi.

 

Mentre imperversava la contestazione globale……………….noi cantavamo.

Orgogliosi di essere diversi………….eravamo felici.

 

 

-         Ehi Franco! Non ti sei stancato ancora di vivere questo tipo di vita?!

     Mi sembra che quel nuovo si stia trasformando in abitudine.

-    Nuccio!!! Non rendere problematico il fantastico momento che stiamo vivendo.

Crei inutili problemi e distogli la tua attenzione dalla bellezza del momento presente.

Vivi come sai vivere……………non analizzare con la mente l’essenza del momento. Quando arriva l’ora del cambiamento, stai certo, il corpo stesso ti avvertirà…………e allora sarà il momento di cambiare.

Cambiare luogo………spostarsi in un'altra piazza per seguire quell’anelito interiore che ci consiglia di andare via.

L’ora di riprendere lo zaino arriva quanto meno ce l’aspettiamo.

-         Si, si…bisogna che si cambi.

Ma domani il frutto di questo cambiamento ritornerà ad essere avariato….

-         ………e allora!!! Sarai sempre in tempo a riprendere lo zaino e andare via.

L’importante che il movimento non diventi prassi, non si consolidi e non cada tra le grinfie della società cosiddetta civile.

Chi lo ha detto che il “nuovo” deve per forza tramutarsi in “vecchio”! Non dipende forse da noi mantenere sempre fresco l’aroma di un fiore trasportandolo dentro di noi??

         E’ la mente che dobbiamo rivedere, caro Nuccio. Gioire delle cose del mondo,              

         senza pensare alla rinuncia. Questo è il percorso sul quale camminare.

 

 

A volte stavamo intere ore a discutere.

Franco integrava perfettamente l’aspetto filosofico ed esistenzialista all’immagine di un uomo radicato completamente nella realtà. Un uomo fatto di carne ed ossa, debole e presuntuoso, apatico e impegnato, materialista e mistico…………..l’unico aspetto che non gli riscontravo era quello dell’intellettuale. Non riusciva ad esserlo, anche se la sua cultura sembrava essere immensa.

 

Un vagabondo non riesce a distaccarsi dalla realtà.

Sa che essa è l’unica sua fonte di sostentamento, anche se poi è il primo a tirarsi fuori appena avverte il peso dell’assuefazione.

La usa, vi si muove con una certa destrezza…………..ma non si sente una sua preda.

La Libertà rimane l’unica via maestra, da perseguire ovunque e comunque.

 

Mentre i giorni trascorrevano felicemente, il mio aspetto fisico si rinnovava. Non sembrava più quello di un normale studente occasionalmente vagabondo, ma si integrava con l’essenza stessa di quel vagabondo che volevo a tutti i costi sembrare.

Acquistavo più coraggio. Anche se il mio balbettare mi limitava nell’esprimere compiutamente le mie idee sul movimento beatnik, il mio atteggiamento ne stava incarnando assolutamente l’essenza stessa del vagabondo senza fissa dimora.

Ero fiero di me stesso.

Sentivo fluire il mio futuro dentro di me.

Mi osservavo mentre percorrevo le strade del mondo spinto dal desiderio di conoscere e sostenuto dal bisogno di scoprirmi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            Ormai la villetta abbandonata, nascosta tra gli alberi del Pincio, era diventata il nostro rifugio. Non solo di notte, ma anche di giorno  la usavamo per ritirarci in silenzio e schiacciare un pisolino. Nessuno ne reclamava la proprietà. Era abbandonata ormai da qualche anno e per noi vagabondi rappresentava un isola che galleggiava tra i marosi oscuri della città.

Spesse volte di sera mi toccava percorrere la strada da solo perché i miei amici erano a girovagare per le vie di Roma. Salivo la scalinata, svoltavo a sinistra e dopo poche decine di metri saltavo il muretto e, servendomi del solito albero sottostante, mi lasciavo scivolare tra il groviglio di piante fino all’androne che mi permetteva di accedere alla villa.

Loro, i miei amici, preferivano scorazzare per la città. Avevano intrecciato una strana rete di impegni che non gli permettevano di rientrare mai prima che si facesse l’alba. Io non venivo coinvolto in queste loro scorribande. Mi dicevano che era meglio non andare con loro, presto mi avrebbero raccontato delle loro avventure notturne e, forse, solo allora potevano portarmi con loro.

-         Per adesso, mi diceva Mario, è meglio che tu rimanga al sicuro………desideriamo 

proteggerti dall’azzardata vita che stiamo conducendo in questo periodo.

 

Solo dopo venni a sapere, in parte, quali avventurose storie vivevano in quelle notti sfrenate. Rivaleggiavano con la legge. Si spostavano in luoghi conosciuti per racimolare qualcosa per tutti noi vagabondi. Sapevano di posti dove con molta facilità si riusciva a raggranellare qualche lira………….e non si lasciavano sfuggire l’occasione.

Prelevavano del denaro di nascosto a chi ne possedeva tanto.

Erano fieri di queste operazioni notturne.

Mario e Franco, da prodigiosi vagabondi, sapevano come regalarsi momenti frizzanti per non sentirsi inutili. Riempivano l’avventura romana con azioni alla Robin Nood.

Anche io correvo durante la notte con i miei pensieri. Aspettavo il bacio della bella sconosciuta americana……………ma non eravamo più sotto il ponte. Erano trascorse diverse settimane da quando si stava sotto quel ponte romano, adesso eravamo passati ad una classe superiore. Avevamo più stelle e ci sentivamo più ricchi.

 

Franco, ricordo che in quel periodo era dimagrito di molto. Le corse che ogni notte ingaggiava con la polizia, lo rendevano ansioso, pensieroso. Non riusciva più a mangiare con serenità come prima. Il tempo gli veniva misurato dalla risoluzione dei tanti problemi che aveva. Chissà se era ricercato dalla legge, pensavo. Lui non lasciava trapelare nulla, l’unica richiesta d’aiuto la lanciava il suo corpo, mostrandosi smagrito. Era la sua campana della consapevolezza che cercava di rintuzzare la nostra attenzione.

Impossibile fermarlo.

 

-         Un vagabondo, diceva, non può accettare limitazioni. Qualunque sua azione non è mossa da obblighi sociali o da doveri verso gli altri vagabondi. Sa che è la cosa più sana da fare in quel momento………………..e agisce.

Non bisogna dimenticare che il soggiorno romano, per noi vagabondi, era un esigenza del Corpo e dello Spirito. Bisognava renderla spregiudicatamente comoda e serena…………….e se non vi era da mangiare per tutti e un caldo rifugio dove ritrovarsi la notte, non sarebbe stata un’esperienza da ricordare con gioia.

 

Per questo motivo, tutte le notti, assieme a Mario, sublimava il rito del procacciatore di cibo ad ogni costo. Saltavano muri, prendevano sigarette per tutti, trafugavano dolci da pasticcerie mattutine, pisciavano dietro le porte dei borghesi…………………e si bagnavano senza alcun ritegno nelle vasche romane per festeggiare la loro libertà.

Le primi luci dell’alba li trovavano sfiancati e ansimanti. Tutte quelle corse li consumavano fisicamente.

Io aspettavo in silenzio. Cercavo di serrare gli occhi, ma i pensieri mi conducevano sempre verso di loro. Li vedevo mentre con passi delicati si introducevano in ambienti “decorosi” per prendere del cibo o un pugno di monete da condividere con noi. Erano veramente dei “grandi”. Rappresentavano tutti noi e il movimento beatnik romano gli era molto riconoscente.

Due piccoli eroi in un mondo confuso.

Loro si che avevano le idee chiare, sapevano cosa fare anche in situazioni vacillanti. Sapevano che i soldi servivano per continuare a vivere senza limiti…………e non ce li facevano mancare mai.

 

Non riuscivo a chiudere occhio con serenità. Li aspettavo fino ad una certa ora e poi mi lasciavo prendere dal sonno. Spesse volte non rientravano affatto, ed era un tormento. Rivoltavo tutti i sacchi a pelo ma niente da fare. Rimuovevo le montagne di coperte e spostavo i mucchi di cartone ammonticchiati in un angolo del salone, ma nessuno dei due era ancora rientrato. Nessuno sapeva dove fossero andati a finire.

Mi alzavo ciondolando e mi recavo nella scalinata sperando di vederli spuntare da dietro un  angolo.

L’attesa a volte si prolungava fino a tarda mattinata, se non addirittura per giorni interi. Di solito non mancavano mai all’appuntamento. Pur morti di sonno e stanchi da morire, barcollando, con le labbra screpolate e con il viso smunto non si lasciavano attendere a lungo. Salivano l’intera scalinata dal lato destro e alla terza rampa, dove di solito ci riunivamo, si lasciavano cadere per terra morti di sonno e drammaticamente stanchi. 

Io vegliavo sul loro sonno.

La notte brava aveva appena abbandonato sul campo due loro prodi guerrieri.

 

Un vagabondo non abbandona mai l’altro vagabondo.

Guarda oltre l’amicizia formale e gli sta accanto con devozione.

 

Pur avendo un buco allo stomaco che reclamava, gli rimanevo accanto fino a quando non si rimettevano in movimento. Al loro risveglio ci saremmo spostati in qualche locanda per consumare un pasto “lautamente” meritato.

Quella mattina non chiedevamo denaro alla gente.

 

Non era tanto facile, almeno per me, chiedere aiuto a persone sconosciute, purtroppo se volevo sostenere la mia avventura ero costretto a farlo.

Se avessi chiesto del denaro ai miei genitori sicuramente mi avrebbero inviato qualcosa, ma preferivo non farmi sentire. Per tutto il mio soggiorno romano non ebbero alcuna mia notizia. Capivo la loro sofferenza, ma, ero un ragazzo ammaliato dell’esperienza che stavo vivendo e non riuscivo a calarmi nella realtà di due genitori che non hanno notizie del figlio per lunghi mesi.

Stavo vivendo la mia avventura ed essa non contemplava, almeno in quel periodo, alcuna debolezza da parte mia.

Spesse volte volevo spaccare la faccia a qualcuno per il modo come mi trattava.

Non sono mai stato un violento, però la rabbia accumulata, dovuta all’impotenza che si vive nel non riuscire a cambiare la realtà, mi spingeva a rispondere in modo furioso. In diversi momenti, sfiduciato dai rapporti con la gente, ero tentato di smetterla con quel tipo di vita e di rientrare a casa, però………………rinviavo sempre tutto a dopo. Mi dicevo che ancora non era il momento e che l’avventura che stavo vivendo non bisognava interromperla.

Il mio Corpo ancora non si era stancato. Sarebbe stato Lui a decidere quando e come rientrare in Sicilia. La Sua saggezza mi avrebbe spinto al cambiamento, per adesso era più giusto continuare a vagabondare.

 

 

L’ansia di vedere dietro quella curva

L’incertezza di trovare chi si cerca

L’instabilità delle cose certe

La noia che matura dalle visioni ripetitive

La convinzione di volere, di riuscire a sapere cosa c’è aldilà

La corsa per superare l’ultima frontiera

Sono attimi di vita……….

………indimenticabili

(1981)

 

 

L’anno dopo, estate 1969, con Pino varcai la mia prima frontiera.

Da Brindisi ad Atene in nave attraversando il mitico stretto di Corinto. Anche allora mi spostavo in autostop e sfruttavo ogni buona occasione per chiedere qualcosa.

Per viaggiare più spediti con Pino ci spostavamo da soli dandoci appuntamento alla prossima città. Spesse volte ci incontravamo lungo la strada mentre  aspettavamo un passaggio o dentro qualche stazione mentre ci riparavamo dal freddo.

L’unica cosa di quegli anni, che non dimenticherò mai, sarà l’amicizia, oltre ogni limite, che ci ha dimostrato la “Strada”.

Mai ci ha lasciato in brutte acque. E’ sempre stata allegramente presente, con i suoi colori e con la sua vitalità, durante i nostri spostamenti. Ci ha protetti ovunque ci trovassimo e in qualunque situazione. Per questo Le sarò eternamente grato per come mi ha custodito e per l’insegnamento che mi ha donato.

In quegli anni il chiedere era un modo per mantenere un contatto continuo con la realtà. Ci guardavamo negli occhi scambiandoci informazioni sottili. L’etere era pieno di messaggi e di insegnamenti, per captarli bisognava entrare in contatto diretto con l’altro. La questua era un buon veicolo per diversi motivi…innanzitutto ci permetteva di continuare il viaggio, e poi, ci metteva nelle condizioni di conoscere meglio l’uomo anche sotto questo aspetto.

Negli anni a venire, almeno fino a quando non iniziai a viaggiare con Pina, questa forma di sostentamento la usai quasi sempre.

 

Fortunatamente la Terra è un vero paradiso. E’ tutto così ben congegnato e predisposto per essere utilizzato al momento opportuno, che tutte le volte che abbiamo bisogno di qualcosa, non si fa attendere. La fortuna ci cammina sempre accanto, non ci lascia mai scoperti e soli.

Il nostro Corpo e la Terra sulla quale viviamo e dalla quale proveniamo, si muovono entrambi in perfetta Unità. L’uno vive nell’altro, anche se ognuno rispettivamente “sembra” avere una vita propria………………..ma non è così. Entrambi vivono l’uno dentro altro, anche se apparentemente sembrano due realtà differenti.

 

L’apparente serenità che regnava in quella scalinata ritmava il battito dei nostri cuori. Da un momento all’altro ci aspettavamo la solita retata della polizia e i soliti interrogatori.

Aumentavamo ogni giorno, e dai tipi strani che andavano ad aggiungersi al gruppo capivamo quanta eterogeneità esiste tra di noi.

 

 

Un vagabondo non ha rivali…..nella similitudine

E’ talmente unico da creare un proprio stile anche quando si muove

 

 

………………..difatti ogni beatnik che bivaccava in quella scalinata si riconosceva per una propria caratteristica. Fuggivamo dalla società proprio per non perderci nell’uniformità della vita………….e delle scelte.

 

-         Franco! Ti ricordi quel giorno quando sfuggimmo alla polizia e per salvarci ci rifugiammo in quel negozio?

Per un attimo mi è sembrato di trovarmi in un mondo più umano, ed ho sentito un grande calore intorno. Nessuno ci tradì. Nessuno avvertì la polizia.

Mi sentii felice e volevo abbracciare tutti……..

-         Nuccio!! Anche io ho avvertito dentro qualcosa di simile, però dobbiamo stare    

attenti a non lasciarci abbindolare dai sentimenti. Essi a volte vengono soggiogati dalla mente, la quale, sfruttando l’ebbrezza della vittoria, cerca di riportarci tra le grinfie dei “governanti”.

Siamo divisi da immensi blocchi fisici e psichici. I rapporti a perdere che abbiamo avuto con la società ci hanno spinti a crearci un nostro mondo, dove vivere sembra essere più facile e più felice……..malgrado tutto la società non pensa di trascurarci. Ha bisogno di noi per rivalutare la loro “normalità”. Sanno che grazie a noi, grazie alle nostre continue ribellioni verso la loro falsa morale, essi si rigenerano e si fortificano nell’odio che nutrono verso il “diverso”.

Ma non possono fare a meno di noi, ricordalo.

Serviamo da deposito alle scorie negative che essi producono con la loro stupidità ed arroganza.

……………però è bello illudersi.

Quel giorno anche io mi illusi. Ebbi fiducia in quel silenzio protettivo che si era creato intorno a noi. Vidi per un attimo le barriere crollare e un grande sorriso dentro di me mi visualizzò un nuovo mondo possibile……pieno di abbracci e di sorrisi.

 

 

 

         Quel posto lo conosco.

Quanti luoghi debbo scoprire ancora sulla Terra!!!!

 

Un Uomo che muore nel Sahara non distoglie nessuno….

Un Uomo che muore alle Laccadive non distoglie per niente.

Un Uomo presidente…..distoglie.

La morte di un papa….crea spettacolo.

La fine in silenzio di un indio sulle Ande rimane nel silenzio.

 

Solo chi gli vive accanto………….viene distolto.

Il mondo Gli crolla addosso…..….la vita stessa sembra finire.

………..ma continua.

 

Continua tra le mura di casa,

continua tra la gente infastidita dal suo dolore.

………continua tra il trambusto colorato di un papa….

mentre cantano le sue glorie, parlano di lui e della sua chiesa.

 

………..mentre gli altri muoiono di fame.

 

Fuggiamo via da questi idoli

Lasciamoli stare nei loro scranni……….

……e non lasciamoci distogliere.

 

La vita continua………………

 

(1981)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

      -  Hai visto Mario in questi giorni?!

E’ da un po’ che non lo vedo gironzolare con te.

E’ partito!! Sta male!

Credo che sarebbe meglio andare a cercarlo.

 

Da qualche giorno una voce insistente martellava i cuori di tutti noi. Sembrava che Mario fosse scivolato nel giro della dipendenza della droga.

Un periodo molto difficile per tanti vagabondi.

Con molta facilità si lasciavano tentare dalle promesse liberatorie degli acidi. I voli della coscienza che promettevano  erano coloratissimi e assicuravano intere giornate di sballo. Tristemente però, appena finito l’effetto, ricapitombolavano nella realtà più confusi di prima. Ritrovavano le stesse cause che li avevano spinti ad andare via, e…………..la confusione aumentava.

Liberi dalla realtà……..o preda di un sogno drammaticamente reale?

Purtroppo erano in tanti. Gli acidi sintetici da tempo ormai sciamavano nel nostro mondo. In tanti vi si erano avvicinati e la scalinata, con grande tristezza, ne rappresentava uno dei luoghi principali di consumo. Ancora la siringa non era ufficialmente accettata, però stava trionfalmente accostandosi nelle scoraggiate coscienze dei giovani.

Assistevo a queste scene con tristezza. Preavvertivo una devastazione sociale senza limiti e non potevo farci nulla. In quel periodo mi interessava di Mario e della sua salute. Un vagabondo come Lui, dignitoso, forte, solidale con gli altri, non può soccombere dietro questo schizzo di veleno costruito artatamente da quella società che tanto odiavamo.

Quell’acido prometteva una ascesa degradante verso qualcosa di indefinito, che, illusoriamente, in tanti si ostinavano a definirla “libertà”…………….ma da cosa!?

Quante volte me lo chiesi in quei giorni.

Cosa può attrarre le meravigliose menti dei nostri giovani, amanti del bello e della libertà, verso quel miscuglio di acidi sintetici che promettevano solo attimi di libertà coatta e fantasmagorica?

Il potere aveva escogitato quest’altra trappola. Metteva nelle mani del giovane un mezzo per contestare la società, nel frattempo  innescava la miccia per segnare la fine del giovane stesso per dipendenza psichica o per morte.

 

-         Non vorrei sembrare quel tipico rompiballe moralista che cerca di convincere a tutti  i costi il malcapitato a smetterla di usare droga. Io ho solo nel cuore la sorte di Mario. Bisogna intervenire per bloccare questa ascesa degradante verso la fine. Non può continuare ancora a lungo.

-         Non ti rendi conto che l’unica forma di protesta rimane questa? Non vedi come la società ti agevola in questo tipo di scelte perché sa che è l’unico mezzo che ha per neutralizzarti o addirittura per toglierti di mezzo?

Bisognerebbe fare qualcosa?

Certo che bisogna farla questa maledetta cosa………..lasciamolo in pace facendogli vivere questi suoi giorni di gloria.

 

Per intrinseca natura il potere sa come proteggersi e come annullare qualsiasi bacillo di ribellione. Appena scorge del pericolo per la propria sussistenza, non fa altro che agevolare l’uso di elementi distruttivi velandoli con l’etichetta di “prodotti condivisi dai contestatari”.

Difatti gli acidi che giravano allora erano costruiti in laboratori strutturati dal potere per offuscare le menti del giovane e nel frattempo servivano al potere stesso per crearsi un alone di “buonismo” perché, coglievano l’occasione, per proporsi come paladini contro il dilagare di queste droghe. Del resto la nostra società occidentale ed opulenta, cosiddetta civile, non è nuova a queste operazioni di pulizia della Coscienza costruite ad arte.

Sfrutta il terzo mondo, lo affamano e lo derubano di tutte le sue risorse e poi, in un momento di meschino buonismo, si mette in evidenza ergendosi a eroina della salvezza dell’umanità.

 

-         Si..si! hai ragione Franco, però se un giorno Mario venisse a mancare, sicuramente il potere ne gioirebbe, ma noi, i suoi amici, che abbiamo condiviso con Lui storie di vagabondaggio intense…………soffriremmo molto.

 

 

Un vagabondo in meno non scuote l’equilibrio mondiale, ma deturpa la bellezza della Libertà.

Un vagabondo non muore per droga……vive per andare aldilà degli allucinanti effetti che essa crea.

Saremmo profondamente coinvolti in questa sua fine…..e non sapremmo più come continuare.

Un vagabondo non prevede mai la morte di un altro vagabondo……perché l’essenza stessa del vagabondo è la vita……..vivere, sognare e Amare.

 

         

Mario non avrebbe mai cercato aiuto. Sapeva come uscire fuori da qualsiasi situazione. Era un grande vagabondo e conosceva i limiti del proprio corpo. Sapeva ribellarsi senza trascendere dal concetto stesso di ribellione per non ridurlo in un semplice atto estremo, capace solamente di produrre male a se stesso.

 

-         Noi, andavo dicendo, dobbiamo stargli vicino, non dobbiamo farlo sentire solo in questa sua ”autolesionista” protesta.

     La nostra e la sua forza saranno contrassegnate dalla nostra unità.

 

La sua sorte ci stava molto a cuore.

Non potevamo imporci alle sue scelte, anche perché riguardavano esclusivamente la sua vita. Volevamo semplicemente fargli sentire il nostro Amore e la nostra condivisione per la protesta che stava portando avanti. Anche noi volevamo protestare con determinazione, mettendo avanti il nostro corpo, come faceva lui, però non ne avevamo il coraggio.

Mi mancava l’ardire di chi si sente forte e di chi si sente nel giusto.

Ero abituato a lottare, ma mai avrei messo in pericolo la mia vita. Anche nell’illegalità cercavo di muovermi con discrezione, come se qualcosa mi trattenesse a non andare oltre. Troppi retaggi psichici e sociali mi trattenevano in quella normalità che tentavo di contestare.  A volte incideva anche la paura……..e non volevo estraniarmi da un controllo razionale sul mio corpo.

 

Paura……….sempre questa angoscia che non mi permette di gustare le delizie che stanno oltre le regole, che sguazzano oltre il conosciuto con tutte le sue leggi  limitanti.

 

…………………eppure, tanti anni dopo, sull’isola di Ko Samui - era il 1983 e provenivo assieme a Pina da un lungo viaggio attraverso la Thailandia, Malesia, Sumatra, Giava Bali, Singapore e ancora Malesia……….. – vissi la mia prima esperienza sotto le allucinanti visioni dei funghi tailandesi, e confesso di aver trascorso quasi un intera giornata permeato da una gioia talmente estrema da farmi vivere attimi di paura intensa alternata a momenti prolungati di profonda tristezza.

Quel giorno, era il 1 dicembre, compivo 35 anni ed eravamo sfiancati da 45 giorni di un faticoso correre in un sud est asiatico ancora libero dalle invasioni di quei gruppi di turisti alla ricerca di sensazioni artificiali…………..e sessuali.

Allora non ebbi paura di andare oltre il conosciuto, mi sentivo un leone pronto a mordere le barriere che ostruivano il mio conscio. Una volta tanto seguire l’inconscio, e i suoi consigli trasformati in istinti da un conscio assoggettato alla mente, fa sicuramente bene. Ci ridona al nostro vero sé ed apre enormi visioni su Realtà dimenticate.

 

Mario stava intere giornate senza aprire bocca. Elaborava le non-scelte che lo stavano distruggendo. Era imponente, di mole prepotente, eppure era scivolato nel turbinio della droga. L’impotenza nel cambiare la realtà, lo aveva costretto in un angolo. Usava l’unica arma che possedeva per contestare la società: Il proprio corpo. Non aveva speranze, eppure qualcosa in Lui lo spingeva a tentare, a sporgersi fin dentro il potere dimostrando l’illusione della forza……………ma non otteneva nulla, non poteva ottenere alcun riconoscimento da chi vive nell’insensibilità più fredda.

 

Il potere si nutre di quest’odio. Lo volge a proprio favore e ne fa un arma tagliente, reversibile, che ritorna da dove è venuto e miete vittime a piene mani. E’ quello che cerca, è il suo ambiente naturale perché sa che alla fine vincerà sempre l’odio e la violenza.

Mario conosceva questa triste verità, eppure, come tanti poveri eroi, ha voluto provare…………….

 

-         Franco!! Nessuno mai ci ha vinti. Se abbandoniamo Mario in questo suo scivolamento, senza intervenire, stavolta il potere vincerà……….allora si che sarà l’inizio della nostra fine. Se rimaniamo insensibili a questo suo grido d’aiuto, verremo accomunati all’essenza stessa dello Stato. Dobbiamo differenziarci dal potere, essere un’altra cosa di questa “civile” società che si nutre di odio.

    Dobbiamo scindere il nostro mondo da quello loro. Noi siamo diversi e        

    dobbiamo dimostrarlo, innanzitutto a noi stessi, ma dobbiamo farci vedere forti,    

    uniti. Non possiamo disinteressarci assistendo in silenzio alla sua fine.

 

Grazie all’insistenza di tanti di noi, Mario sembrava rimettersi un giorno dopo l’altro.

Più di una volta andammo al cinema a stravaccarci in comode poltrone e qualche volta, dopo aver effettuato sontuose collette, andammo a mangiare in ristoranti borghesi, prendemmo un casino di gelati e una volta andammo in discoteca, in uno di quei fumosi locali che in quegli anni accoglievano i giovani che marinavano la scuola.

Facemmo i turisti passeggiando sul lungo Tevere, addirittura da Castel Sant’Angelo, era di domenica, ci confondemmo tra la folla che ascoltava il saluto di Paolo VI.

Visitammo i tesori vaticani e poi alla fine, per dare un senso completo alla meravigliosa giornata, prendemmo un taxi facendoci depositare proprio in piazza di Spagna, ai piedi di Trinità dei Monti.

Mario riprendeva a sorridere e il suo viso si colorava di raggi solari splendenti.

Una mattina visitammo lo zoo immaginandoci la sofferenza di quegli animali dietro le gabbie privati dalla libertà.

L’assillante andirivieni della tigre limitata da quattro sbarre di ferro, ci rese tristi. Anche noi, pensavamo, siamo trattenuti in una gabbia dai pali dorati. Ce ne rendiamo conto solamente quando tentiamo di andare oltre quelle sbarre e ci viene vietato.

Mancanza d’aria e deficit di libertà. Vigilati speciali in un inferno spacciato per paradiso.

L’aspetto triste dell’orango ci costrinse ad ammainare la bandiera della gioia. Troppa tristezza sprizzava dal suo sguardo. Troppa ingratitudine nei confronti di un primate che rappresenta l’anello principale e finale della specie della nostra evoluzione.

L’orso bianco, ormai dal grasso disciolto, tra le tristi colate di cemento dipinte di bianco che andava sull’azzurro, ci impose la ritirata senza alcuna possibilità di scampo.

Erano scene che non ci appartenevano. La mancanza di libertà ci faceva soffrire, e noi eravamo li per ridere, per incoraggiare Mario a riprendersi la vita, e quelle immagini non gli giovavano affatto……..lo costringevano sempre più in un angolo dove il semplice calore del suo corpo lo faceva sentire sicuro e protetto.

Impossibile rimanervi un minuto in più.

 

-         Belin ragazzi! Mi sento più in carne di ieri. Come mi avete rimpinguato in questo   

periodo? Mi sento i pantaloni nuovamente appiccicati addosso……..speriamo di non incontrare qualche altra messicana. Stavolta non mi lascerò prendere di sorpresa. Le salterò addosso ancor prima che gridi la sua meraviglia.

-         E’ meglio che ne compri qualche paio di misura più larga, non si sa mai……….

 

La scalinata di Piazza di Spagna riprendeva a sorridere. Pericolo scampato, umore risvegliato e sorrisi assicurati.

Appena buio rientravamo nella nostra villa.

 

Non eravamo ancora stanchi, ma qualche volta rischiavamo di annoiarci, e in quel momento percepivamo i rintocchi del “rientro” nel mondo dal quale provenivamo. La casa, la famiglia, le certezze, ci richiamavano……….era il momento di andare, di riprendere lo zaino e di partire. Ormai erano in tanti a non voler più rimanere a Roma. Si risvegliava la voglia di rimetterci sulla Strada ed andare in giro per l’Italia per vivere con i vagabondi di altre piazze.

Era trascorso più di un mese e quell’odore inebriante che ci accolse, affascinandoci, stava cominciando a puzzare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         

 

          La scalinata non si svegliava mai di buon ora. Dai nostri appartamenti uscivamo ad ora tarda ancora con gli occhi abbottonati dal sonno. Arrivavamo alla chetichella per bagnarci nella barcaccia e per consumare il solito sontuoso cappuccino che ci permetteva di accedere ai bagni del bar. L’ora del bagno, così l’avevamo definita. Tra una visita alla toilette del bar e tra un dolce fugace sciacquio nella vasca della barcaccia, trascorrevamo le prime ore della mattinata.

Di solito i nuovi arrivati con zaino militare in spalla, sporco e sdrucito, approdavano in piazza alle prime ore del giorno. Sicuramente avevano trascorso la notte precedente in qualche sottoponte o alla stazione Termini, ed erano morti di freddo e affamati. Qualcuno era ancora un novizio, quindi toccava a noi redimerlo dalla timidezza ed insegnargli la strada della questua. Altri provenivano da altre piazze o da altre città europee. I vagabondi più numerosi arrivavano da Amsterdam, ed erano pieni di notizie per le nostre menti avide di conoscenze.

Il triste rapporto con la legge e con i suoi gendarmi emergeva già da subito. Anche lì, l’ordine costituito tentava di imporre con la violenza le proprie regole. Anche lì, le solite corse notturne per schivare qualche lancio di mazza o per non essere arsi fin dentro i sacchi a pelo dai nazionalisti che stavano prendendo piede in tutta l’Europa civile, non mancavano……………………come, qualche anno dopo, nell’estate del ’70, proprio in piazza Dam anche noi rischiammo di finire bruciati.

 

Una vigilanza serrata da parte nostra, tentava di proteggere la piazza dall’attacco vile di questi loschi figuri.   

Amsterdam in quegli anni era il bivacco preferito dai vagabondi di tutto il mondo.

Chi con le chitarre intonava le note della contestazione giovanile, chi con i cembali in mano giaculava il sacro mantra dedicato a Krihsna, chi con qualche fiore in mano e qualcun altro dipinto sul corpo si spingeva verso un misticismo liberatorio……………..un prodigioso mondo fatto di fantasia e di colori non smetteva di affascinarci.

 

Ormai la stessa musica cadenzava tutti i giorni una nenia sconsolante. Sentivo il bisogno di partire, di spostarmi da quella piazza in un'altra piazza. Volevo cibarmi di nuove sensazioni, ascoltare dal corpo di qualche altro vagabondo nuove avventure. Anche se in apparenza sembrava tutto tranquillo…………..un sicuro giaciglio, una calorosa tavola, amici fedeli, un buon clima e una polizia in parte addolcita, da quel luogo………..volevo spostarmi.

Il mese trascorso da sotto un ponte ad un vagone ferroviario, da una scalinata a una piazza, mi stava venendo a noia. Il nostalgico ricordo dei miei genitori e dei miei amici stavano prendendo il sopravvento, era il momento di inebriarmi di “cose nuove”, solo così la malinconia delle sicurezze di casa, sarebbe stata momentaneamente ignorata.

 

Trascorse ancora qualche altra settimana in questo stato di vacuità…………..e poi via.

Non si erano dimostrati stretti solamente i pantaloni di Mario, stretti erano i visi dei soliti baristi, dei tassinari e dei carrozzinari, anche il fluire continuo del turista sembrava essersi arrestato dentro di me…………….la mia mente non accettava più quel nuovo così ripetitivo.

Ogni tanto incuriosiva l’arrivo di qualche ritrattista con i suoi pennarelli pronto a tratteggiare con destrezza qualsiasi viso fosse disposto a sborsare qualche lira.

 

Qualche anno dopo, gennaio febbraio 1970, vissi a Parigi per due lunghi mesi ospitato dal mio amico Turi. Durante il mio girovagare, proprio a Montmaitre, fui impresso con un pennarello su un foglio bianco da un artista di strada che bivaccava in quella mitica piazzetta dietro il Sacro Cuore. Allora mi nascondevo dietro un bosco di capelli lunghi e barba nera, era la mia divisa e, con essa in evidenza, mi sentivo forte e contestatario. Non riuscii ad avere il dipinto per mancanza di soldi. Il giorno dopo vi ritornai con Turi, ma……………….era stato venduto ad un turista di passaggio attratto da quell’ammasso di peli neri.

Qualcuno terrà appeso alla parete il mio viso da vagabondo…..

Parigi, “la rivoluzionaria” per antonomasia, concentrava il proprio dissenso all’università la Sorbonne. Spesso mi ci recavo sperando di rivivere i fasti di qualche anno prima, ma ormai la decadenza era nell’aria. Si contestava la staticità del potere, il tipo di potere, e non si capiva che il male si annidava nell’essenza stessa del “potere”. Un potere che, erroneamente, anche noi, mentre sfilavamo nei cortei studenteschi, richiedevamo a voce alta……………….noi al potere, il comunismo al potere………….così gridavamo.

Sconoscevamo l’assurdo potere sovietico e come lo esercitava sul popolo, eravamo ammaliati dalla rivoluzione a tutti i costi e non si capiva da quale parte stava la Verità.

 

A Roma in quei mesi estivi si vedevano i primi vagabondi anarchici che si autogestivano la propria vita senza delegare nessuno. Nascevano piccoli artigiani errabondi che immaginavano e realizzavano direttamente in piazza, sotto gli occhi di tutti, la merce da vendere. Portavano con se piccoli zainetti militari dove tenevano tutto l’occorrente: dalle pinze al filo di ferro, dal cuoio a rasoi affilatissimi, dalle perline colorate ai pennelli multiuso………. L’idea della questua stava tramontando.

Qualcuno vendeva la propria arte………..chi strimpellava su una chitarra, chi cantava e chi recitava Baudelaire, chi fischiava su un flauto e chi spaziava con le labbra su piccole armoniche…………………tutti davano qualcosa pur di non dipendere dall’altro.

Io rimasi a chiedere. Non ero capace di dare praticamente nulla, mi affidavo alla mia timidezza e al mio sorriso.

Arte misera, molto intima, era il massimo che riuscivo a proporre alla gente romana.

Questo fu uno dei motivi principali che mi spinsero ad andare via da quel luogo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                In quei giorni sentivo quella sicurezza insita nella scalinata cedermi sotto i piedi. Quasi ogni giorno arrivavano notizie di qualche vagabondo risucchiato dalle patrie galere per via di piccoli furti o di sparizioni misteriose dovute senz’altro all’orrida esistenza di leggi liberticide che imponevano al libertario la presenza di qualche lira in tasca pena il foglio di via direttamente per casa.

Vi era chi si ingegnava in un artigianato accomodante pur di dimostrare di lavorare, e vi era anche chi si era fatto prendere dalla tristezza o dalla noia………..ed era andato via.

Forse quel senso di libertà che ci accolse qualche mese prima stava decadendo nella monotonia e ci sentivamo chiusi, conosciuti, catalogati…………….

 

Un grande vagabondo americano, Riggle, sul vagabondare degli hobos senza sosta scrisse una meravigliosa frase:

“Una profonda necessità di fuggire una condizione nota per un'altra non                nota, di farla finita con tutto il vecchio e andare alla scoperta del nuovo, di spezzare i vincoli che frenano e trovare la libertà, di rinunciare al reale troppo ovvio per un più scintillante irreale.

La stabilità nella vita ha sempre voluto dire sacrificio”.

 

Oggi, dopo più di 40 anni, quei ricordi mi camminano nella mente e non posso fare a meno di riviverli con gioia. Non provo tristezza, anzi, dentro di me, vivo un profondo rispetto per quei momenti, so che sono stati i miei Maestri che mi hanno preso per mano e mi hanno accompagnato alla pienezza dell’oggi.

A differenza di allora, oggi, le mie avventure, sono in parte studiate e preordinate ancor prima di partire. L’imprevisto di allora in parte si è addolcito. La comodità della poltrona di casa tramite internet mi permette di programmare il viaggio in massima parte “prevedibile”. Rimane l’ebbrezza del momento, la frenesia di trovarsi a calpestare un altro mondo che a volte non ci fa essere razionali e attenti.

Il previsto rimane l’itinerario e forse la meta del ritorno, ma “il durante” rimarrà sempre un incognita. L’attimo in cui  ci si trova su un bus sgangherato, senza freni, condotto da un forsennato……………quella è l’avventura.

L’affanno di immaginarsi scaraventati in un burrone, la paura di essere derubati, schiacciati sotto una catasta di legna che stanno con te sul camion sul quale viaggi, l’angoscia di non arrivare in tempo, di sbarcare in piena notte in una città enorme, popolata da ombre che camminano…………..quello sì.

Da questo genere di avventura ancora oggi non ci siamo allontanati.

 

Allora l’unica cosa prevista era il ritorno, ma quando e come non lo immaginavamo assolutamente. Sapevo di partire, di andare via in autostop per vivere il mondo………….ma non prevedevo il giorno del rientro, tutto era lasciato nel vacuo perché dipendeva dalla nostra resistenza fisica e dall’intensità della passione che ci bruciava dentro……….e questi due elementi allora non ci mancavano.

Forti, belli, giovani e innamorati della vita, ingredienti essenziali per un vagabondo.

 

Nel ’69, mentre mi spostavo con Pino in autostop e a piedi da Istanbul verso la Bulgaria, mi trovai su una macchina che volava verso l’Olanda con accanto un altro autostoppista inglese. Gli chiesi se voleva unirsi con noi per conoscere Sofia  e poi continuare il viaggio. Mi rispose che preferiva volare sempre verso l’ignoto anziché fermarsi a fare il semplice turista.

“……………ho trovato spazio su questa macchina, ebbene, mi sposto con essa fino a quando non mi scarica. Non sono scemo da fare il visitatore incantato e perdere l’opportunità che mi offre il momento presente……………….”.

“………..Un vagabondo non impallidisce di fronte a nulla………….va sempre avanti.

Ama gironzolare a zonzo senza perdersi in questa nuova moda di fare il villeggiante”.

Così mi rispose, e così da quel momento immaginai il mio vagabondare.

 

Da Istanbul in Olanda………….un’unica corsa. Immaginare semplicemente un simile viaggio è……..da sballo.

Nel ’71 vissi la mia grande avventura………….Monaco Delhi in presa diretta.

Lo sballo più grande della mia vita.

 

La figura di quell’inglese con tutto ciò che portava dentro di sé, ancora oggi la tengo viva dentro di me.

 

 

Volare via!

Dove non si sa.

L’importante è volare.

 

Un fiume che scorre, si sposta………….e si perde nel mare.

Un uccello che vola……….tutti gli attimi cambia zona.

 

Noi perché non cambiamo?!

Perché ci dobbiamo legare?!

 

Il legame slega l’affetto………..esso incatena l’Uomo.

 

Sleghiamoci.

 

Qualcosa di immenso ci attende………

 

Aldilà dei mari, aldilà ella Strada………

…………vi è la Libertà.

 

(1981)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

     Cercavo di stimolare Franco al discorso. Le sue annotazioni esperte e vissute mi mettevano sempre in crisi.

L’ultimo proficuo scontro dialettico lo ebbi quando mi permisi di richiamare la sua attenzione sull’esistenza di questo tipo di società opprimente e ipocritamente democratica.

 

-         Nuccio, ancora ti poni di questi problemi, mi disse??

Non capisci che proprio nell’attimo in cui te li poni, fai trionfare la stessa società, con i suoi ossequiosi postulati, che tu condanni?

L’attimo caro Nuccio. L’attimo ti riempie la giornata, e la qualità della tua vita dipende proprio dall’intensità e dall’attenzione che poni ad ogni attimo. Più ti poni queste domande, più l’ebbrezza dell’attimo fugge via.

 

Sublimava l’inutile solamente con la sua presenza. Non si lasciava coinvolgere dai fatti, ma era la situazione stessa a dipendere dal suo stato d’animo.

 

-         Tra qualche anno ti renderai conto come queste esperienze di oggi ti aiuteranno a maturare in un certo modo. Noterai come la differenza tra l’oggi e il domani è funzione dell’intensità e della passione con la quale stai vivendo questo momento. Notare ovunque ostacoli, o ingerenze dell’odiata società, non aiuta il risveglio della Libertà che ci vive dentro.

Non siamo in corsa con gli eventi, caro Nuccio. Abbandonarci ad essi è l’unica scelta che abbiamo.

Vedrai quanta forza ci esploderà dentro appena la smetteremo di competere con la vita.

 

Intanto l’esperienza di vagabondaggio continuava alla grande, anche se ormai sembrava tutto volgere alla fine.

Quella notte a piazza Navona, mentre ci dondolavamo sotto il suono ritmato della chitarra, una precipitosa retata della polizia ci distolse dal nostro dolce sognare. Fummo circondati da diverse camionette che rigurgitavano forze di polizia bardati con divise d’assalto, con manganelli e con caschi anti-sfondamento. Chiesero i documenti, ci tastarono il corpo sperando di trovare l’arma incriminata, volevano vedere quanti soldi avevamo e come mai a quell’ora eravamo lontani da casa.

L’interrogatorio continuò in centrale.

Seduti su tavolacci di duro legno, uno per volta fummo chiamati e sottoposti ad un nuovo interrogatorio.

Provavo umiliazione per loro. Erano giovani, forse qualche anno più di noi, ma già mostravano la loro vera natura. Si sentivano disturbati da noi perchè eravamo in tanti ed eravamo liberi. Da dietro le spalle ticchettava una voluminosa “olivetti” annerendo su un foglio bianco i nostri nomi e cognomi, gli anni e la provenienza, e poi questi fogli venivano catalogati sotto il nome della “V”, che stava per “Vagabondi senza fissa dimora”.

Continuarono tutta la notte, alla fine trattennero qualcuno di noi, mentre gli altri, tra i quali io, furono rimandati via.

La Strada ci attendeva a braccia aperte.

Si era sparsa la voce del nostro arresto e nel frattempo gruppi di vagabondi si erano radunati davanti l’androne della polizia per accoglierci con battute di mani e “evviva”, man mano che uscivamo. Qualcuno con il foglio di via affisso al petto lo strappò appena uscì, riprendendo con più passione il suo peregrinare per le strade del mondo.

 

Non avevano capito che il movimento beatnik ci partiva sin da dentro lo stomaco. Eravamo presi da quella realtà che ci stimolava a vivere itinerando, e nessuno poteva fermarci.

Loro speravano in una forma di paura da parte nostra o ad un richiamo dei nostri genitori……..poveretti!!! Ignoravano il fermento che ci bruciava dentro, la voglia ruggente di Libertà, di conoscenza di spazi infiniti.

Stava esplodendo l’occidente e loro, rappresentanti ottusi e schiavi della legge, non se ne rendevano conto. Bastava frequentarci un po’, sentire le nostre ballate, discutere con noi, dormire qualche notte sotto i ponti assieme a noi, per rendersi conto della nostra semplicità.

Forse qualcuno tra di noi trasbordava aldilà delle nostre regole non scritte, ma: potevano, questi striminziti elementi, criminalizzare l’intero movimento?

 

Chi era stato diffidato dal rimanere a Roma, si spostava per qualche giorno in qualche altra città, si cambiava d’abito e appena possibile rientrava alla base. La nostra scalinata sapeva come accogliere il vagabondo.

 

Un giramondo lascia la preda solo quando lo decide lui. Pur di non farsela sfuggire aguzza l’astuzia, affina l’intuito e si ispessisce nel corpo per resistere meglio alle intemperie. Decide sempre Lui quando andare via.

 

Nel ’69 a Sofia fummo scortati fuori città dalla polizia in borghese. Ci raccattarono in un self service della città mentre mangiavamo qualcosa e nel frattempo facevamo incetta di zollette di zucchero. Eravamo vagabondi, per giunta senza soldi, quindi in quel luogo non potevamo stare. Ci avevano scortati sin dall’entrata in Bulgaria senza farsi vedere. Sapevano che dormivamo fuori ed avevano paura che questo nostro modo di vivere e di viaggiare avrebbe potuto scuotere le menti di qualche giovane. Addirittura fermarono una macchina e la obbligarono ad accompagnarci diversi chilometri fuori città. Per noi è stata una fortuna perché non sapevamo come fare.

 

Si stavano restringendo gli sprazzi di libertà che la Roma imperiale ci aveva regalato solo qualche mese fa. La nostra residenza al Pincio stava per essere espugnata dalle forze dell’ordine, ormai l’aria si era infettata e dovevamo per forza andare via.

Vennero al buio come dei lanzichenecchi, saltarono il muro intrufolandosi nella fitta vegetazione, si strapparono qualche lembo di pelle e alla fine raggiunsero l’obbiettivo.

Erano soddisfatti, orgogliosi che finalmente avevano conquistato la roccaforte dei vagabondi, delinquenti incalliti pronti a perpetrare qualunque crimine pur di ricavarne del denaro.

Tristezza, amarezza, rabbia………..un intreccio di sensazioni sconfortanti.

Dovevamo sloggiare a tutti i costi.

Qualcuno venne portato dentro e trattenuto per un paio di giorni, altri fuggirono per non farsi riconoscere, altri ancora, tra i quali vi ero io, prendemmo con calma le nostre ridottissime cose, fornimmo le generalità e andammo via.

Solo la scalinata a quell’ora poteva accoglierci, difatti ci incontrammo tutti la per prendere delle decisioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

          Stranamente l’innata solitudine del vagabondo, in quel caso particolare si trasfigurò in un evidente bisogno di comunicare. Dovevamo per forza parlare, sapere degli altri, decidere cosa fare e se era il momento di abbandonare la nostra scalinata per rifugiarci lungo le Strade del mondo.

Sulla Strada sicuramente avremmo ritrovato il nostro paradiso e la nostra Libertà.

Non passarono molti giorni. Ognuno si rintanò dove meglio credeva, sparpagliandoci in silenzio sotto i nostri ponti o sotto qualche albero di villa Borghese.

Roma non ci conteneva più. Troppi controlli e troppi infiltrati.

 

Presi  la decisione di organizzarmi, andare al mercato, comprare lo zaino, raccogliere quanti più soldi possibili e mettermi al più presto all’entrata dell’autostrada per Firenze.

Franco e Mario improvvisamente scomparirono. Mi dissero che la polizia li prelevò direttamente da dentro una vasca romana mentre si bagnavano in mutande.

Non li rividi più, anche se per diversi anni, prima di iniziare le mie avventurose traversate in autostop per l’antico continente, passavo da Roma, chiedevo di loro………..ma niente.

 

Nel ’74, mentre ero a Roma con Pina, corsi verso un vagabondo a braccia aperte convinto che fosse Franco…..non era Lui.

Buio completo.

La fine di una storia era al culmine.

Inghiottiti dalla Strada o tracannati dalla legge!?

Mi rimarrà sempre questo dubbio.

 

L’alba di una mattina d’agosto mi svegliai infreddolito, mi raccolsi in silenzio, ammirai il silenzio degli altri vagabondi, ne sentii la forza e lentamente mi avviai a prendere il bus che mi avrebbe condotto all’imbocco dell’autostrada. Avevo qualche lira, poco cibo, niente acqua e la grande determinazione di andare a Firenze. Sapevo di altri vagabondi che mi stavano aspettando per invadere con i nostri zaini l’intera Europa.

L’ultimo giorno trascorso su quella scalinata lo vissi inserito nella mia immagine preferita: IL VAGABONDO.

Stetti l’intero giorno con lo zaino accanto, sdraiato sulla scalinata con la coperta militare per cuscino e fumando. Mi sentivo pieno della mia esperienza. La mente era occupata dagli ultimi avvenimenti.

L’incalzante presenza della polizia ha sfigurato quel bel sogno. Se fossi rimasto solo qualche altro giorno, lo splendore di quell’avventura si sarebbe annuvolato per lasciare spazio dentro di me alle ultime intemperie. Ho proprio fatto bene a decidere di andare via.

 

Presi l’autobus carico di me stesso e via, sgusciando in un anonimato silenzioso, senza creare scalpore, come solo un vero vagabondo sa fare, mi protesi verso un’altra storia.

Abbandonai la scena sommerso dallo stesso silenzio con il quale ero arrivato qualche mese prima. La Strada mi stava riassorbendo………..e ne ero confusamente felice. Partivo per Firenze………..ma ero poco convinto.

Ai piedi portavo un paio di scarpe nuove fiammanti che Franco mi aveva prestato. Sicuramente erano frutto delle tante razzie notturne che andavano facendo per le borgate romane. Stavo per riprendermi la mia Strada, lunga, piena di insidie e di insicurezze………però era la mia Strada dove vi camminavo a testa alta convinto che Essa non avrebbe tradito mai chi La voleva bene.

 

Scrissi FIRENZE su un foglio di carta, lo attaccai al petto e via………pollice destro rivolto verso il nord, con il vento in poppa e pieno di speranza mi piazzai all’imbocco dell’autostrada, l’ultimo di una lunga fila di autostoppisti che si dirigevano verso settentrione.

Mi sentivo orgoglioso di me stesso e nulla poteva trattenermi.

Volare era nulla paragonata al desiderio che avevo di “andare via”, viaggiare libero, solo con il mondo e abbandonato nelle mie mani.

Mi sentivo un esperto, ma la mia timidezza mi restringeva in un angolo.

L’irruenza che mi sentivo in corpo era contratta dal mio balbettare.

 

Non sono mai riuscito a fregarmene ed accettarmi così come sono. Ho sempre pensato, stupidamente, di creare fastidio in chi mi ascoltava o di suscitargli fugaci sentimenti di pena, che erano le uniche due sensazioni che non volevo stimolare negli altri. Facevo di tutto per mostrarmi senza “difetti”, addirittura preferivo rimanere in silenzio pur di non essere guardato con compassione.

 

………………ma chiedere un passaggio non richiedeva speditezza nel parlare. Una volta salito in macchina avrei risolto tutto come sempre ho fatto. L’importante in quel momento era partire, slacciarmi dalle catene che mi avevano trattenuto a Roma.

Ci eravamo dati appuntamento a Ponte Vecchio di Firenze e da li poi spostarci in blocco verso le “Cascine”, il grande parco attorno Firenze che in quegli anni serviva da raduni mondiali all’insegna della Libertà e della contestazione.

 

La vita per me ricominciava in quel momento, come se la lunga avventura estiva romana non fosse esistita. Non ero stanco e non desideravo tornare a casa. La frenesia del viaggiatore incantato mi era esplosa nuovamente dentro, e con essa era arrivata anche la certezza di andare avanti perché sicuramente avrei trovato ciò che cercavo.

L’intera Europa, con le sue piazze e i suoi ponti, mi stava aspettando. Non volevo perdere tempo………………forse avevo un inconscia paura di girare l’angolo e di rimettermi sulla via del ritorno.

Via………via, aspettavo un passaggio, ma nessuna macchina si fermava. Passavano le ore, vedevo sparire davanti a me tutti gli altri vagabondi…..ma la mia ora non arrivava. In mezza giornata da quel luogo si erano spostati solo pochi autostoppisti, prima di me ancora ve ne erano diversi, quindi l’attesa si trasformava in ansia, in fame, in sete.

Verso l’imbrunire, minacciose nuvole si alzarono in cielo e non davano segnali di sereno. Improvvisamente si misero a scaricare acqua colpendo in pieno la nostra determinazione. La smussarono, la lavarono e la denudarono………..alla fine, in un attacco istintivo di bisogno di certezze, attraversai l’autostrada, saltai lo spartitraffico e in pochi secondi mi trovavo, sempre con il pollice in alto, ma stavolta rivolto verso sud………….verso casa.

Ero dall’altra parte. Non me ne resi nemmeno conto, e con lo stesso ardore di prima continuai a chiedere passaggi alle macchine che sfrecciavano verso sud.

 

In un baleno avvenne il crollo.

La paura….l’indecisione…..gli affetti……la mancanza di denaro……l’incertezza di trovare amici……la solitudine……le retate della polizia…….la nostalgia di casa…….dei miei genitori……………attimi apparentemente vuoti, vissuti con istintività senza alcuna motivazione.

Mi sono sempre chiesto, tra tutti questi attimi, quale fosse stato il vero motivo che mi spinse a cambiare direzione e a dirigermi verso casa, verso quel mondo contestato dove la ribellione del singolo non viene assolutamente considerata.

Attimi che segnarono la fine di quell’avventura per ricacciarmi nuovamente nell’avventura di quella quotidianità che allora, e forse anche oggi, si viveva in un piccolo centro della Sicilia.

 

Per non rischiare di pentirmi di quel comportamento frenante, perpetrato verso la mia vera natura, giro il foglio di carta dall’altra lato e lo annerisco scrivendovi su: NAPOLI.

……e vai, senza alcuna tristezza verso quel “già noto” che mi stava aspettando.

Pensai a come raccontare agli amici quest’avventura. Se dovevo impreziosirla aggiungendo qualche rapporto con una bella francese o limitarmi a raccontare con freddezza il verificarsi dei fatti senza trascendere nel ribollimento interiore che l’esperienza mi aveva generato dentro.

Ormai ero sulla via del ritorno, e quei pensieri di fuga verso la Libertà simultaneamente si ridimensionarono e divennero immagini di normalità, si trasformarono in visi conosciuti, in azioni già ripetute negli anni……………la piazza del mio paese era riapparsa nella mia mente. L’avevo dimenticata, si era allontanata dai miei pensieri proprio nell’istante in cui salii su quel treno che mi trasportava verso la Libertà facendomi sentire subito a casa, nel mio ambiente naturale, proiettandomi istintivamente verso il mondo……..adesso stava riapparendo con tutto ciò che essa contiene in sè: Angoscia, senso di solitudine, incomprensione, esibizionismo, maschere, apparenze, omofobia, pettegolezzi, politicanti lecchini, religiosi bigotti, chiusure mentali……….

 

In pochi attimi la gioia di spaziare nel vecchio continente con zaino in spalla e pollice rivolto sempre verso il dopo, si ridimensionò.

Verso il nulla, questo pensavo. Verso il niente, verso le inezie della società bigotta………..è il momento di riempire tutti quegli interstizi vuoti con la pienezza di questa mia fantastica avventura. Dovevo farlo, definirmi “pieno” in quel vuoto che avrei trovato in paese e lentamente cercare di “colonizzarmi” gustando quel senso di assoluta Libertà che ho vissuto durante questi mesi di vagabondaggio.

 

Intanto quei nuvoloni che salivano erano diventati neri e stavano scaricando un mare di acqua su quegli ultimi autostoppisti rimasti. Non sapendo come proteggermi, mi ricordo, staccai un insegna stradale dai pali che la reggevano e la misi in testa. Ricominciai a sperare. Sfoderai un sorriso accattivante e iniziai l’avventura del rientro. Sapevo che stavolta sarebbe stato più facile perché ero rimasto da solo a chiedere passaggi, e poi, l’instabilità del clima avrebbe sicuramente suscitato una certa compassione e qualcuno mi avrebbe preso su.

Non stetti molto ad aspettare.

Una utilitaria mi prese scaricandomi al casello per Frosinone. Mi rimisi in strada e in poco tempo un'altra macchina mi caricò su portandomi fino a Ceprano, a soli 15 chilometri. Intanto era quasi buio e l’attesa per un altro passaggio mi stava sfiancando.

Continuava a piovere e le macchine mi sfrecciavano davanti senza nemmeno vedermi. Non esistevo, ero un puntino indefinito dal quale non sprizzava alcuna luce capace di accendere la curiosità di qualche guidatore. L’unica macchina che si fermò fu una gazzella della polizia per invitarmi ad uscire dall’autostrada. Feci solo alcuni passi e poi, appena possibile ritornai al solito posto.

Preferivo stare lì perché vi era un ponte sotto il quale potevo ripararmi dall’acqua.

 

Un buon autostoppista deve sapere che accettare passaggi di breve tragitto è conveniente solamente quando ci si sposta su strade provinciali o nazionali, mentre quando ci si muove in autostrada bisogna farsi lasciare all’imbocco del casello e principalmente in caselli affollati da macchine che fanno lunghi tragitti. L’inesperienza, in questi casi, determina scelte errate, senz’altro condizionate dall’ansia che si è accumulata sulla strada in attesa del primo mezzo di locomozione che ci carichi su.

Un errore imperdonabile che quella volta pagai amaramente.

 

Le macchine e i camion mi trascinavano sulla loro scia, tanta era la velocità. L’unico contatto che ebbi con essi mi fu offerto dal grande spostamento d’aria che ogni volta mi causava un sussulto. Ormai il buio era cupo e l’acqua scrosciava sempre con più ardore, non riuscivo a identificare quale tipo di macchina mi sfrecciasse davanti, tanta era la velocità. I fari mi stringevano in un angolo facendomi tremare di paura.

Decisi di stendermi sotto il ponte per attendere l’alba e potermi rimettere di nuovo a chiedere passaggi. Mi distesi su un terrapieno per evitare lo scorrere dell’acqua, non dopo aver disteso la coperta militare che tenevo nello zaino. Cercai di dormire, di guardare oltre la paura che ne sentivo l’incalzare man mano che il buio avanzava. I fari mi saettavano sugli occhi facendomi strizzare le palpebre come se li volessi proteggere. Avevo occluso il pollice destro tra il calore del palmo della mano sperando in un suo miracoloso intervento il giorno dopo. Lo coccolai per pochi minuti, dopo un po’, non riuscendo a prendere sonno per via dei morsi della fame e del bisogno di acqua da bere, mi scrollai di dosso la stanchezza, raccolsi la coperta dentro la zaino, mi alzai e mi avviai sconfortato verso l’uscita dell’autostrada.

Presi la direzione per Ceprano sperando di trovare la stazione dei carabinieri ancora aperta. In quelle poche ore avevo preso la decisione di consegnarmi alla “forza” a mani aperte per farmi “recapitare” a casa.

Sapevo di altri vagabondi che avevano preso questa decisione in un momento di sconforto. Bastava togliersi di dosso qualche formula borghese al quale non volevo sottomettermi, e l’essenza stessa del “vagabondo” si sarebbe trasferita e rinnovata in un altro Nuccio……amante sempre della Libertà ma con un piccolo passo falso sul groppone.

Preso per fame e per desiderio di trovarmi subito a casa, entrai in paese a piedi con lo zaino sulle spalle, barba lunga, zoccoli ai piedi e stanchezza stampata sul volto.

Ancora il paese era vivo e la strada principale era piena di giovani, quindi trovare la caserma non mi fu difficile. Pressai sul campanello e dalla guardiola qualcuno mi gridò cosa cercassi a quell’ora.

 

-         Ho bisogno di parlare con qualche carabiniere.

-         Come mai lo cercate! Cos’è successo?

-         Ho bisogno di acqua e di pane e poi vorrei essere “spedito” a casa perché non ho i soldi per ritornare.

 

Scosse il capo e aprì la porta solamente per dirmi che loro, come caserma di un piccolo comune, non potevano fare nulla. L’unica cosa che potevano fare era quella di offrirmi un panino e accompagnarmi alla stazione dei treni per andare a Frosinone o a Cassino, in un caserma più grande. Decisi per Frosinone e in pochi minuti mi trovai seduto in un angolo della stazione per salire sul primo treno che andava verso la città.

Cercai di vendere l’orologio per ricavare almeno i soldi per pagarmi il biglietto. Niente da fare. L’unica risorsa consisteva nel darmi una spinta e salire sul primo treno che passava senza biglietto in mano. Fu proprio così che feci.

Era l’una di notte e mi veniva impossibile questuare qualche lira.

La stazione non era in centro. Chiesi 50 lire per prendere un tram e via, ad affrontare l’ultimo ostacolo.

Non fu difficile, difatti in meno di un ora mi trovavo su un macchina della polizia che a sirene spiegate mi stava conducendo alla stazione per salire sulla tradotta militare che tra poco sarebbe passata da Ceprano diretta verso Napoli.

 

Tutto così in fretta senza avere il tempo di realizzare cosa stesse per capitarmi.

 

Un Nuccio stanco, con un pesante zaino sulle spalle che mi costringeva a camminare con passo pesante.

Nuccio il vagabondo vinto dalle intemperie e dalla fame che si avviava verso le sicurezze che prometteva la casa.

Nuccio solo, mentre al buio, sollecitato dal latrare dei cani, percorreva gli ultimi chilometri che lo separavano dal paese.

Nuccio ritornato ad essere un ragazzo impaurito, timido, scrollatesi di quella sicumera acquistata durante l’ultima avventura vissuta da vagabondo sulla strada, mentre si rivolgeva all’odiata  “forza” per essere aiutato.

 

Tutto in meno di un ‘ora.

Mi trovavo su una tradotta militare assieme a militari di leva che rientravano a casa, cercavo di riandare con la mente ai fasti di qualche giorno fa, ma non riuscivo a non pensare a casa. Volevo subito trovarmi tra le mie mura di certezze, anche se sapevo che in soli pochi giorni le avrei “sconfezionate” da quell’alone di false verità sotto le quali si camuffavano………………..ed avrei ripreso con i miei viaggi, con le mie avventure e con i miei sogni.

In jeans sbrindellati, tra tutti quei militari, mi differenziavo anche senza volerlo. In quel momento preferivo l’anonimato, non ero nelle condizioni di sostenere un interrogatorio. Ero colmo del “malo” modo come era finita quell’avventura, e non sarei riuscito ad essere sincero con me stesso  semmai qualcuno mi avesse chiesto qualcosa. Sembrava che un altro Nuccio avesse vissuto quell’esperienza, il Nuccio del momento era un'altra cosa da quello.

 

Quello era un eroe………….l’attuale era un “assuefatto”.

Quello riusciva a volare………..l’odierno era tarpato sotto le proprie ali.

Quello rideva a cuore aperto……..questo Nuccio sorrideva a denti stretti.

 

Tenevo stretto il biglietto per Catania, ormai, pensavo, l’unica cosa che avrebbe potuto farmi soffrire sarebbero state le strette della fame, qualsiasi altra cosa mi avrebbe semplicemente sfiorato.

Cercai di rimanere in silenzio per oscurarmi dietro i miei pensieri, a Napoli avrei risolto anche questo problema. Era quasi l’alba quando arrivai nella città partenopea, il treno per Catania sarebbe arrivato tra meno di un ora, quindi potevo benissimo procacciarmi qualche tazza di latte e caffè per sostenermi almeno fino all’arrivo.

L’ebbrezza del sentirsi libero stava transumando verso la freddezza di una libertà coatta, concessa a pezzettini da un ambiente fortemente bigotto e conservatore.

 

Stai attento a non esporre pubblicamente le tue idee, mi diceva sempre mio padre, potresti precluderti la possibilità di un buon lavoro. Rispetta le autorità, osserva le prescrizioni della società………..NON parlare male del prete, NON vestire in modo “scorretto”, NON portare mai schiaffi in casa, NON fumare, NON giocare al bigliardo, NON portare i capelli lunghi……………una pletora di divieti e di cose da fare in un certo modo se vuoi considerarti addentellato con la società, se no sei fuori e la tua vita sarà un calvario.

Pensavo queste cose e non mi sentivo di rientrare a casa. Dovevo fare qualcosa, dovevo almeno togliermi questi pensieri dalla mente. Mi avrebbero torturato e risospinto ad andare via dopo solo alcuni giorni.

 

In quegli anni la vita in un piccolo paesino del sud era veramente accecante. Non ti permetteva di transitare oltre quel frenante conosciuto. Pochi spazi e poca possibilità di sognare. Reclusi in una realtà apparentemente disponibile, mentre invece sotto sotto ardeva il fuoco del conservatorismo, bruciava la vampa del bigottismo e infiammavano i roghi delle false indulgenze.

Non si era capiti, o meglio……….non si volevano volontariamente capire le richieste di libertà avanzate dai giovani e dalle poche menti libere. Doveva procedere tutto allo stesso modo di prima. Il solito circolo universitario e professionisti, la solita “fraternita” religiosa, i soliti partiti politici, i soliti primi della classe, il solito rispetto alle persone influenti, il solito sorriso ipocrita per nascondere la sofferenza che si porta dentro, il solito passeggiare in piazza con i soliti discorsi preconfezionati, la solita borghesia a sentenziare l’unica verità…………………..il solito prete e il solito maestro a strimpellare sempre la solita musica per i soliti uditori che esprimevano sempre il solito parere: “bene………va tutto bene”.

 

Sul treno per Catania, mi ricordo, rimasi in silenzio assoluto.

Cercavo di rintracciare motivi validi che mi trattenessero nel mio paese. Deformavo la realtà per assuefarla alle mie esigenze, me la immaginavo più aperta, meno supina alle formalità borghesi…………………..cosa avrei voluto dalla mia terra per non sentirmela sfuggire dal mio cuore?! Come l’avrei voluta?! Quale profumo avrei voluto che emanasse per ammaliarmi?!

L’amore per la propria terra forse non bastava per trattenermi….ci voleva qualcosa di più, più umano, più comprensivo, più eccitante, più evoluto. Forse mancava la giusta apertura mentale, anche da parte mia, per accettare le cose “così come erano” senza costringerle ad un cambiamento che non le apparteneva, almeno in quel momento. Forse dovevo essere io a smussare per primo le mie “intransigenze”, forse ero corso troppo in avanti, avevo fatto balzi da gigante, mentre essa si spostava con passi da lumaca e i cambiamenti le correvano sotto i piedi senza riuscire a pesarne l’essenza.

Non decisi nulla, sentivo il desiderio di ritornare a casa perché volevo abbracciare tutti e raccontare l’avventura a tutti.

 

Arrivai a Catania in un pomeriggio afoso. Era la fine di agosto e la stazione pullulava di viaggiatori e di “emigranti” che rientravano alle proprie sedi di lavoro, vi era anche qualche vagabondo con i suoi possedimenti sulle spalle pronto a saltare sul primo treno che lo conducesse verso la Libertà.

Non ero solo, menomale, pensai.

Qualcuno sta continuando a portare l’emblema della propria sovranità. Un potere supremo autogestito da sé stessi rivolto esclusivamente a sé stessi. Non più ne meno.

 

Incontrai Turi Taormina, un mio amico di Motta………

 

………..mi ricordo quando nel gennaio del 1970 partii da Catania in autostop da solo alla volta di Parigi per andarlo a trovare. Da sei mesi lavorava all’ambasciata d’Italia in questa immensa metropoli e, da buon giramondo, non potevo farmi sfuggire quest’opportunità. Vi arrivai dopo diversi giorni all’una di notte e, non sapendo cosa fare, chiesi dell’ambasciata italiana che stava a rue du Varenne. Suonai un campanello e qualcuno mi rispose in francese chi cercassi a quell’ora.

Monsieur Taormina, je suis Nuccio dalla Sicilia, dissi in un mio stentato francese. Dopo pochi minuti la sua voce tuonò al citofono: “……….disgraziato, a quest’ora di notte mi viene a cercare, proprio all’ambasciata italiana……….” Scese subito dopo, ci recammo a Rue Turbigò dove con amici aveva affittato un appartamento…………….e un'altra avventura prese l’avvio.

 

…………….al quale chiesi subito qualche soldo per comprare un panino e per prendere un autobus per casa. Mi raccontò le ultime novità del paese e mi disse anche sulle tante voci che in questo periodo erano state rovesciate su una mia presunta scomparsa.

Fu il primo abbraccio del mio paese.

Evidentemente non era cambiato, si era avvitato ancora di più su se stesso manifestando la sua vera natura di piccolo mondo ristretto tra le sue quattro mura grondanti di formalismo e di rifiuti a priori.

Scesi dall’autobus in piazza, rividi le solite facce e le solite risatine di meraviglia. Fui circondato da qualche amico e in un afflato “assimilante” mi sentii ricapitombolato nel solito tram tram paesano immemore della grande avventura che avevo vissuto.

 

Ciao Nuccio, sei ritornato……come stai, come va, ti sei trovato bene, dove sei stato, ti sei divertito, hai avuto esperienze con donne, come sono le donne…sono più libere, più facili, e i capelloni, e il fumo, dove dormivi, cosa fumavi, le fiche, le fregne, i fregnoni di Roma, il Pincio………………..dai raccontaci tutto.

Mio padre stava in piazza  come tutte le sere, dalla piccola folla che si era creata capì che il “figliuol prodigo” era ritornato. Non avevo scritto nemmeno un rigo e nemmeno telefonato, quindi la loro ansia era comprensibile.

-         Ciao………tunnasti!!

Baci e occhiate di vergogna. Ero veramente sporco e veramente barbone.

La sera stessa ripresi le mie passeggiate in piazza sperando di scorgere la mia Pina, l’unico mio vero legame con la mia gente che non si è mai allontanata dai miei pensieri e dal mio cuore.

 

Da quell’avventura mi rimase una pienezza assoluta.

Seppi cosa fare della mia vita e mi esplose dentro un Amore per la Vita stessa considerandoLa una manifestazione Divina dentro la quale l’Assoluto stesso vi vive in pienezza.

 

………………..mi sibila ancora oggi quel suono di sirene spiegate con le quali la “forza” mi accompagnò alla stazione di Frosinone per non farmi perdere la partenza di quella tradotta verso un Nuccio risvegliato…………….

 

 

Nuccio guarnera                                           22 marzo 2009

 

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