V I A G G I A N D O..……c o m u n q u e

 

                                                                       dal 1971 in poi………………

 

 

Settembre  2005                                                        nuccio guarnera

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Da diversi anni mi trascinavo questi appunti scritti a mano  su  fogli di carta volanti, senza mai  trovare il momento giusto per renderli pubblici.

Grazie alla mia cara amica Ida Bonanno,  alle sue doti letterarie e alla  passione con la quale ha  trascorso intere ore a correggere e a rivedere questo  scritto, posso oggi finalmente far conoscere un periodo molto intenso, formativo ed importante della mia vita.

 

Parlo soprattutto di viaggi…………di vagabondaggi in giro per il mondo e della meravigliosa scoperta del mio maestro, grazie ad una piccola foto che nel lontano 1971 comprai a Bombay.

 

La scoperta del mondo……..e di me stesso…….., attraverso i viaggi, inizia nel 1966 quando con Pino mi recai a Roma spinto dall’influsso ammaliante   del movimento beatnik, che proprio in quegli anni incominciava a coinvolgere l’esplosivo mondo dei giovani che stavano per transitare dal dissoluto mondo esistenziale all’impegno politico e dal colorato mondo dei fiori alla contestazione globale.

 

Dal ’67 al ’70 ebbi la fortuna, spinto dall’appasionante desiderio di vivere lungo le strade del mondo, di spostarmi per l’Europa in autostop seguendo le orde di quei vagabondi che, nelle piazze principali delle grandi città, si incontravano per cantare a voce alta la rivoluzione e la “libertà ritrovata”.

 

Il racconto di questa mia avventura inizia proprio quando nel 1971 parto verso l’India  stimolato da un curioso annuncio affisso nella bacheca dell’ostello della gioventù a Monaco.  La mia coscienza si illuminò improvvisamente, e in un momento di risveglio, mi spinse, in piena consapevolezza,  a rispondere “di si” a quell’annuncio .

Il messaggio diceva espressamente che si cercavano ragazzi avventurosi, anche se con pochi soldi, per andare fino in Afganistan partendo in macchina da Monaco.

 

……………così inizia la mia meravigliosa avventura……………………………..   

     

 

 

 

26  settembre  2005                                            nuccio guarnera

 

nuccioguarnera@virgilio.it  

 

 

 

 

 

1971                        VERSO  LA  LIBERTA’

 

        

 

 

          

 

               L’India del 1971 mi accolse con un grande abbraccio, come se volesse ripagarmi degli immensi sacrifici sostenuti lungo le strade di mezza Asia.

In quel periodo in occidente, che lasciavo dietro le spalle, imperversava la

“rivoluzione culturale” importata dalla grande Cina di Mao.

Le fervide menti di tanti giovani, indurite da anni di ribellione   verso la cosiddetta società civile, vagavano per la vecchia Europa alla ricerca di stimoli  nuovi ed eccitanti, dato che le speranze in una vita migliore e più libera, riposte nei vari ideali per i quali avevano lottato e sognato, erano state disilluse.

I delusi in quegli anni eravamo in tanti.

Dal ’68 in poi il mio impegno nel sociale, trascorso nei lunghi anni a cantare ad alta voce le canzoni della beat generation, si era confuso con quel grande movimento di studenti e di lavoratori che lottavano per la libertà, per una vita migliore e per l’immaginazione al potere. 

Lasciavo l’occidente portandomi appresso tutte le mie esperienze fatte di scontri con i fascisti, di occupazioni universitarie, di “bivacchi culturali” in tutte le piazze d’Europa e di lunghissimi spostamenti   in autostop da  un punto all’altro del vecchio mondo.

Questo abbandono, forse perché di moda, forse perché qualcosa in quella terra d’oriente mi chiamava per iniziare il mio cammino, aveva, nel silenzio del mio subconscio, preparato  la mia strada e il mio risveglio alla luce del Mio meraviglioso Maestro.

In realtà, tutto l’occidente intellettuale che in quegli anni si spostava, con il corpo e con la mente, verso l’oriente portava con sé il proprio mondo:quella cultura autoritaria e razzista, quei falsi miti verso i quali il ’68 aveva lottato, quel tipo di società elitaria che discriminava il diverso, quella spiritualità falsa  invischiata in riti religiosi   lontani  dalle richieste interiori dell’uomo , quello stile di vita nascente plagiato dal consumismo più sfrenato…………..

Ormai già da tempo gli “arancioni”, accompagnati dai loro cimbali, giaculando il loro grande Mantra ( “Hare Krishna Hare Krishna, Krishna Krishna, Hare Hare,

Hare Rama Hare Rama, Rama Rama, Hare Hare”) erano accanto a noi che, ammaliati da tutto questo affascinante mondo, stavamo abbandonando le armi della rivoluzione  per divenire figli dei fiori, prenderci per mano e correre verso questa nuova fonte di libertà………che in avvenire divenne la mia fonte di luce.

Così, verso giugno, corsi anch’io verso l’India.

 

 

                   Alla fine di agosto del ’71, mentre le violente piogge scemavano la mia volontà, mi ritrovavo a camminare con passi lenti lungo le strade di Bombay sommerso da tristi pensieri.

Spingevo il tempo con la forza della disperazione per farlo passare in fretta. L’esperienza con l’oriente mi aveva scioccato e ridotto allo stremo delle forze.

Ero solo, stanco, respiravo male……..ero molto dimagrito e non desideravo altro che tornare a casa…..nella sicurezza……

 

 

Prima di partire non mi ero soffermato un attimo a ripulire la mia mente: sognavo il mondo migliore e diverso, raccontato dai tanti miti viventi del rock e dall’intellettualismo esistenziale.

In realtà non mi ero reso conto della pulizia mentale che bisognava effettuare intraprendendo una simile avventura:  liberare la mente da verità consolidate, il corpo proteso liberamente verso spazi aperti senza alcuna preclusione nei confronti di nessuno, lo spirito libero dalle false esigenze della materia………….

Bisogna avere dei punti fermi, una fede incrollabile nell’esistenza di un Dio che non vive fuori di noi, ma in noi, facendosi UNO con noi stessi e con il mondo intero.

Questa certezza mi mancava, quindi ero facile preda della paura la quale al primo ostacolo materiale mi colpiva violentemente deprimendo la mia mente.

 

………………..il vecchio permette al nuovo di emergere solo quando le verità già acquisite si lasciano abbracciare dalle nuove, con consapevolezza, poiché niente è superiore a niente, tutto si dissolve nel momento presente ed è in assoluta relazione con tutto…………………..

 

La mia crescita, definita allora “politica”, mi imponeva, erroneamente, di non accettare nulla se prima non fosse stato sottoposto ad una analisi critica,  poi razionalizzato e, solo alla fine, se le condizioni erano  “politicamente condivisibili”, fatto proprio.

Dovevo per forza rendere tutto comprensibile ed empiricamente dimostrabile.

 

         ………..Quanto è bello invece porsi alle “cose” con una mente da           

         principiante.

         Essere vuoti e riempirsi della bellezza della natura.

         Respirare il momento presente ed impregnarsi dell’esistenza di Dio.

         Essere sempre disponibili alla vita così come è…………

         ……………e amare senza discriminazione.

         Solo nella piena consapevolezza che tutto è Dio può trovarsi la felicità

         e la gioia di vivere……….

 

 

 

 

 

 

 

                

 

                  

 

            In un bugigattolo stampato a muro, pieno di cianfrusaglie indiane, con delle Bidi accatastate l’una sull’altra a forma di pire, con delle foglie di Betel pronte ad essere infagottate con spezie varie e masticate dalle sanguinolenti bocche degli indù…… in un angolino, in mezzo a tutte questa confusione, proprio accanto alle divinità famose indiane, stava una piccola foto plastificata che raffigurava un giovane ragazzo con una fluente criniera di capelli.

Era con la mano destra alzata e stava in piedi coperto da un saio colore arancio.

Era l’unica.

Si stagliava su tutte le altre perché raffigurava un’entità umana.

Le altre foto rappresentavano divinità induiste miste tra l’umano e l’animale.

………Quella piccola foto mi colpì………..!

Mi chiesi esterrefatto, rimanendo sempre nella mia razionalità: Come mai un ragazzo, capelluto per giunta, era esposto, quindi venerato, sullo stesso altare accanto al variegato e colorato mondo delle mistiche divinità induiste?

In quel momento non mi seppi dare una risposta.

La comprai!!!

 

Da quel momento in poi quell’immaginetta entrò nella mia vita…. cambiò la mia vita…….

Rappresentava l’Avatar, Dio fatto uomo, disceso sulla terra proprio perché la grande sofferenza dell’uomo, ormai insostenibile, ne aveva, inconsapevolmente, dal profondo del cuore, fatto richiesta…...ma io…….non potevo ancora saperlo.

Anche le scritture sacre parlano di questo Dio che, al momento del bisogno, quando la vita sulla terra diventa sofferenza, prevaricazione, lazzaretto per i più deboli………. si “rende uomo” per riequilibrare le regole divine.

In quella foto era raffigurato SRI SATYA SAI BABA, l’Avatar odierno, al quale con grande Amore, da quel preciso istante, inizialmente senza rendermene conto,  dedicai, e ancora oggi la dedico, nel pieno della mia coscienza, ogni mia azione.

Lui………. quando decide di entrare  nella vita di qualcuno, vi entra senza creare squilibri……………..in punta di piedi.

Scivola con grazia nella mente e nel corpo del prescelto,  ne risveglia lo spirito

acquattato nel silenzio della coscienza addormentata dalla materialità e prorompe nel suo quotidiano ammantando il tutto col Suo Amore.

 

Di tanto in tanto l’epopea della foto si risveglia nella mente riportandomi indietro e facendomi considerare che:

 

Dio non si presenta mai per caso.

In Dio vi è un progetto.

Il Suo progetto si amalgama sempre con la vita umana.

Lui determina il caso usando noi come veicoli, affinché il Suo programma

si realizzi come Lui stesso lo ha progettato.

Quella volta, quel giorno, a quell’ora ci siamo cercati entrambi.

Lo cercavo anche Io.

 

 

In quel periodo odiavo l’India.

Essa mi aveva fatto soffrire moltissimo nel fisico….e prostrato nella mente.

Ero reduce da una disastrosa dissenteria la quale mi aveva distrutto riducendomi ad una larva umana.

Quale Amore potevo nutrire per questa terra!!!!

Sentivo solo odio, rabbia ed avevo una grande paura di non poter tornare più a casa…………

La foto era stata acquistata perché poteva essere un ulteriore elemento per ridicolarizzare  questo paese agli occhi di tutti:

L’India che muore nell’apatia dell’attesa……….

L’India che affoga tra la merda di tutte le sue vacche………….

L’India feudale delle caste…………..

L’India della gente che spinge e ti chiede l’elemosina………

L’India della gente che muore tra le strade………..

L’India che santifica ragazzi capelluti e Gli si rende schiava……….

 

Non la misi mai in evidenza in questo senso!!!!....

Addirittura, come se già il potere condizionante di quella piccola foto stesse agendo su di me, ricordo che al mio ritorno parlai molto bene dell’India difendendola da chi denigrava il Suo alto valore spirituale ed educativo.

La usai a lungo come segnalibro…….. poi improvvisamente scomparve…………..

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            Intanto, mentre quella piccola immagine stava immota ad aspettarmi in quel fatiscente bugigattolo dell’India, io, sebbene ammaliato dall’Oriente, avevo inizialmente preso la decisione di partire in autostop per attraversare l’Europa, soprattutto per ritornare in Polonia dove, assieme a Pino, l’anno prima avevo conosciuto delle stupende ragazze.

Ormai mi sentivo cittadino del mondo e, per la grande esperienza accumulata negli anni precedenti, attraversare la vecchia Europa in autostop, partire da casa senza soldi, correre sulle strade chiedendo passaggi a chiunque per arrivare in breve tempo in qualunque zona, per me e Pino era un semplice gioco.

Negli anni precedenti le varie avventure amorose si erano intrecciate in ogni angolo del vecchio mondo sino alla evoluta Scandinavia.

Le polizie di diverse nazioni avevano annotato accanto al mio nome, riempiendomi di orgoglio:  VAGABONDO SENZA FISSA DIMORA.

Mi ricordo che passai da Roma fermandomi tre giorni per ottenere dei visti per entrare in diverse nazioni.

Nel frattempo corsi, assieme a Pino, a Trinità dei Monti nella speranza di rintracciare vecchie conoscenze di vagabondaggio con i quali tre anni addietro trascorsi la mia prima esperienza da vagabondo.

 

Vissi un lungo mese, era il 1968, a dormire sotto i ponti del lungo Tevere e sulle gradinate di Piazza di Spagna, nel giardino di Villa Borghese e nei vagoni ferroviari in disuso a ridosso della Stazione Termini, come ospite indesiderato presso l’Esercito della Salvezza e in qualche commissariato locale trattenuto per normali controlli sui vagabondi, che in quel periodo riempivano le strade di Roma.

Non mancavano gli “arancioni”, ormai presenti in tutte le piazze, ad attirare le menti incantate di tanti giovani.

Tutti i casinisti, pronti a litigare con chiunque, si mischiavano tra questo eterogeneo mondo colorato nella speranza di agganciare qualche ragazza

frastornata da tanta musica e tanto colore.  

Quelle esperienze, assieme a tante altre vissute negli anni procedenti, mi aiutarono molto in futuro.

Non riuscirono però a sostenermi durante l’avventura indiana dalla quale ritornai stremato e fortemente deluso.

L’India richiede un altro tipo di esperienza, che io ancora non avevo.

 

Mi rimisi presto sulla strada e in breve tempo, in autostop insieme a Pino, attraversai l’Italia e l’elegante Svizzera per approdare nel fantastico mondo della città di Monaco di Baviera.

In quegli anni Londra, Amsterdam e Monaco erano il centro del mondo.

Alla marea di vagabondi si affiancavano stormi di intellettuali che, svolazzando da un punto all’altro della città, stavano nella speranza di recepire nuove idee sulla rivoluzione che vivevano. Tanti erano le menti che vi approdavano da tutto il mondo che, il solo stargli accanto, si pensava, poteva rinverdire quelle idee sulla rivoluzione, che rischiavano di decadere in una mera esibizione culturale.

Cosa cercavano??? Chi cercavano??? Dove stavano andando???

Ognuno di noi era una vita in fermento.

La droga ancora non era entrata nella nostra mente, quindi vi era una grande possibilità di movimento.

Non eravamo ancora presi da questo infame strumento di potere che, proprio in quegli anni, veniva lanciata sul mercato per distruggere sul nascere le fervide potenzialità rivoluzionarie della nascente classe giovanile.

L’immaginazione era la nostra salvezza.

Monaco era la speranza di tanta gente con simili sogni,  tutti differenti l’uno dall’altro.

Ognuno proveniva da una storia diversa, personale, però la sera ci  ritrovavamo tutti uniti  attorno ad una chitarra per cantare sulle note di un blues le malvagità di una guerra che in quegli anni opprimeva popoli interi.

Nel frattempo le mie conoscenze si allargavano.

Formammo un gruppo di vagabondi tutti italiani, sentendoci così una potenza.

Di notte dormivamo davanti l’ostello della gioventù e di giorno vi entravamo alla spicciolata per sfruttarne i servizi e cercare di conoscere qualche ragazza.

Ogni giorno ingaggiavamo liti furenti con i gestori dell’ostello perché non ci volevano dentro e, quando la polizia tedesca cercava di fermarci per rispedirci in Italia, le fughe erano talmente precipitose da rischiare di essere messi sotto una macchina.

La vita era molto tranquilla, a parte i problemi con la legge.

 

Ad Amsterdam lavoravo (era il 1970), dandomi i turni con Pino, in un ristorantino cinese, un po’ distante dal centro. La paga era molto bassa, però potevamo mangiare a sazietà. Tutto il tempo libero lo dedicavamo a raccogliere bottiglie di vetro per riciclarle, a chiedere, suonando un flauto, qualche soldo alla gente e a cantare la nostra musica in piazza Dam.

Mi sentivo libero come non mai.

Dormivamo tutti in piazza o sotto le gallerie dei centri commerciali.

La pacchia finì appena i nazionalisti, spinti da un viscerale amore per la patria………., si misero a ripulire la città a modo loro.

Noi sporcavamo il loro salotto, dicevano, quindi dovevamo sloggiare a tutti i costi.

La città divenne veramente un inferno.

Il pericolo non era di giorno, ma principalmente di notte quando, organizzati a bande, davano fuoco con della benzina ai vagabondi che dormivano per strada.

Qualcuno di noi finì in ospedale.

Con Pino decidemmo di partire verso il Belgio e poi per Parigi.

Avevo degli amici, quindi ci fermammo per un lungo periodo.

 

A differenza di Amsterdam, definita per antonomasia la capitale dei beatnik di tutto il mondo e dove la polizia lascia vivere con maggiore libertà, Monaco era tristemente famosa per le sua retate  notturne praticate dalla terribile “polizei”.

Tuttavia in quel periodo si viveva veramente bene.

Eravamo un bel gruppetto uniti dalla passione per il viaggio e dal comune ideale in una società migliore.

Quando Attilio Angelo Aleotti di Pavullo nel Frignano, a lunghe falcate, scese dalla Svezia, inebriandoci con le sue avventure avute con le biondissime scandinave e con le varie disavventure sostenute nelle frontiere di mezza Europa, ci trovò disposti ad ascoltarlo senza battere ciglio.

Pendevamo dalla sua bocca.

Era il maestro di tutti i vagabondi italiani.

La sua tesi, quando qualche anno dopo si laureò, presentata all’Università di Bologna, riguardava la vita vagabonda degli Hobos americani.

Egli la espose dinanzi al comitato accademico presentandosi con lo zaino pieno di bottiglie di vino, dove alla fine ne stappò qualcuna con fragore festeggiando la laurea assieme ai professori.

Il titolo emblematicamente esprimeva la sua indole: “OVUNQUE COMUNQUE”.

Negli anni a venire lo rividi diverse volte, ed ogni volta non finiva mai di strabiliarmi. 

Vive in Sud America lavorando per l’Unicef e l’Onu.

Ancora l’India non mi era entrata nella mente!

Mi volevo divertire, cantare, vagabondare e fare l’Amore!

Stranamente però, prima di partire da Catania, senza pensare ad alcun viaggio in oriente, (infatti a Roma presi i visti per la Cecoslovacchia e per la Polonia), andai in ospedale a vaccinarmi contro il vaiolo e il colera.

In Europa non era richiesta alcuna vaccinazione, eppure le feci.   

Perché!!!!!!!!!!

Dio mi stava chiamando????!!!!.....

 

“L’immanente Sua presenza trascende persino le cose scontate.

Quando lo decide……… ENTRA.

Squarcia la mente e inesorabilmente si aggancia allo spirito di colui che vuole coinvolgere.”

 

Evidentemente l’immaginetta di Bombay mi stava aspettando.

Chissà da quanti anni stava lì!

Qualcuno la mise in quel luogo proprio per me!

Mi apparteneva da sempre!

Ci siamo, sicuramente, rincorsi a lungo e alla fine……………ci siamo ritrovati!        

Lei era lì per me……………..io, quel giorno, fui lì per Lei!

Negli anni a venire, quando Sai Baba era entrato definitivamente nella mia vita, presi l’abitudine di lasciare, durante i miei viaggi, delle piccole immagini del Mio Maestro in tutti gli hotel che frequentavo e su tutti i mezzi di trasporto che prendevo.

Un altro Nuccio troverà, diciamo per caso, questa  foto in un hotel cinese o su un autobus malgascio o in un battello birmano………..e allora la storia si ripeterà e avverrà un nuovo miracolo voluto e preparato da Dio e messo in atto da me che gli sono servito da tramite.

Si pensa, erroneamente, che l’uomo per svegliarsi a Dio abbia bisogno della chiamata, invece, secondo me, dal momento in cui l’alito della vita anima il corpo, Dio non ha bisogno di alcuna chiamata o di essere risvegliato.

Dio vive in noi!

Noi stessi siamo Dio…………e Lo siamo in qualsiasi circostanza…….di risveglio o di apparente sonno.

L’essenza Divina è sempre presente, in tutte le situazioni!

Bisogna solamente vivere il momento presente nella consapevolezza che Dio è ASSOLUTAMENTE PRESENZA CONTINUA IN TUTTO.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Cerco ragazzi disposti a farmi compagnia in macchina sino in Afganistan.

Si parte con una Peugeot 505 Station Wagon.

Contattatemi questa sera al ristorante dell’ostello”.

                                                                                          Mohamed

 

Questo annuncio, affisso sulla bacheca dell’ostello, colpì e eccitò  la mia immaginazione.

Aspettai l’afgano e, senza alcuna esitazione, gli donai la mia completa adesione.

Mi chiese solamente 30 dollari……….e tutto era fatto.

Iniziavo così una nuova sfida con me stesso.

Non immaginavo lontanamente verso quali pericoli andavo incontro.

La spinta che ricevevo, inconsapevolmente, dal di dentro era molto forte.

Non potevo fermarmi proprio adesso quando ciò che desideravo con tutto me stesso mi si era presentato liberamente senza alcuno sforzo.

Tutti mi sconsigliavano di imbarcarmi in questa avventura.

………..non parli inglese!…..sei senza soldi!………quei luoghi estremi non fanno per te!………i tuoi genitori?……..e le donne che ci aspettano in Polonia e a Berlino? ……..chi se le pappa?………non partire!.........

Questo rimuginavo con me stesso ripetutamente……

Ormai ero già in viaggio!!!!.....

La mia mente fantasticava……………..e già andava lontano.

Le ultime due notti trascorse a Monaco, stavo sdraiato a terra, dentro il sacco a pelo e guardavo le stelle: come era bello correre, sempre con la solita mente, in quelle terre lontane!!!!

Quella volta la mente mi fu amica……………….in genere non lo è!

 

La sua tendenza implicita è quella di mantenersi radicata alla materia e, quando intuisce un pericolo, nel senso che corpo e spirito si stanno per convincere  di essere UNO, sfodera con furbizia le armi, proprie della mente, per difendersi e non lasciarsi assimilare dalla ritrovata consapevolezza che tutto è Dio.

In oriente viene chiamata “MAYA”, l’illusione.

Rende reali o irreali realtà vere…..o non vere.

Fa vedere lucciole per lanterne appena il corpo asseconda il sentire del cuore e lo spirito cerca di riprendere il sopravvento sulla materia.

E’ un nemico che vive assieme a noi e…….non possiamo farne a meno…….anche essa non può fare a meno di noi…….. 

Buddha dice di cambiare la mente……..

Shankara di eliminarla………

Aurobindo di usarla come mezzo evolutivo e di transizione verso un nuovo uomo che sia il compendio di “crescite evolutive sempre in positivo”…………

Sai Baba di vederla come una manifestazione divina perchè anche essa  è Amore……….

Nisargadatta di non considerarla, dato che è proprio nel suo dharma agire in questo modo…………….l’importante non dimenticare l’IO SONO QUELLO………..

 

 

 

“Questa mente così eterea e così materiale…….

così comprensiva e così distruttrice,

così amorevole e così odiosa…..

così benevola e così nociva……

che può tutto e che non riesce a fare nulla……..

……….. bisognerebbe accettarla così come è……

dato che tutto è DIO.”

 

 

 

Quanta gente avrei visto!!

Quanti fiumi avrei attraversato!!

Deserti, montagne, foreste…………….un mondo affascinante e misterioso mi aspettava……………….

Con questi pensieri e con dolci immagini che affollavano la mia anima mi autoconvincevo che ciò che stavo facendo era ben fatto…………..

Non sarei tornato indietro per nulla al mondo!!!!!!!!!!!

Era la mia grande occasione, e non volevo perderla.

Qualcuno mi stava aspettando……………..perchè deluderLo!!!!!!?

Non sapevo quale fosse il Suo aspetto, però sentivo la Sua presenza.

Mi si era velatamente manifestato anni addietro quando decisi di schierarmi col più debole e dalla parte di chi conduce giustamente le proprie lotte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il viaggio fu molto lungo.

Forse si svolse in 15 giorni….la memoria non mi aiuta tanto: ricordo però il dolore alle ossa, il mal di schiena, il poco cibo ingerito, tutto il corpo anchilosato a forza di stare seduto per intere giornate, le pericolose dormite sul tetto della Peugeot, lo strano sapore dell’acqua bevuta da tutti i contenitori o rubinetti che incontravo……….il perenne sonno…..e la tanta meraviglia nell’assistere al variegato mondo di suoni e di colori che mi transitava davanti gli occhi.

Quella volta l’India mi è costata veramente cara!!!!!

Dalla Germania  entravamo in Austria e subito attraversavamo la Jugoslavia  con le sue strade tortuose e piene di buche.

 

L’anno precedente (era il 1970) l’avevo visitata con Pino, in autostop, riuscendo a vivere avventure veramente estreme.

Ricordo quando….., in un paesino, Varasdin, eravamo alla ricerca di soldi e di un passaggio, poi la nostra attenzione venne attratta da un lento pullulare di lumache. Era come se ci invitassero a raccoglierle per venderle, dato che da noi è un cibo molto prelibato e costoso. Ne raccogliemmo moltissime pigiandole in due voluminose buste di plastica.

In paese però non le volle nessuno.

Pensammo di venderle nel villaggio successivo sicuri che, la gustosa prelibatezza afrodisiaca di questi indifesi animaletti, ci avrebbe fatto trovare dei clienti.

Li portammo in hotel e, dopo averle adagiate, sempre dentro le buste, in un lavandino, ci mettemmo a dormire.

Durante la notte le lumache, amanti della libertà più di noi, pigiando tra di loro e aumentando di volume, strapparono le buste e…….guadagnarono la libertà: si insediarono ovunque, otturarono il lavandino e, mentre si muovevano strisciando, lasciarono la loro scia acquosa capace di segnare tutti i muri e il tetto della stanza. Un certo numero ricoprì tutta la parete salendo sul letto, insediandosi dentro gli zaini ed invadendo ogni cosa…

Bisognava subito ripartire…….era appena l’alba……..per non incorrere nelle ire dei responsabile dell’hotel.

 Zaino in spalla, passo felpato e…. via…. sulla strada alla ricerca di un passaggio per la città di Mostar……………………….

 

Sulla 505 eravamo in sei.

Io, europeo, un americano biondo dai capelli lunghi e con i baffi, un asiatico di Singapore dai modi fini, due australiani…..stronzi……che ritornavano a casa via terra e l’afgano che rientrava a casa dopo anni di lavoro in Germania.

In quel piccolo contenitore di lamiera era rappresentato tutto il mondo.

Eravamo senz’altro diversi…….però quel giorno, su quell’auto, i nostri destini si sono incrociati divenendo palesemente UNO.

Da quale storia karmica provenivamo per ritrovarci tutti insieme nell’affrontare i rischi che in quelle strade sicuramente non mancavano?

Sembrerebbe un mistero……ma….. non lo è.

Nella vita niente è misterioso.

Camminavamo giorno e notte.

La lugubre Bulgaria, come al solito, ci accolse nel suo buio.

 

………….l’anno precedente venimmo scortati al confine con la Jugoslavia da poliziotti in borghese perché ci avevano scoperti a vagabondare tra le ….lussuose strade di Sofia.

………….e qualche anno dopo, nel 1975, la stessa polizia, mentre attraversavamo la  zona di corsa in macchina con mia moglie, ci tolse dalla tasca un mucchio di soldi appioppandoci diverse contravvenzioni per motivi futili.

In quegli anni era un paese da evitare dato il regime oscuro che lo opprimeva….

 

Siamo entrati a Istanbul in piena forma.

Essa è chiamata “la porta dell’oriente” perché è misteriosa e apre scenari favolosi ad una mente occidentale abituata alle sue solite visioni.

Sa di caos….anche allora il caos era molto tangibile.

Niente al posto giusto, tutto confuso, frettoloso, sporco…..ma fantasticamente MERAVIGLIOSO.

 

…………..due anni prima,provenendo dalla Grecia, ci eravamo già fermati facendo l’autostop.

Allora,….. mi ricordo,…….. era una tappa-traguardo, conquistata a fatica con tale  intensità da trasmettere esilaranti sensazioni tipiche a chi raggiunge la prima meta orientale nella vita.

Era stupenda.

Al “pudding bar”, proprio di fronte la Moschea blu, si incontrava la gente più strana.

Andavano tutti in oriente, o ritornavano, con ogni mezzo: vidi degli inglesi su una roulotte, inizio novecento, trainata da un trattore dalla velocità massima 25/h, i famosi bus dei figli dei fiori provenienti dall’Europa continentale carichi di materiale umano diretti verso l’India, la droga che transitava per l’occidente facendo aumentare l’attrazione per quelle terre misteriose, qualche viso trasognante alla ricerca del Guru……………………………..

 

Sulla Peugeot non mancava l’odore penetrante della canapa indiana che, in quel periodo, rappresentava un evento culturale da vivere a tutti i costi, pena l’emarginazione.

Univa i nostri corpi e le nostre menti, sempre eterni nemici, e ci dava l’illusoria immaginazione sull’esistenza di mondi migliori.

Giocare con la vita è sempre stato un mordente vizio di chi in un certo senso possiede il superfluo. Sviluppa adrenalina e, dall’affrontare con coraggio la paura determinata, ci si illude di dare uno schiaffo alla società classista.

Purtroppo molti giovani allora perdevano la vita.

L’uso di droga era ancora sul nascere, quindi non si conoscevano bene le terribili conseguenze ed io, mi ricordo, ho incontrato tanta gente in estreme condizioni mentali e fisiche lungo quella strade.

Quel mondo così esotico e così spirituale……………uccideva.

Quante povere madri ho incontrato lungo quelle strade mentre cercavano i propri figli.

Quanti giovani rinsecchiti dall’uso dell’oppio o dell’eroina mi ritornano alla mente.

 

L’India è una brutta bestia.

Uccide………ma dona anche la vita.

…………..a me l’ha donata.

Si fa odiare……però l’Amore per Lei travalica qualunque Amore.

Quale grande mistero e quale strano potere contiene per attrarre così tanta gente?

Questa terra che ha visto atrocità terribili, che vede, ancora oggi, miserie indescrivibili………………………continua ad attrarre.

La terra dell’Haisma, non-violenza, di Ghandi………………….è molto violenta.

Parla e vive la spiritualità  immanentemente in  tutti i momenti, eppure è così legata alla rupia………….da fare vomitare.

Santifica “il distacco” come unica strada che conduce alla realizzazione……..e poi è così legata alla materia da far paura.        

Gli estremi in India si compenetrano in una completa simbiosi.

In quale popolo, accanto alla pira che brucia il corpo di una persona morta, si santifica la vita tra le festose abluzioni rituali?

La vita è unita alla morte.

La gioia è legata al dolore.

Sara forse questa armoniosa connivenza tra gli estremi ad attirare le menti di così tanti occidentali?

Ad ognuno la propria India.

L’India della verità assoluta dei Veda in antitesi con l’India delle verità relative del Buddha:contraddizione o unità.

Il TUTTO diviene UNO e l’UNO diviene il TUTTO.

 

L’Europa era unita all’Asia da un vecchio ponte traballante composto da chiatte galleggianti legate l’una all’altra. Mentre la macchina  saliva sul ponte, io assistevo con grande trepidazione all’allontanamento da quel mondo occidentale, guardavo al futuro e non riuscivo ancora a capire in quale avventura mi ero cacciato.

Le strade turche, tristemente famose per i disastrosi incidenti, erano strette, diritte e piene di cunette: non si aveva mai la visuale libera perché qualcosa ne ostacolava la visione, quindi bisognava stare sempre vigili.

Per lunghi tratti l’asfalto era inesistente e le gomme foravano continuamente. L’afgano conosceva la strada, perciò si destreggiava con grande sufficienza.

Il mio corpo traballava continuamente.

Ero giovane, pieno di forze e di speranze quindi la fatica non mi toccava.

Senz’altro in diverse occasioni andai oltre i miei limiti, ma andavo sempre avanti……del resto non potevo lamentarmi……, non ne avevo il tempo e nessuno si soffermarva ad ascoltarmi…………..eravamo in sei, ma era come se fossi solo.

Pensavo ai miei genitori e li vedevo tristi e pensierosi.

Forse erano orgogliosi di me, ma in quegli anni ero costantemente nei loro pensieri per la vita che conducevo.    

Intanto mi sentivo libero e stavo volando verso la luce.

Perché non gioire di tanta libertà!?

Alla mia età, proveniente da  un paesino della Sicilia, senza soldi in tasca, senza conoscere l’inglese, perfino con un lieve difetto di pronuncia, solo…..................correvo verso un mondo sconosciuto.

Mi sentivo grande!!!!!!!1.

Senz’altro tanti altri hanno vissuto simili esperienze, forse più avventurose, ma IO MI SENTIVO L’UNICO.

Osservavo i paesini da dietro il finestrino della macchina mentre i ragazzini con i loro hellò hellò cercavano di attirare la nostra attenzione.  

A loro bastava uno sguardo o uno sventolio veloce delle nostre mani lanciato dai finestrini, per renderli felici.

In tutto il mondo non occidentale i bambini salutano gridando ingenuamente la loro speranza. Noi, purtroppo, andiamo oltre. Non ci soffermiamo quasi mai a guardare le mani e gli occhi di questi bambini.

Dicono molto. Forse più di quando noi  immaginiamo…………………..

Quella volta non ebbi alcuna possibilità di conoscere questa terra stupenda, a differenza di qualche anno dopo, nel 1975, quando con mia moglie, l’ho visitato in macchina arrivando sino in Iran, sul Golfo Persico, per poi risalire dal Kurdistan.

Altre storie che racconterò più in là.

Dopo due o tre giorni arrivammo al confine con l’Iran.

Non era richiesto il visto, però, dato che eravamo in transito e non potevamo fermarci, i nostri passaporti vennero consegnati ad un messo che supinamente noi abbiamo dovuto trasportare sulla nostra macchina sino al confine afgano.

Sembrava tutto normale, certamente fastidioso perché riduceva di molto lo spazio vitale sulla macchina, ma non si poteva proprio ovviare.

Passammo per Tabriz, Teheran e alla fine ci fermammo a Mashad, dopo due giorni e due notti di penosa sofferenza.

Mashad era la città più sacra agli sciiti. La grande folla attorno alla moschea incuteva timore, nello stesso tempo suscitava una grande curiosità. Involontariamente mi avviai verso l’ingresso della Moschea, quando mi sentii prendere le spalle, alzare per aria e scaraventare con violenza lontano da quel luogo di culto: un infedele non poteva entrare in un luogo sacro quale la grande Moschea di Maschad.

Allora vi era ancora lo Scià, e, pur tentando di avvicinare la Persia al mondo occidentale, difficilmente vi riusciva.

Ogni popolo ha bisogno dei propri tempi per andare avanti. Un cambiamento deve essere assimilato prima di essere accettato.

La  presunzione di  volere esportare la democrazia ad altri popoli genera reazioni naturali e spontanee di autodifesa dovute alla paura di essere assimilati da  culture dominanti quali quella occidentale.

Le tante guerre mosse dagli americani verso questi popoli si ammantano ufficialmente di questo concetto per nascondere il vero motivo, e cioè:   occupare tutti quei paesi che possiedono materie prime per continuare a  sostenere le loro sfrenate comodità che richiedono sempre più energia.  

 

 

 

 

 

 

                Da Mashad al confine afgano impieghiamo un altro giorno.

Espletiamo le formalità di uscita, depositiamo il burbero messo alla  dogana e via, di corsa e felici  a percorrere i lunghi chilometri di deserto che separano le due nazioni.

Questo tratto di terra è denominato “terra di nessuno” proprio perché vi scorazzano, in lungo e in largo, bande di briganti senza alcun controllo, difatti i 20 Km di deserto vengono percorsi di giorno e a grande velocità.

Mi ricordo un forte vento che alzava tanta sabbia e una visibilità ridotta.

Una capanna fatiscente e due guardie di frontiera controllavano i passaporti con molta superficialità.

I rimanenti controlli sarebbero stati effettuati  ad Herat, la mitica città carovaniera che distava 200 km dal confine.

In quell’angolo di mondo, proprio quando la vita mi sorrideva sotto tutti gli aspetti, vissi la più nera e profonda delle mie disperazioni.

Improvvisamente, senza rendermene conto, mi trovai scaricato dalla macchina, solo, in pieno deserto e senza alcuna prospettiva futura.

Per entrare in Afganistan gli italiani avevano bisogno di un visto.

Gli altri continuarono, io invece, con tutta la mia disperazione, rimasi a terra al confine.

Il   panico che provai in quel lembo di terra situato nel deserto del Belucistan, tra l’Iran orientale e il Pakistan  occidentale, fu indescrivibile.

Ero rimasto da solo in compagnia del vento,del deserto e del buio che tra poco sarebbe sceso senza alcuna pietà sulla mia disperazione.

Vi erano solo due guardie dall’aspetto sereno, come se volessero dirmi di non disperare perché in quel luogo vi sono rimasti tantissimi altri a piangere sulla loro sfortuna.

Era un luogo infame dove non esisteva nulla. Le uniche abitazioni erano ad Herat,200 km e a Mashad 300 km.

Il peggio che a un vagabondo può capitare è un luogo dove non ci sia nessuna anima viva!

Non può sfruttare le sue capacità e deve delegare tutto alla fortuna o deve abbandonarsi al proprio Dio e supplicarLo.

Io non avevo alcun Dio a cui rivolgermi. 

Al momento non riuscivo a visualizzare nessuna entità o energia alla quale rivolgere le mie suppliche.

Provai a stare in silenzio, a pensare, sperando di trovare una soluzione……ma nulla da fare.

Tra poco avrebbe fatto buio ed allora il dramma si sarebbe trasformato in panico………..dove dormire??? ………….Le guardie mi avrebbero accolto  nella loro capanna?........

L’orizzonte era molto ridotto, perché in quella zona del mondo vi era sempre vento e la polvere che si alzava offuscava la visuale.

…..quale soluzione si sarebbe presentata?

Una soluzione arriva sempre………..

Il mio subconscio già la  conosceva: essa transita per l’inconscio e poi emerge nel conscio, si  materializza e il problema naturalmente viene  eliminato.

Anche stavolta il caso non sarebbe intervenuto…………..è sempre la nostra determinazione inconscia a risolvere il problema.

In effetti anche Io avevo il mio Dio!!!!!

L’immaginetta di Bombay mi stava aspettando, e nessun ostacolo si sarebbe interposto tra me e Lei.

Era quasi buio e in quel silenzio profondo del deserto nessun’altro suono riusciva in quel momento a coprire il frastuono che avevo nella mente.

Presi tra le mani  due palline legate tra di loro da un filo di corda e mi misi a sbatterle l’una contro l’altra.

Le due guardie si avvicinarono curiosi e tentarono di capirne il gioco.

Provarono, si fecero male ai polsi, e riprovarono sino a quando non ne trovarono la soluzione.

Nella loro lingua cercarono di tranquillizzarmi dicendomi che non ero il primo a rimanere nella  disperazione totale.  Tanti altri occidentali erano rimasti bloccati in quel luogo, poi alla fine era sempre arrivata la soluzione…………………ed è stata sempre la migliore, dato che…………..osservandomi attentamente intorno, non vidi   ossa di uomini dalla pelle……………………….bianca.

Intanto , per forza di cose, ritornare a Mashad era molto importante: dovevo prendere il visto all’ambasciata afgana.

Aspettai solo qualche ora e in lontananza vidi avvicinarsi uno di quei bus colorati, tipici afgani, che servivano da collegamento tra una frontiera e l’altra.

Mi limitai a rimanere fermo nel punto in cui mi trovavo ed attendere il suo arrivo. Era l’unica possibilità che il mio Dio mi donava per poter continuare il viaggio.

L’autobus si fermò e vi salii senza chiedere dove andasse.

L’importante in quel momento era  spostarmi da quel luogo, per dare la possibilità al mio corpo di riprendere a correre verso………………la libertà.

Appena salito mi guardai intorno e notai diversi volti di occidentali che  ritornavano a casa dopo l’avventura indiana: molti erano italiani e mi delucidarono sulla strada da fare e su come spellare soldi alle varie ambasciate. Inoltre raccolsi informazioni e suggerimenti circa i luoghi in cui avrei trovato italiani esperienti e disposti ad aiutare chi al momento si trovasse in difficoltà.

Mi assalì la nostalgia del mio mondo.

La disperazione vissuta solo per qualche ora era solo un assaggio di quella che avrei trovato in futuro!!!

Pensai di ritornare indietro, nel mio mondo, dove la sicurezza mi avrebbe coccolato tra le sue braccia…………ma niente da fare!

Ero già in viaggio!

La disperazione svanì improvvisamente e le poche ore trascorse ad ascoltare le meravigliose esperienze vissute in India da quei vagabondi, mi ridiedero una grande fiducia nell’avventura che stavo vivendo.

 

 

 

 

 

 

 

              Scesi in piena notte a Mashad e, attirato da un lento fluire di ragazzi occidentali, mi ritrovai proprio di fronte l’ambasciata afgana.

Una marea di gente distesa a terra a fumare o a dormire, con visi stanchi e trasognanti, stavano aspettando il rilascio del visto.

Come sempre la mia fortuna non mi abbandonò!

Trovai una coppia di italiani che mi condusse in una  specie di capanna, dove un omone barbuto  mi impresse su una lastra fotografica per consegnarmi, dopo qualche minuto, delle foto che mi servivano per ottenere il visto.

Moduli da riempire……………soldi da dichiarare…………motivi del viaggio………furono le domande classiche  per ottenere quel famoso visto così………….desiderato!

Dopo un giorno arrivò il momento della partenza.

Nuovamente su un autobus……era l’alba……..e via, stavolta con la certezza di andare oltre quella sbarra che simbolicamente divideva  due nazioni e sanciva differenze tra popoli e culture che in pratica non esistono.

L’avventura riprendeva la sua corsa sulle strade dell’Asia.

Il bus con il quale mi stavo spostando verso la frontiera si fermava al posto di blocco prima iraniano e poi afgano. Le formalità burocratiche vennero espletate appena dopo la famosa “terra di nessuno”.

Un mucchio di capanne disposte senza alcun senso servivano da base alla polizia di frontiera per controllare i documenti del viaggiatore.

L’autobus arrivò col buio e subito i primi spacciatori di droga e i cambia valuta ci circondarono per venderci la loro merce: risaltavano subito agli occhi perché era la polizia stessa a proporci queste merci.

L’Afganistan viveva, come del resto anche oggi, di tale commercio.

Era il paese dei sogni!

Un mare di droga legale e a poco prezzo inebriava le menti di tanti giovani occidentali.

Questa volta avevo il visto stampato sul passaporto, però la paura di non essere in regola col passaporto e con i vaccini, mi stava sempre addosso.

In questi paesi si fa presto a cambiare le regole!     

Avevo il terrore!

Il mio passaporto venne ritirato e, assieme alla coppia di italiani, aspettammo il disbrigo delle formalità in una casa del the.

Vi erano diversi ragazzi che ritornavano dall’India: parlavano di Kabul, delle sue polverose strade, su come spellare soldi all’ambasciata italiana e dei tanti pericoli che si incontrano lungo quelle strade.

Le conoscenze acquisite, ascoltando i viaggiatori di ritorno, mi rendevano sempre più sicuro delle scelte da prendere in futuro.

Intanto i passaporti vistati ci vennero restituiti e subito, cambiando autobus, partimmo per Herat:vi erano tanti afgani che rientravano a casa dopo un certo periodo di lavoro in Iran.

Sull’autobus infuriò una lunga contrattazione sul prezzo da pagare e, raggiunto l’accordo, si partì percorrendo i centocinquanta chilometri che ci separavano da Herat in poche ore.   

Trascorsi la notte sullo stesso autobus in modo da trovarmi già col posto riservato per la grande traversata del deserto.

In mattinata gironzolai per Herat.

Si dice che è la città più tradizionale del paese poichè girando per i suk si assiste a scene tipiche di altri tempi: longilinee figure di personaggi accovacciati sui tetti delle capanne a guardare il nulla, donne, coperte dal tradizionale burka, che cercano di contrattare sul prezzo delle cose da comprare, città silenziose dove veramente innumerevoli  erano i richiami ad un passato tramontato.

Cercai di fare qualche provvista alimentare perché, dopo qualche ora, si partiva  per Kabul attraverso il micidiale deserto afgano e, dopo un po’, mi accomodai in prima fila accanto ad un afgano enorme. Questi, per tutto il viaggio, scaricava la sua forza sulle mie povere ossa come fosse un semplice gioco!

La traversata del deserto non finiva mai!!!!

L’arsura bruciava la mia gola in continuazione e l’acqua che avevo, in poco tempo, finì, così, per placare l’enorme sete attinsi liquidi da qualunque fonte provenissero.

Questa esperienza mi causò una terribile diarrea che per poco non mi conduceva alla tomba.

Intanto ci fermammo mezza giornata a Kandalar dove ebbi il tempo di girovagare per le  stradine piene di merce strana: visitai una conceria all’aperto, dove i tessuti vengono immersi in vasche piene di colori vegetali, salii sui tetti e camminai un po’ per le strade, spostandomi di casa in casa senza essere per niente richiamato.

Noi occidentali ci sentiamo molto spavaldi in questi luoghi:non osserviamo nessuna regola,mandiamo a quel paese qualsiasi forma di educazione, ci sentiamo i padroni del mondo e sottovalutiamo la cultura e le tradizioni millenarie di questi popoli.

Riprendemmo il viaggio nel primo pomeriggio percorrendo una strada assolata costruita con lastroni di cemento trasportati dalla Cina e dalla Russia.

Questi due paesi, in quegli anni, coccolavano l’Afghanistan perché erano interessati ai lunghi oleodotti in cui scorreva l’oro nero  sino all’Oceano Indiano…………..

Successivamente il paese subì l’occupazione dell’Unione Sovietica e in seguito, proprio recentemente, è stato invaso dal mondo occidentale, con l’America in prima fila, dietro la scusa di combattere il terrorismo.

Intanto un’altra notte e un altro giorno era trascorso sull’autobus e, alla fine, arrivai a Kabul, una città fuori dal tempo.

Era tutto così strano per me: i muezzin che scandivano il tempo dall’alto dei minareti, i mitici cantastorie che riempivano le piazze narrando le divine epiche di Maometto, la gente, con il corpo rivolto verso la Mecca,  che recitava qualche sura del Corano……..

Mi fermai venti giorni in quella città, con tutto il tempo per conoscerla e viverla con intensità. Intanto, in hotel vi era anche qualche italiano con cui, per diverse mattine, ci siamo recati all’Ambasciata e procurato qualche soldo: chiedere soldi alle rispettive ambasciate era una regola per ogni vagabondo che si rispetti.

Si inventavamo scuse inimmaginabili per suscitare pena e commozione e……. quasi sempre……. ci si riusciva!

All’esterno aspettavano gli altri per sapere quale somma avevamo ottenuto e le favolose storie avevamo inventato.

Una di queste volte  a Kabul, ricordo, si andava a spellare denaro anche nelle ambasciate delle altre nazioni occidentali: tutte collaboravano al nostro sostentamento……………era una grande pacchia!!!!!......

L’appuntamento con Dio intanto si stava avvicinando a mia insaputa!!!.

Quell’impegno preso, chissà in quale delle mie vite, col mio Maestro non poteva recidersi.

Lui mi stava aspettando e niente poteva ostacolarmi……………..

 

 

 

 

 

 

     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

          

 

                 Dopo questa lunga pausa, servita a riposarmi e prendere informazioni sulla strada da seguire per arrivare in India, arrivò il momento di riprendere il viaggio in autobus verso il Pakistan.

Il confine non distava molto da Kabul e in poche ore arrivammo alla frontiera.

Le meravigliose visioni dell’Hindukush riempirono di meraviglia la mia mente: guardavo con gli occhi, ma era tutto il corpo a sentire la grandiosità di quei luoghi,  guardavo il cielo e vedevo montagne, ambienti estremi dove era nata la civiltà, guardavo lunghe file di carovane dirette  in estremo oriente per la via della seta e nessuno poteva immaginare la mia felicità!!

Solo, sull’autobus scassato e pieno di colori vivaci,volavo veramente in alto: la natura selvaggia dei luoghi se da una parte manifestava il divino dall’altra evidenziava i limiti dell’uomo, i miei pensieri suscitavano allora, come ogni volta che vi ho fatto ritorno, la meraviglia.

Stavolta le formalità doganali si svolsero in breve tempo, del resto non vi era bisogno di alcun visto per entrare in Pakistan; la frontiera stava incuneata in una valle sovrastata da cime altissime coperte da nuvole con la solita concitata confusione.

Tra l’Iran e l’Afganistan ci misero addosso diversi indumenti in modo da farli passare illegalmente dall’altra parte:un commercio povero tra poveri!

In questi luoghi infami e lontani dalla cosiddetta civiltà, il potere, attraverso l’autorità e la legge, entrava con fermezza negli affari guadagnando gran parte degli utili!

Anche in occidente, la parvenza di “popolo civile” è pura facciata!

 

La frontiera…..il confine……il luogo in cui smette di esistere una nazione e quindi un popolo è quanto mai deprimente!

Considerarsi diversi, migliori o peggiori, solamente perché qualcuno, o qualche parlamento, in epoche passate, ha tracciato una linea di divisione che, convenzionalmente, segna l’appartenenza ad una nazione o ad un’altra, ha condizionato i popoli imprimendo tristi concetti di superiorità.

Nei secoli, la limitazione del libero flusso sulla terra a cui tutti apparteniamo, l’imposizione  di documenti personali che dimostrano  la nazione di appartenenza di ogni uomo, le divisioni forzate, hanno talmente inciso sulla costruzione di pregiudizi, tanto da condizionare l’esistenza di ognuno e contribuire ad un senso di estraniazione e divisione.

L’assurdità prodotta dall’esistenza delle barriere esprime la debolezza di cui ci siamo ammantati.

L’ONU rappresenta l’emblema della coesistenza pacifica e ossequiosa di varie nazioni, ma esiste anche un problema di diritti negati verso popoli, per così dire svantaggiati, che evidenzia una forte dicotomia tra i più forti/ricchi e i più deboli/poveri.

In tante frontiere mi sono sentito umiliato e defraudato del mio cosmopolitismo poiché sono stato impedito a proseguire liberamente il  cammino sulla mia terra.

 

 

 

Intanto, riprendendo il nostro viaggio, ci siamo spostati verso la città di confine Peshawar, già conosciuta ai tempi di Marco Polo come posto di ristoro per i suoi mitici caravanserragli.

Il fiume di gente che si muoveva tra le sue strade polverose, la rendeva caotica e confusionaria, mentre un  forte caldo mi ottenebrava la mente tesa alla ricerca di  un mezzo con cui spostarmi verso l’India.

Chiaramente, allora, non ho apprezzato quella città………………

 

…………………………..ma trenta anni dopo, proprio nel luglio del 2001, vi ho fatto ritorno con mia moglie rimanendovi per quattro giorni.

E’ stato un vero momento di gioia per entrambi ed io, reduce di vecchi ricordi, riassaporavo la solita confusione e il clima molto caldo, quasi irrespirabile!

Proprio in questa occasione, in un ristorante retaggio dei vecchi caravanserragli, abbiamo conosciuto un francese che trafficava opere d’arte trafugati in Afganistan: egli vendeva pezzi delle famose statue di Buddha della valle del Bamyan bombardata dai talebani.

Ancora prima di essere distrutti dalle bombe, buona parte delle statue erano state tagliate e vendute ai grandi trafficanti americani…………. Sempre loro, i soliti ricchi, i soliti americani sostenuti dai soliti potenti europei, i soliti che  creano le condizioni della guerra, i soliti a distruggere e trafugare le bellezze storiche del popolo occupato, i soliti che, forse per mancanza di appartenenza ad una storia loro, sono spinti ad appropriarsi della storia altrui per ammantarsi di un passato di civiltà da cui sono esclusi…………..

 

Continuai il viaggio in treno per Lahore, insieme alla coppia di italiani conosciuta a Mashad. L’India ormai era molto vicina, però quell’anno, per via della guerra con il Pakistan, raggiungerla era diventata un impresa: il Pakistan orientale chiedeva l’autonomia tanto che dopo divenne Bangladesh, il Kashimir indiano voleva l’autonomia dall’India per unirsi al Pakistan e una serie di problemi rendevano difficile al viaggiatore spostarsi via terra in questi luoghi.

Dalla frontiera indiana fui rimandato indietro perché, a parte il visto, mancava un lascia passare rilasciato dalla polizia pakistana: altro dramma, altra sofferenza, altra perdita di fiducia verso questi popoli.

In particolare, e questa è la cosa stana, i due popoli erano uniti da tradizioni ataviche, religioni simili e culture millenarie, ma ciononostante si scontravano in guerre fratricide.

I fondamentalismi trovano sempre chi li fomenta e chi ne ricava qualcosa!

Dal confine feci ritorno a Lahore, città immensa con flussi continui di migrazione degli indù rimasti, in cui non era semplice barcamenarsi  poiché gli uffici venivano trasferiti di  continuo per paura di attentati. Una volta arrivato mi misi alla ricerca del posto di polizia in cui rilasciavano i documenti richiesti perché dovevo, assolutamente, avere quel permesso per proseguire verso l’India. 

Dopo aver chiesto con insistenza, finalmente trovai l’ufficio e, con grande fiducia, consegnai il passaporto riempiendo dei moduli attestanti il motivo del viaggio.

Mi chiusero in una stanza da solo e mi dissero di aspettare.

In genere l’attesa in un ufficio richiede qualche ora, o forse meno, qui vi rimasi per ben nove ore.

Il tempo non passava mai………. Nessuno mi avvertiva di nulla……….. Solo con me stesso, sognando l’irraggiungibile  India, mi alzavo unicamente per andare al bagno nel giardinetto di fronte.

A quei tempi non ero abituato a rendere vivo il tempo, mi annoiavo a morte e soffrivo profondamente………………

 

…………potevo benissimo praticare la respirazione consapevole, ma non la conoscevo…………potevo abbandonarmi alla contemplazione del Dio che vive in me, ma non ne ero a conoscenza……………potevo scrivere, leggere, ma in quel periodo, preso dall’enfasi rivoluzionaria, vivevo la sofferenza con rabbia e desideravo solamente……...ribellarmi…....

 

Un impiegato, verso l’imbrunire, mi riportò il passaporto con il lasciapassare incollato sopra, così, l’indomani mattina, presi il primo autobus che partiva per il confine indiano, ma, in realtà, percorsi  15 km a piedi prima di arrivarci.

Mentre camminavo, solo, con passo fiero e consapevole, lungo la strada che univa le due nazioni, mi sentivo forte: stavo vivendo veramente la mia avventura e il mondo era nelle mie mani!

Adesso quale altro ostacolo poteva ancora fermarmi????!!!!!!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

              Camminavo sulla terra dei realizzati, dei Sadhu itineranti, di Ghandi……e del mio Maestro; la fame e la sete erano bazzecole; la fatica faceva parte del viaggio; la paura di morire se l’autobus avesse trasbordato in uno di quei baratri senza fondo erano cose di poco conto: mi sentivo ormai forte, con tanta fiducia nelle mie capacità, o meglio, come direi oggi, “con la consapevolezza di essere Dio”, da non  avvertire l’insidiosa presenza di un problema intestinale che da lì a qualche giorno mi avrebbe martoriato.

Già in Afganistan e, successivamente, sul treno in Pakistan, avevo avuto le prime avvisaglie, ma, fortemente  inesperto e incosciente, non vi avevo prestato alcuna attenzione. Così, nel tragitto Peshawar-Lahore, vomitai diverse volte e diverse volte andai in bagno colto da malori allo stomaco.

Il confine indiano era in aperta campagna e i primi sik, con le loro barbe inghirlandate, mi accolsero con grande freddezza. Personalmente mi ero riunito con i due italiani e, assieme ad altri, fummo invitati ad entrare in una stanza, divisi dalle donne, e obbligati a spogliarci nudi e ad alzare in alto le mani.

Per noi fu un divertimento……..ormai non ci meravigliavamo più di nulla!

Ogni confine si distingueva dall’altro per le sue peculiarità: qui bisognava esibirsi nudi per essere controllati o….. ammirati………..con maggiore attenzione!

Presero i documenti, controllarono i visti, aprirono gli zaini, annusarono in profondità per vedere se portavamo droga o chissà quale altra cosa, poi……………

ci fecero passare donandoci………………. finalmente……………….LA LIBERTA’.

Dopo qualche chilometro percorso a piedi, nella consapevolezza di calpestare finalmente la terra d’India, incontrammo un carro trainato da un cavallo (tonga) sul quale un indù, mezzo addormentato, ci invitava a salire per condurci nella vicina città di Ferozepur.

I dieci chilometri che ci separavano dalla città li vissi immerso in una grande gioia e pervaso da una serena pace osservando, nel silenzio, la strada e il paesaggio che si snodava sotto i miei occhi: il mio sogno si era realizzato!!...

Chi avrebbe mai detto che vi avrei fatto ritorno per altre tredici volte ad oggi????……….

Sul calesse chiudevo gli occhi continuamente.

Volevo amalgamare a quel luogo tutto me stesso.

Volevo sentire il suo odore……….la sua armonia………e, mentre il trotto leggero del cavallo lasciava il silenzio della campagna per entrare nel caos della città, la mia mente si divideva tra quel senso di pace profonda e la curiosità suscitata dall’ingresso in quel luogo a lungo desiderato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            Le città indiane sono quanto di più rumoroso e inquinato esiste sulla terra: le macchine scassate e i veloci “bemo” (tre ruote motorizzate) si contendono il primato per rumore, strada e quantità di gas scaricato nell’atmosfera.

La popolazione si muove tra questi pericoli con molta attenzione, guardandosi intorno continuamente, per non essere travolta; le vacche, invece, camminano con calma ostentando una grande sicurezza: nessuno si permetterebbe mai di distoglierle dalla loro naturale andatura.

Giunti alla stazione per prendere il primo treno per Delhi, abbiamo avuto il duro impatto con la realtà indiana: treni affollati all’inverosimile, cuccette prenotate e…. mai trovate, gabinetti allucinanti, cibo piccante e……tanta……,tanta……. gente che ci  veniva addosso. Sembrava  essere in un altro mondo!

Un fumo accecante e pericoloso avvolgeva tutto il treno in una fitta nube: infatti, i treni dell’India, a quel tempo, erano ancora a carbone e  si rischiava di perdere la vista se incautamente ci si fosse spinti oltre il finestrino.

La notte trascorse tra il caldo e le mie precipitose corse verso il bagno: l’infezione intestinale era al culmine con vomito e diarrea continua.

New Delhi, in questa mia prima esperienza, fu un vero calvario!

Ne uscii dopo un periodo di sofferenze insopportabili: lunghi controlli in ospedale,  penose notti a sudare in hotel, giorni di pioggia continua a causa dei monsoni.

A tal proposito, ricordo, non smetteva mai di piovere: così, nonostante fossi penalizzato dal cattivo stato di salute, uscivo sotto la pioggia andando incontro a rischi quali l’essere inghiottito dalle buche dei tombini delle fogne.

Camminavo seguendo le orme di altra gente e, durante questi spostamenti, osservavo con curiosità il luogo inusitato e tutte  le cose che mi circondavano: 

i Sadhu dalla barba bianca che infondevano pace  in quell’ inferno, i soffocanti mendicanti che non lasciavano respirare, i pulitori di orecchie che cercavano malcapitati a cui sturare i condotti con asticine di ferro, i tagliatori di unghie, gli shampisti in cerca di capelli da lavare, i venditori di qualsiasi cosa che mi chiamavano continuamente, i venditori di the, i guidatori di bemo, i venditori di pannocchie di granoturco abbrustolito, i bambini che mi tiravano e stavano addosso per impietosirmi, i venditori di fiori profumati da offrire al divino, i venditori di incenso di sandalo e di rosa……taxi, carri trainati da cammelli……………

i ricordi di allora……..mescolati ad altri ricordi di altri viaggi in India vissuti in tutti questi anni…………. Sembra non essere cambiato nulla!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!..................

Allora, come oggi, tanta  gente in India vive nello stesso modo.

L’India non è cambiata: l’attaccamento alla rupia, la  spiritualità venduta a caro prezzo, i Sadhu veri e quelli falsi, i morti che bruciano, le vacche pacifiche che camminano per le strade (oggi sono rimaste solo nel nord e nelle città sacre), gli  occidentali richiamati dalla spiritualità………..

L’India non è cambiata e speriamo che non cambi mai: E’ COSI’ BELLA COSI’ COME E’!

E’ cambiata la mia consapevolezza!

In tutti questi anni molti realizzati indiani sono entrati nel mio cuore: la loro meravigliosa vita e il profondo insegnamento MI HANNO RISVEGLIATO.

Ho iniziato a sorridere al mondo, ho cercato di accettarlo così come è, ho cessato le mie critiche e il mio desiderio di cambiarlo rimanendo fermo nelle mie chiusure…………….

Da quel piccolo hotel in  cui alloggiavo, ogni mattina, mi spostavo a piedi percorrendo il tragitto verso l’ambasciata italiana accompagnato dalla solitudine e da una grande sofferenza fisica: ardentemente desideravo ottenere un biglietto prepagato.

In realtà, avevo spedito un telegramma a casa chiedendo a mio padre di spedirmelo perchè l’esperienza indiana, ancora in corso, mi aveva sfiancato nel fisico e nella mente.

Per circa venti giorni, tutte le mattine, attraversavo la città sotto l’impietosa pioggia, aspettando l’arrivo del biglietto; imbottito di antibiotici, per bloccare la diarrea che mi stava  distruggendo, giravo per le strade senza un senso; non possedevo una guida della città e conoscevo qualche luogo frequentato dai vagabondi occidentali con i quali non avevo mai perso i contatti.  

Conobbi anche un architetto italiano arrivato in India con una macchina: anche lui era solo perché, qualche giorno prima, aveva perso la compagna in un disastroso incidente con uno di quei camion mastodontici che girano a velocità pazzesca per le strade dell’India.

Rimasi accanto a Lui per tre giorni.

Ci incontravamo ogni mattina in ambasciata ognuno per risolvere il proprio problema: Lui doveva pensare al trasporto della salma in Italia con enormi  difficoltà e spese economiche, io aspettando un biglietto spedito che tardava ad arrivare.

Nel suo caso la burocrazia indiana era veramente terribile: infatti non essendo sposato i problemi si centuplicavano. In tal senso, il suo rapporto con l’India avrà senz’altro segnato la sua vita futura lasciandogli un solco profondo nel  cuore: la morte della persona amata.

L’appuntamento con la piccola immagine di Bombay stava per verificarsi:le tante cose che stavano succedendo in quei giorni avevano tutte un senso e stavano lavorando per quell’incontro.

Nel divino è contenuto l’intero programma di ognuno:  passato presente futuro.

In quel viaggio dovevo incontrare DIO e niente poteva ostacolarmi……………

La fortuna inaspettata in molti momenti  mi ha risolto problemi insormontabili.

La strada tracciata da qualcuno per me, mi conduceva inevitabilmente in quella strada di Bombay dove mi stava aspettando il mio Maestro.

Intanto i giorni passavano tra l’attesa del biglietto e la conoscenza di  nuove persone.

Qualcuno mi convinse a prendere il visto per andare in Nepal e lasciare andare l’idea malsana di ritornare a casa, così mi rimisi a sognare nuovamente luoghi lontani.

La diarrea era passata, avevo riacquistato le forze fisiche e la fiducia in me stesso, avevo di nuovo sete di conoscenza e, in breve, dovevo partire al più presto se non volevo cadere nella nostalgia.

 

 

 

 

“Il nuovo per me è vita………………….speranza.

 Quando mi prende la frenesia di partire, niente mi ferma.

 Il mio corpo inizia a vibrare immaginandomi di essere  nel luogo desiderato.

 La mia mente, coadiuvata dall’immaginazione,  scorre velocemente nel luogo in     cui  vorrei essere in quel momento e subito inizio a preparare il viaggio.

Non trascuro nulla e, quasi sempre, riesco a svolgerlo come lo avevo immaginato e progettato…………solo quando si affacciano sulla mia strada le autorità, coloro che  vogliono regolare con “la legge” la vita degli uomini, qualcosa non va nel verso giusto”.

 

Alla fine, quando l’attesa si era fatta lunga e debilitante, il biglietto arrivò: era necessario recarmi a Bombay per prendere l’aereo.

Rintracciai qualcuno dei nuovi amici per avvertirli della mia  partenza e, come sempre, mi abbandonai a quel destino che non mi ha mai voltato la faccia.

Ero un pò triste!

Mi sentivo bene, mi ritornavano le forze e, con esse, la voglia di continuare a viaggiare, tuttavia dovevo ritornare a casa.

Ero anche felice!

Accarezzavo l’idea di ritrovarmi nel mio mondo, fra i miei cari e con il lontano ricordo di ciò che avevo passato. Tutto ciò mi faceva sentire un “eroe”!

La mattina della partenza per Bombay, ricordo, mi sono alzato molto presto.

Lo zaino era già preparato, conteneva poche cose perché avevo venduto tutto, pesava pochissimo e non aspettava altro che il momento di rimettersi sulle mie spalle per continuare a girare per il mondo.

 

Quanti zaini ho cambiato nella mia vita!

La vita di uno zaino si intreccia inevitabilmente con la vita condotta dal suo proprietario e, in genere, i miei zaini sono diventati “i miei stessi viaggi”.

“ Il mio zaino assume le mie stesse sembianze………

  si meraviglia davanti ad una scena incantevole……

  soffre quando, assieme ad una montagna di bagagli, sente freddo o suda….

  è felice quando raggiunge la meta …..

  e lo è ancora di più quando riparte……

  Vive le mie stesse emozioni…...

  Scaricato da un autobus sgangherato è quasi sempre irriconoscibile

  cambia di colore per lo sporco e la polvere,

  si deforma e puzza perché è impregnato degli odori degli altri bagagli……”   

 

 

 

 

 

 

        Quella mattina forse era triste anche lui perchè preavvertiva la fine del viaggio e presentiva l’inizio di un periodo di riposo forzato.       

Lo misi in spalla e mi avviai verso l’uscita dell’hotel.

Ad un tratto sentii una voce sulla mia sinistra che mi diceva: sei tu l’italiano che finalmente ritorna a casa dopo un lungo periodo di attesa del biglietto aereo?

Si, risposi.

Mi girai e lo guardai in viso.

Davanti a me, appoggiato sull’uscio della stanza, vidi un giovane dai capelli rasati, magro e della mia altezza che mi sorrideva come se mi conoscesse.

Mi avvicinai incuriosito e, in un attimo, quell’incontro aprì una finestra sul futuro.

Il suo nome era Massimo e la sua compagna, americana, stava seduta sul letto a rammendare qualche indumento: era incinta!

La scena era degna di un film!

Un forte bagliore entrava dalla finestra illuminando la stanza e proiettando sul muro la silhouette della ragazza: aveva i capelli lunghi, il viso affilato e sembrava molto alta. Ad un certo punto alzò il capo verso di me, mi sorrise e, con molta grazia, continuò il lavoro.

Io mi avvicinai a Massimo, cercai di stringergli la mano, come se volessi presentarmi, ma rimasi sorpreso dal fatto che la sua mano, anziché incontrare la mia, si unì alla ricerca dell’altra e, insieme, si avvicinarono alle sue labbra con un lieve inchino del capo.

Risposi istintivamente al saluto sconoscendone la ritualità, ma non prestai alcuna attenzione al profondo significato che esso poteva racchiudere.

In realtà le due mani che si univano rappresentavano l’ UNO  che racchiude dentro sé la divinità di entrambi: “Io e Te siamo uno e mi inchino al Dio che vive in Te.”

Più tardi, alla domanda sul loro itinerario di viaggio fui messo a conoscenza, con molta semplicità e determinazione, del loro desiderio di far  nascere il bambino in Nepal,  luogo dove il buddismo regna in serenità.

Io mi chiedevo, con molta meraviglia, la ragione di tale scelta  e gli enormi rischi  ad essa connessi, ma mi soffermai solo qualche minuto, senza riflettere in profondità, poi mi recai con un taxi alla stazione per prendere l’espresso per Bombay.

 

Negli anni successivi, precisamente nel novembre del 1977, a Pomaia, un paesino vicino Pisa, nasceva l’istituto Lama Tzong Khapa Lama per la divulgazione del Buddhismo Mahayana.

Io, ormai sposato con un figlio, incuriosito e memore di quell’incontro, decisi di trascorrere del tempo nel monastero vivendo accanto ai monaci tibetani

All’improvviso, in uno di quei giorni, vidi una bambina giocare accanto a noi. Viveva con i genitori nel centro ed era come se appartenesse a quel luogo: infatti tutti la conoscevano ed instauravano subito un bel rapporto.

Chiaramente ne fui colpito e, trovandomi a dialogare con lei, scoprii che era nata in Nepal sei anni prima.

La mia mente fu subito eccitata da quella risposta e, andando indietro negli anni, si agganciò a quell’evento fugace della partenza da New Delhi: mi sembrava impossibile che fosse vero!

Poi l’incontro con la madre americana sciolse ogni dubbio: le nostre strade si erano incrociate nuovamente e unite alla ricerca del divino.

Quanto è strana e bizzarra la vita….ma, nel contempo, quanta coincidenza di strade, vie e percorsi segnano i nostri destini e il cammino che decidiamo di intraprendere!!!!!!!!!!!!!!!!!

 

La stazione di Delhi era sommersa da una marea di gente: i puri viaggiatori e coloro che bivaccavano giorno e notte usando l’androne come un grande letto comune.

Alla meno peggio qualcuno mi aiutò a trovare il treno e il relativo posto a sedere: avevo pochi soldi racimolati al consolato italiano e, nonostante le quaranta ore di viaggio, non chiusi mai gli occhi per paura di essere derubato.

Il treno scivolava rumoroso, con molta lentezza, verso la sua tappa finale e, alle due di un mattino d’agosto, arrivai in una Bombay sommersa dal silenzio. 

I corpi distesi alla stazione e nelle strade adiacenti era il solito spettacolo che si offriva alla mia vista che, sebbene ripetuto, colpiva sempre la mia curiosità. 

Stanco, morto di sonno e senza alcuna identità tra il brulicare di tanta gente, mi raggomitolai anch’ io in un angolo della stazione aspettando l’arrivo della luce.

Mi assalivano strani pensieri e tanta preoccupazione, ma soprattutto stavo guardingo per la paura di essere derubato!

Il dramma dell’insicurezza a causa della perdita dei documenti e dei soldi è quanto di peggio possa capitare ad un viaggiatore solitario: si comprende improvvisamente di essere nessuno, finisce il coraggio e la spavalderia, si vive nell’indifferenza totale della gente. Questo anonimato ti uccide e annienta i sogni!!

La quantità di rupie che si tengono in tasca determinano la qualità dell’interesse che viene riposto nei confronti di un turista: più rupie possiedi, più attenzioni ricevi!!!

Alle prime luci dell’alba, quel mondo, così sofferente, sospettoso, indifferente, iniziava a svegliarsi a nuova vita sembrando completamente diverso.

Svanite le ombre delle tenebre la sua amicizia sembrava sincera e, grazie a questo sorriso propiziatorio, mi avviai alla ricerca di un hotel dove trascorrere gli ultimi giorni che mi separavano dal grande ritorno nel mio mondo.

Dopo averlo trovato, sporco e untuoso, deposi lo zaino e ricominciai la caccia alla rupia nei consolati dove, per un caso fortuito, trovai un parente di mio zio che vi lavorava………

A pensarci, tanti sono stati gli eventi straordinari e strabilianti che hanno caratterizzato la mia vita: tutti sono emersi da un presente che al momento appariva cupo e pieno di incognite ma, grazie al desiderio, implicito in ognuno di noi, di proseguire senza  fermarsi davanti a nulla, si sono trasformati e risolti in maniera positiva.

Nel caso specifico, non solo ebbi più soldi del necessario, ma acquistai tanta  fiducia e  forza per continuare!!!

Dopo qualche giorno si sarebbe conclusa l’avventura indiana e, con essa, il primo incontro con quella immagine che tanto avrebbe cambiato la mia vita.                   In realtà la mia partenza dall’India non prevedeva nessuna promessa di ritornarvi in futuro, anzi, al decollo dell’aereo, sentii tutto il mio essere pervaso da un senso di vittoria e di liberazione da una realtà sicuramente non piacevole: ero stato segnato dalla sofferenza patita!!!!

Il ritorno a casa mi inorgogliva e mi estasiava: il mio mondo, quel piccolo mondo di un paese siciliano, gretto, borghese, piatto, mi avrebbe accolto……. ascoltato….. criticato……….forse invidiato………e………perchè no??……..assimilato!!!!!

 

Il conosciuto ti coccola, ti rassicura, ti fa vivere momenti di gloria, ti proietta in un futuro gioioso, denaroso, fatto di cose belle….però??

Guai a scuotere l’equilibrio di un piccolo paese!!!!

Le forze conservatrici, nascoste dalle buone maniere, non lasciano con facilità spazio al nuovo, specie quando esso tende a sovvertire ruoli e poteri consolidati: nulla viene tralasciato e si usano tutti i mezzi, l’oppressione,la denigrazione, il boicottaggio e l’anatema.

 

Dopo un lungo volo, attraversando Istanbul e Copenaghen, atterrammo all’aeroporto di Ciampino insieme ad altri sognatori.  

Pino mi aspettava e, dopo la gioia dell’arrivo, ho proseguito per la Sicilia.

Era la fine d’agosto e nel paese si festeggiava la Santa patrona, quindi, inconsapevolmente, fui accolto da un tripudio di luci, da un festoso scampanellio e da un gioioso frastuono di bombe.

Rientravo con le cose di sempre: i vecchi amici, la sede del partito, la monotona piazza, i soliti commenti sulle ragazze, la decadente politica paesana, gli argomenti usuali che riprendevano a martellare la mia mente.

Credevo di essere ritornato più forte e sicuro, invece la mia timidezza, quella che avevo creduto di superare con una simile avventura, mi stava aspettando al varco.

Gli studi interrotti, la questione del lavoro, l’incomprensione con mio padre e la mancanza di comunicabilità con la società mi stavano aspettando.

Erano tante le questioni non risolte! Tutte aspettavano una risoluzione!

L’avventura in India mi avrebbe liberato, pensavo, invece non fu così.

Mi ricordo quando scesi dall’autobus vestito di bianco, senza zaino in spalla perché avevo venduto tutto, tanti occhi curiosi mi tagliarono in mille pezzi!!!!!

In quel momento mi sentivo forte, diverso, orgoglioso …….…….

In ogni senso ero diventato Qualcuno!

Adesso mi sentivo capace di ribaltare l’impossibile, credevo in me stesso e nelle mie capacità, ero pronto per una nuova impresa……la più ardua: Andare oltre le mie paure!!!!!!!

 

“L’eroe dopo un’impresa si rafforza.

Rinasce a nuova vita guardando il conosciuto in modo nuovo.

Non cambia niente attorno a sé.

Il suo  nuovo atteggiamento, forte dell’ esperienza vissuta, riesce a determinare un certo cambiamento interno, pur rimanendo le medesime condizioni di prima.”

 

La piazza di un piccolo centro è sempre l’elemento principale con il quale ci si confronta: essa inesorabilmente è lo specchio che guarda, giudica, incensa,  affossa i sogni ed espira su di te un infinità di limiti e un mare di giudizi.

Quella mattina  io l’attraversavo con grande dignità…. Mi sentivo un vero eroe!!!!

Mia madre pianse al mio arrivo, i miei fratelli erano felici, i compagni di partito, che erano anche i miei amici, non aspettavano altro che il resoconto delle mie avventure in India.

Per quanto mi riguarda parlai lungamente in quei giorni e, stranamente, “la terra della sofferenza” divenne, nei miei discorsi, il luogo da cui trarre insegnamenti.

L’odio, il risentimento, le tragiche sensazioni che avevo provato si trasformarono come per incanto in sentimenti positivi.

Ripresi a vivere la solita vita di prima: l’università continuava ad essere un passatempo e un modo attraverso cui, occupandomi di politica e fregiandomi da  intellettuale, potevo agganciare tante ragazze.

Tuttavia, fra tante, belle ed emancipate, l’unica che mi interessava veramente non riuscivo a conquistarla, soprattutto, non riuscivo a smuoverla dal mondo in cui viveva.

 

L’avevo conosciuta nel lontano 1965 in una gita organizzata dalla parrocchia locale: fu un vero colpo di fulmine!!!!  Era bellissima!!!!

Trascorrevo ore guardando la Sua foto!!!!!

Lungo le strade della Grecia, mentre mi consumavo al sole sul ciglio della strada a chiedere passaggi, guardavo la Sua foto e il tempo sembrava non trascorrere. Tutto si fermava………. ed entrava in campo Lei…….. era un sogno ad occhi aperti!!!

Purtroppo la frenavano troppe limitazioni mentali: l’ambiente, i genitori, le sorelle, o forse la Sua innata sfiducia verso il mondo.

Un mondo che, nei suoi aspetti deliziosi, le stava scivolando accanto silenziosamente, senza che se ne rendesse conto, avvolta, come era, da una patina di serietà “da persona matura”.

In verità sentimenti contrastanti l’assalivano, si muoveva tra l’assurdo concetto delle regole sociali e il desiderio di andare oltre…... Anelava come me ad un rapporto libero, felice, completo, ma i fremiti del desiderio e della passione erano inibiti dalla paura di sbagliare, di tradire la fiducia dei genitori.

L’educazione fa molto in un piccolo centro: può rendere forti dinanzi ai pericoli, ma può anche limitare nel prendere al volo occasioni importanti.

In quel periodo avevo un rapporto con una ragazza di Motta che scatenava attimi di gelosia da parte sua: molte volte si è arrivati alla rottura ma poi tutto si risanava.

In questo  continuo prendersi e lasciarsi ero molto infelice: desideravo volare insieme a Lei, ma ero costretto a rimanere radicato per terra; sognavo grandi viaggi con Lei,  ma vi era sempre qualcosa ad interrompere tutto.

Lei non mi capiva!!!!!!!!!!!!!!!

Ero ritornato dall’oriente da poco e, senza rendermene conto, già progettavo un altro viaggio.

 

In quel mese di settembre ottenni il pre-salario all’università, quindi, quella  frenesia del vagabondare, ormai parte integrante di me, divenne talmente pressante da spingermi ad  organizzare, insieme ad alcuni amici, Pino, Carmelo ed Angelo, un  breve viaggio a Malta: meta di tutti i ragazzi siciliani affamati di sesso, che volevano vivere avventure a sfondo erotico con molta facilità.

Le ragazze le trovammo veramente, emancipate, disinibite e, soprattutto, predisposte a vivere delle avventure con noi che, a parte le eccellenti prestazioni sessuali, facevamo a tutte la promessa di ritornare per continuare la relazione.

Alla fine, la nave partì puntualmente dal porto ed io mi portavo dietro la  gioia di tenere la mia vita tra le mani: infatti sembrava che l’avventura indiana non fosse mai finita e si mescolava con questa in un unico viaggio senza interruzioni.

 

Adesso, guardando retrospettivamente, posso affermare di aver vissuto la mia vita  all’insegna del “viaggio”: i periodi intermedi, tra una partenza e l’altra, immediati ad ogni arrivo, sono stati la preparazione per una nuova partenza.

Con gli anni, i viaggi si sono accumulati uno sull’altro ed il mondo, visitato in tappe sempre nuove, a poco a poco, si è ristretto tanto da apparire sempre più piccolo.

“OVUNQUE COMUNQUE il mondo è in noi”.

Questo detto, ripreso dalla tesi di Attilio, è diventato il motto della mia vita perché ogni nuova conoscenza libera, risveglia l’innato desiderio di riprendere il cammino verso la luce dalla quale siamo partiti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

              La nave ci scosse un po’. Il mare era molto mosso e in poco tempo tutti ci distendemmo per terra in preda a forti dolori alla testa e a fastidiose sensazioni di vomito. Non fu per niente un bel viaggio.

L’arrivo segnò la nostra rinascita.

In breve trovammo un’appartamento e subito fummo tutti in strada per conoscere le delizie dell’isola. Eravamo ancora giovani e nell’agire non vi era alcuna preordinazione.

Seguivo la preda con ostinazione e non consideravo le conseguenze:la passione mi spingeva ad avere quante più esperienze possibili!

Quanti, con risvolti diversi a volte ridicoli, abbiamo avuto le nostre esperienze e, alla fine di un viaggio, siamo ritornati delusi e pieni di rimpianto per tutto ciò che non abbiamo fatto e che si poteva fare.

In quei venti giorni,ricordo, si è dormito pochissimo per sfruttare al massimo il tempo del soggiorno; si mangiava poco per risparmiare anche se qualcuno, pensando in maniera egoistica, non trascurava nessuna occasione per rifocillarsi di cibo dilapidando la spesa comune riposta nel frigo.

L’avventura si svolse all’insegna del “casino” in tutti i sensi: esperienze sessuali  complete, singole e in piena comunione senza nessun pregiudizio o inibizione; appuntamenti, regolati dalla capacità di sostenere “da veri uomini” gli impegni presi; promesse d’amore e relazioni all’insegna di sviluppi futuri…..con tutte….

Un bel momento della mia vita!

Non riflettevo………………….ma agivo.

I miei impulsi sessuali erano al massimo ed esigevano una reale soddisfazione immediata, non c’era tempo per pensare e meditare!!!!!!!!

Ebbi anche l’occasione di fare il vagabondo andando a chiedere soldi all’ambasciata italiana e inscenando le solite storie disastrose: partivo sempre dal concetto che lo Stato ci doveva mantenere e, conseguentemente, era un mio diritto ottenere un suo aiuto.

Erano gli anni della contestazione: si parlava di politica, si cercava di dare una spiegazione intellettuale all’interesse esasperato verso le ragazze, ci si mascherava, come si poteva, per creare un alone di mistero, ci si nascondeva dietro le ideologie più assurde per camuffare la vera natura di inibiti e  complessati quali eravamo. 

Dio, lo Spirito, l’Anima, la Fede, l’Amore, diventavano argomenti-tabù, guai a mostrare remissioni o soggezioni di alcun tipo: eravamo tutti atei, tutti bestemmiatori e materialisti proclamati.

Esplosioni di pazzia collettiva, camuffata dietro l’apparente rivoluzionarismo liberatorio!!!!

La svolta tanto attesa, l’immaginazione di raggiungere il potere rimase semplice e pura utopia: si ebbe solamente il reintegro tra i crismi ufficiali dei leader che  dirigevano tutti i movimenti studenteschi, politici, alternativi o di altra natura.

I sognatori rimasti furono veramente pochi!!!!!!!!!!!!!

Per quanto mi riguarda, continuo a considerarmi un sognatore ed ancor oggi,  sono trascorsi trent’anni, sogno un mondo migliore, credo nel cambiamento positivo della gente, ricerco ancora l’ Amore……più completo, vicino alla Divinità che, a nostra insaputa, vive in noi.

 

Malta segnò un'altra grande tappa nella mia vita.

Ritornai a casa nella speranza di riprendere gli studi interrotti, ma fu impossibile!

Non prevedevo alcuna fermata in quegli anni, quindi era tutta una corsa verso un qualcosa di realmente irraggiungibile.

In paese, adesso, eravamo in tanti a raccontare le avventure vissute a Malta con l’adeguato sfondo erotico che rendeva interessante e misterioso quel breve viaggio. Così, sulla nostra scia, in tanti percorsero quel tratto di mare e, in diverse occasioni, qualcuno vi ritornò anche da sposato; io, invece, non vi rimisi più piede perché desidero conoscere il mondo e non voglio mai fermarmi sotto il medesimo cielo, anche con il giusto contorno di avventure piccanti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

               Ripresi a frequentare l’università senza alcuna passione perché ormai avevo assaporato l’ebbrezza dell’andare per le vie del mondo.

Mi incontravo con Pina sperando sempre di metterLe le mani addosso……ma Lei, ostinatamente, mi cacciava: era timidezza?... era altro?... io non l’ho mai capito, ricordo la sofferenza di starLe accanto e non poter accedere a piene mani a quel meraviglioso corpo.

Mentre passavano i giorni, verso la metà di ottobre, si fece vivo il mio amico Angelo con la bella notizia di un viaggio in Germania tra gli emigrati italiani:in effetti il partito comunista cercava adepti da mandare in Germania per propaganda politica tra gli italiani al fine di convincerli a votare per le elezioni politiche del maggio del 1972.

L’occasione per me era unica e non volevo lasciarmela sfuggire: potevo realmente vivere in prima persona la realizzazione di un sogno e lottare direttamente accanto a chi viveva sulla propria pelle lo sfruttamento del capitalismo!!!!

Così racimolai in fretta qualche somma e, verso i primi novembre del 1971, mi imbarcai in questa nuova avventura.

Partimmo alla volta di Norimberga su di un treno pieno di speranze con una breve sosta a Bassano del Grappa, dove vivevano gli zii di Angelo, fino in Germania, presso Norimberga.

 

La città manteneva ancora un certo aspetto medioevale col suo castello circondato dal solito fossato di protezione e gli antichi borghi mescolati armoniosamente con le nuove costruzioni.

Al mio arrivo la stazione mi sembrò piccolina,colorata da svariati tipi di persone alla ricerca di un lavoro e con le solite vie della perdizione, come in tutte le città europee.

Con passo sicuro, un grande zaino sulle spalle e l’immancabile sacco a pelo, mi avviai verso il numero 16 di Platen strass, sede di un ristorante italiano, dove avrei avuto i contatti per accedere al mondo degli emigrati.    

Entrammo fiduciosi, sperando di trovare subito la persona indicata sull’indirizzo e, riposti gli zaini, ordinammo due birre. Intanto, accanto a noi, un gruppo di persone concitatamente cercava di esprimere la propria opinione in un linguaggio che sconoscevo: le loro parole risultavano incomprensibili nonostante mi sforzassi di decifrarne la provenienza.

Anche il gestore del bar parlava in questo strano modo ed io, un po’ sfiduciato, pensai che prima o poi qualcuno sarebbe arrivato.

Trascorse più di un ora ed io mi guardavo ancora intorno cercando di scoprire un viso amico, ma  solo al momento di pagare il proprietario mi rispose in italiano.

In realtà erano tutti sardi: un ristorante gestito da sardi dove si viveva e si parlava il sardo. Fui colto da una certa ansia: che ci facevo io, Nuccio il vagabondo, in un luogo simile, accanto a gente che storicamente sono testardi e prevenuti verso i siciliani?

Cosa stavo facendo in questo luogo così lontano dalle mie aspirazioni e dai miei sogni di vagabondaggio perenne!?

Eppure ero lì, pronto a lottare con essi pur di cambiare il mondo in positivo.

Mi trovavo in quel luogo spinto da qualcosa che ci accomunava tutti: l’odio verso il potente, la voglia di ricondurre questo nostro mondo, preda della violenza  e della miseria sulla via della solidarietà e dell’eguaglianza e, in più, la consapevolezza che solo l’Amore può ancora salvare dalla decadenza la nostra terra.

 

Evidentemente la famosa immaginetta incontrata in India, avendo trovato un terreno fertile, stava iniziando a svolgere la Sua opera:

Risvegliare l’uomo alla Consapevolezza della Sua natura Divina.

Intanto, appena compresi che, nonostante l’incomprensibilità iniziale, mi trovavo insieme a degli italiani, chiesi del tizio che cercavo: Argiolas.

Un personaggio eccezionale, come venni a scoprire più tardi, molto intelligente, sensibile al problema dell’emarginazione, comunista di vecchio stampo, serio, rappresentava per tutti un punto di riferimento al quale rivolgersi in qualsiasi momento; inoltre conosceva benissimo, poiché l’aveva sperimentato sulla propria pelle, lo sfruttamento che l’uomo subiva nelle fabbriche dei proprietari.

Aveva circa 35 anni e una lunga vita da emigrato alle spalle anche perchè era  stato a lavorare giovanissimo nelle miniere belghe; aveva inoltre maturato una profonda conoscenza degli effetti devastanti che questa situazione produce, ovvero la perdita della dignità di ogni uomo e il rischio di diventare una macchina  insensibile ad ogni sofferenza.

Spesso mi faceva un quadro terribile dell’abbrutimento dell’emigrante, sottolineando quel suo perdersi dietro una bottiglia di birra, la mancanza di affetti ed amicizie, il vivere solo per vivere e, contemporaneamente, mi profilava l’alto compito a cui si era chiamati nell’infondergli forza e coraggio, la necessità  di risvegliargli le certezze e, soprattutto di non lasciarlo solo.

Mi portava spesso con Lui presentandomi a tutti i compagni e i dirigenti comunisti degli emigrati turchi, greci, spagnoli e jugoslavi e  tedeschi con i quali, in futuro, si sviluppò un rapporto dialettico molto profondo.

Insomma quel mio sorriso, quel balbettare che mi contraddistingue e suscita un misto di  tenerezza e ilarità, la tenacia nel voler entrare in questo mondo senza cercare di sconvolgerlo e il desiderio di vivere una nuova avventura all’insegna del vagabondaggio per il mondo, consentirono la mia completa integrazione fra loro; in breve divenni la loro mascotte.

Mi ascoltavano estasiati quando parlavo del mio viaggio in India anche se Argiolas, sensibile al problema dell’emarginazione e profondamente legato alla strategia del Partito, non cadeva nelle trappole della mente e dopo un po’ riconduceva tutto sul discorso politico chiedendomi se anche in India il movimento dei lavoratori era unito e lottava i padroni.

Ben presto compresi che solo attraverso il lavoro avrei conosciuto direttamente questa nuova realtà e mi ci sarei integrato!

Iniziai così, dopo pochi giorni, il lavoro in fabbrica venendo direttamente a contatto con la catena di montaggio, conoscendo le problematiche degli operai e soffrendo la spersonalizzazione creata da un lavoro ripetitivo ed estraniante: in breve si pensava solamente a sfornare pezzi di motore da spedire in tutto il mondo.

 

 

 

 

               Mi alzavo alle sei per avviarmi a piedi in fabbrica e la neve, che intanto era arrivata, mi imponeva di camminare protetto al massimo facendo attenzione a non scivolare.

Durante la mensa incontravo i compagni e, insieme a loro, dopo aver parlato di politica, organizzavamo azioni di protesta.

L’integrazione procedeva a gonfie vele: ero diventato uno di loro….. ma io…???!!! ……Non mi sentivo come loro!!!!!!!.......

 

In effetti la mia emigrazione non era stata determinata da un bisogno economico: io ero lì per vivere la mia vita, fare esperienza, condividere la sofferenza ma non viverla fino in fondo.

In una delle tante lettere che scrissi in quel periodo a mia madre, era il 12 dicembre del 1971, dicevo :

 

……………aiuto continuamente i poveri emigrati i quali hanno  tanto bisogno di un po’ di comprensione. Ho visitato le baracche in cui dormono e, credimi, sono bruttissime e fetide. Non dovrebbero mai ospitare degli uomini. Lavorano e soffrono moltissimo. Io non soffro perché sono venuto qui di mia spontanea volontà per vivere un'altra delle mie avventure……………

 

La mia mente correva continuamente alla ricerca di spazi nuovi: sognavo sempre  di fare viaggi avventurosi in ogni parte del mondo e, tutte le sere, prima di andare a dormire, uscivo da solo e mi avviavo verso la stazione dei treni per……..sentirmi a casa. Non a caso quel luogo pieno di vagabondi richiamava alla mia mente le sale di attesa delle  stazioni in cui un tempo mi ero rifugiato.

I mesi intanto trascorrevano lenti tra incontri organizzati nel bar di Morittu, il lavoro sempre più limitante e le lunghe passeggiate solitarie lungo le strade innevate di Norimberga.

Da casa arrivavano continuamente lettere e qualcuna mi arrivava anche da Pina, la mia ragazza, con la quale avevo un rapporto ormai da diversi anni.

In una di queste, nel gennaio 1972, rispondevo:

                “…………devi sapere che il futuro non si costruisce sulla sistemazione ad alto livello integrativo nella società borghese, ma si costruisce e si crea su delle forme e dei momenti di vita.

                Il futuro   è qualcosa che deve venire all’uomo non come preparazione      e sistemazione in senso economico, ma come pienezza e concretezza delle proprie azioni, e come grado di esperienze acquisite senza mai essere scesi a compromessi con sé stessi………………….”

 

 

Intanto il mio impegno tra gli emigranti andava assumendo nel tempo aspetti molto seri: grande era la fiducia accordatami, ed io, che mi sentivo molto responsabilizzato, non volevo deluderli, così, nel tempo libero rimastomi, scrivevo volantini da dividere tra gli italiani residenti a Norimberga.

Qualcuno di questi è rimasto tra i miei appunti:

 

15 dicembre 1971

 

VOGLIAMO TORNARE A CASA

 

Il nostro stato ci ha regalato una valigia!.

Il “generoso” governo da cui proveniamo ci ha costretto a lasciare la nostra terra, la nostra casa, i nostri amici e ad abbandonare tutte quelle cose che ponevamo come modello di vita.

Il governo borghese e fascista ci ha cacciati mettendoci automaticamente nelle mani dell’altrettanto sporco capitalista e fascista straniero, sfruttatore del popolo.

Sia il nostro Stato che quello tedesco si mantengono sul nostro lavoro: l’uno si mantiene sulle rimesse che noi mensilmente mandiamo a casa, l’altro approfitta del nostro sudore quotidiano.

 

Noi vogliamo tornare a casa!

 

Siamo stanchi di accrescere ancor di più le ricchezze del padrone!....

 

“Vogliamo vivere, lottare e soffrire accanto la nostra famiglia, e non desideriamo che le nostre uniche ricchezze, quali la nostra personalità e la nostra vita, si logorino in questo lurido e sporco posto.”

 

In tal senso denunciamo alla pubblica opinione gli Stati fascisti quali Grecia, Spagna e Turchia, e gli Stati clericali-fascisti quali l’Italia e la Corea del sud, che non ci hanno saputo dare altro una valigia per partire.

Denunciamo anche i capitalisti tedeschi che ci sfruttano continuamente mantenendosi sul nostro sudore e sulla nostra forza-lavoro.

Noi vogliamo un lavoro decente e dignitoso che non alteri e non distrugga la nostra vera natura di esseri umani.

Vogliamo anche gli stessi diritti dei lavoratori tedeschi, e non vogliamo essere trattati come bestie da soma.

A tal proposito invitiamo i lavoratori italiani, greci, turchi, spagnoli e tedeschi a prendere coscienza su tale situazione invitandoli ad organizzarsi tra di loro creando così delle cellule capaci di sconfiggere l’odiato padrone e tutti i loro lacchè.

Tutti i lavoratori debbono assumere sul luogo di lavoro quelle responsabilità che serviranno da base per creare queste cellule di lotta e propaganda.

Invitiamo i colleghi tedeschi a sentirsi anche loro responsabili e coscienti sulla lotta da fare, ricordandogli le luride baracche che ospitano quei lavoratori stranieri che durante il giorno gli lavorano accanto.

Per un fine materiale e morale, preghiamo tutti di farsi portavoce fra gli amici, nelle fabbriche e in qualunque luogo dove vi sia un uomo sottoposto allo sfruttamento, sul significato di questo volantino.

Gli scriventi non vogliono altro che eliminare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo per creare una società più giusta e più umana.

Vogliamo creare una società che sia comunista, quella ed unica società che possa dare al lavoratore tutti i suoi veri diritti, possa elevarlo al posto che veramente spetta ad un componente di questa società e renderlo libero da qualsiasi compromesso con sé stesso.

W la dittatura del proletariato!

W la rivoluzione socialista!

 

                                                        I comunisti di Norimberga

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                Il bar di Morittu era un luogo di incontro e la sera, alla fine di ogni giornata, si trascorreva il tempo davanti una bottiglia di birra.

Tutti gli emigrati, specialmente quando sono da soli, vivono momenti di tristezza molto profonda: la birra è la loro unica salvezza, è l’unica compagna quando si sente la nostalgia di casa.

Così il ricordo dei paesaggi natii, ormai lontani, spesso provocava struggenti ubriacature e spingeva alla solitudine in un angolo della Guest house.

In quei mesi conobbi tante persone depresse e amareggiate: stavo ad ascoltarli per lunghissime ore mentre parlavano o cantavano senza alcun senso. A volte mi facevo coinvolgere per far loro compagnia e, spesso, ci si lasciava andare davanti a storie incredibili..……

 

Ho rivissuto recentemente questi momenti, nel febbraio 2005, in occasione di un incontro casuale durante un viaggio in Australia: Charlie, un palermitano emigrato in quella terra negli anni 60, ripercorreva la medesima storia di solitudine, sofferenza, emarginazione  e birra dei tanti conosciuti allora.

 

Murittu per tutti noi era un padre e, coadiuvato dalla moglie, Antonietta, partecipava alla vita dei tanti, convincendoli spesso a far ritorno a casa perché quella non era la loro vita.

Io, a differenza di costoro, navigavo sulla cresta dell’onda vivendo una diversa esperienza e, soprattutto, nutrendo altre speranze e possibilità: spesso, infatti, andavo al centro a guardare qualche museo, oppure  giravo librerie alla ricerca di testi in italiano; inoltre non mancavano le ragazze che si intrecciavano con  esperienze politiche, sociali e culturali.

Una volta comprai una cartina geografica dell’Africa, che ancora conservo come una reliquia, spendendo su di essa molto del mio tempo: infatti immaginavo viaggi dal nord al sud dell’Africa seguendo con la mente e la fantasia deserti e foreste, villaggi e cascate impetuose.

Negli anni successivi ho visitato parecchie mete di quel continente, realizzando quei sogni della gioventù.

In una di quelle famose lettere che scrivevo a mia madre la mettevo al corrente  dei miei progetti.

                

                   “………………..cara mamma, credo che tu conosca quali sono le mie        idee e quali sono le mie aspirazioni nella vita. Sino all’età di 30 anni voglio   girare per il mondo, dopo vorrei sistemarmi e mettere su famiglia.

                  L’altro giorno ho scritto all’ambasciata di Cuba a Roma, perché ho saputo che cercano persone disponibili a lavorare nei campi di barbabietole. Pagano il biglietto aereo e danno qualcosa per vivere. Il prossimo anno, Ti prego non ti arrabbiare, credo che andrò, per 4 o 5 mesi a Cuba………………………………”   18 dicembre 1971

 

 

 

 

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L’ultimo dell’anno fu una vera baraonda di colori, donne, petardi, abbracci, lacrime, birra e speranze.

“Anno nuovo vita nuova!”…..anche se, da tempo, gli emigrati a questo detto non credevano più!

In ogni caso, l’ultima notte dell’anno accendeva in ognuno di loro la speranza di un futuro migliore che, sin dalla mattina successiva, si testimoniava dall’aspetto lindo e curato, gli occhi fiduciosi e un sorriso radioso che nasceva dal profondo del cuore. 

Si iniziava il primo dell’anno come al paese d’origine, quasi scaramanticamente, credendo al vecchio detto che un inizio gioioso  avrebbe condizionato il futuro.

Così l’uno gennaio diveniva due, poi tre, quattro ecc……e la vita procedeva sempre nello stesso modo; il passare dei mesi consolidava la coscienza di ciò che si era e aumentava la sfiducia, fin quando i sogni disattesi, le speranze tradite e la consapevolezza che niente sarebbe cambiato alimentavano una rabbia senza fine.

Mi ricordo quando la notte di capodanno uscimmo tutti fuori dal bar di Muritto per salutare l’anno nuovo: i nostri razzi si intrecciavano con quelli lanciati dai turchi, dai greci, dai tedeschi ecc….creando unione e gioia.

Miracolosamente sembravamo tutti UNO!

L’abbraccio reciproco ci fece dimenticare per un attimo i problemi quotidiani e la discriminante razziale che si viveva in strada e in fabbrica.

Ero felice, mi ricordo!…………….dal viso mi scendeva qualche lacrima perché, vivendo simili momenti, mi sciolgo, divento me stesso e quello che in natura veramente sono: Amore.

Quella notte ero felice perché condividevo con tutto il mondo intorno la mia felicità.

I volantini ormai venivano distribuiti davanti le fabbriche, senza più paure: avevo superato l’impatto e lo smarrimento tipico di chi vive in un  paese straniero, adesso mi muovevo con tanta sicurezza e grande passione.

In un volantino cercai di sminuire il mito della grande Germania, fonte inesauribile di lavoro, denunciando tutta  la verità sulla situazione degli emigrati con particolare riferimento agli italiani.

Riporto di seguito il contenuto del ciclostile:

             

In questo periodo il mito della Germania, mai esistito, crolla paurosamente. Tutti i posti di lavoro che spingono lo straniero a venire in Germania non esistono affatto e, anche quelli più deprimenti, non accettano italiani.

Ovunque si vede scritto: nein italianische!!!!.

Il poveretto che parte da casa perché non può mantenere la propria famiglia, pieno di speranze e con un minimo orgoglio, arriva in questo grande mercato di merce umana e trova  solo fame, crisi perenne e un solo modo per continuare a vivere: “vendere a prezzo di mercato sé stesso e quel poco, ma sudato, orgoglio che avevano portato dall’Italia.

Mentre si lavora si può constatare la vera faccia della Germania.

Si vede quel tedesco che lavora accanto pieno di cure e di sorrisi dal capo reparto, mentre ad un metro di distanza, si vede lo straniero, uno di noi, trattato come una bestia, mandato a pulire quella macchina……….come gli appartenesse.

No! No! Quella macchina  NON E’ NOSTRA e non lo sarà sino a quando non la prenderemo. Quella macchina serve solo ad arricchire colui che nemmeno la conosce, mentre noi ci dobbiamo prostituire a qualcosa che non ci appartiene buttandovi su ogni giorno il nostro sudore.

 

Compagni dobbiamo essere e sentirci liberi come siamo nati!!!!.

Cerchiamo di riunirci e di discutere in questa direzione, agendo subito senza aspettare che il padrone neutralizzi sul nascere ogni nostra azione.

 

 

20 gennaio 1972                                              I Comunisti di Norimberga

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           Una domenica mattina presi il treno per andare a Monaco.

Il ricordo di questa città, da cui avevo iniziato la mia avventura per l’India, era ancora vivo nella mente.

Mi recai a rivedere l’ostello dove avevo letto l’annuncio di allora in bacheca, ma tutto era cambiato: i vagabondi che  bivaccano davanti al cancello non c’erano più,  il freddo, lo squallore, si respirava un’altra aria.!!!

Forse qualcosa stava iniziando a cambiare……….chissà se ero io ad essere cambiato!!!...  Chissà?????.....

Quei lunghi bivacchi sotto i ponti del Tevere, le travolgenti nottate a piazza Dam di Amsterdam, le estenuanti collette per racimolare qualcosa da mangiare e viaggiare, le strade polacche  sulle quali anni prima, in autostop, avevo conosciuto tante ragazze e tanti altri vagabondi ………………..

……….impossibile dimenticare ed impossibile cambiare!!!

Quel mondo lo portavo sempre con me insieme alle sensazione di libertà  prodotta dall’aria che mi accarezzava il viso, dalle notti nei cimiteri per dormire al riparo dalla polizia, le docce comuni a Kopenaghen nudi, insieme alle ragazze………..

….. impossibile da dimenticare ed impossibile cambiare!!!

Le avventure in Polonia, in Bulgaria, il traghetto da Brindisi al Pireo in quel lontano 1969,la fredda Svezia piena di verde dove ad ogni angolo vi erano tende di vagabondi in libertà............

…….impossibile dimenticare e impossibile cambiare!!!!.

Rimasi pochissimo a Monaco perchè, preso dalla nostalgia dei ricordi, faticavo nel riconoscere la città, in fermento pazzesco per le imminenti olimpiadi, lasciata poco tempo prima.

Intanto erano già trascorsi tre mesi e il desiderio di rientrare a casa si faceva sentire.

Mi ritornava alla memoria la piazza della mia piccola Motta che, tra non molto, si sarebbe riempita di luci, di  musiche e colori perché era il momento del carnevale. Così l’impulso a rientrare si faceva sempre più pressante!!!!

 

Ritornare verso casa era come fare un viaggio a ritroso: il nuovo che desideravo scoprire attraverso  il viaggio, assumeva l’aspetto del “già conosciuto” che mi riconduceva tra le sicurezze del mio mondo.

E’ vero che amavo partire, ma poi, trascorso un certo periodo, desideravo ritornare al punto di partenza, come se volessi verificare in me la sensazione di libertà.

Il ritorno riecheggiava alla mia memoria le cose lasciate: i soliti vecchi amici, le solite cose da fare, la solita piazza, il solito vecchio partito e i soliti vecchi compagni.

 

Nella mia piccola stanza ripercorrevo mentalmente l’esperienza vissuta e, subito, programmavo un’altra tappa, lontana e sempre nuova, con tutte le procedure necessarie a realizzarla: visti da richiedere alle ambasciate, condizioni di viaggio, soldi da racimolare e quanto altro fosse necessario.

La mia vita è sempre stata così: la programmazione di un viaggio, vivere intensamente il progetto e, alla fine, attuarlo, proprio come l’ho desiderato, anche  in condizioni estreme.

In tal senso ho dormito su lastre di marmo congelate, sulla neve dentro sacchi a pelo senza imbottitura,  su vecchi autobus per giorni e notti intere, sui tetti dei treni o di autobus….

 

In fabbrica presi qualche giorno di ferie, sperando che, arrivato in paese, avrei spedito qualche certificato medico per prolungare a spese del padrone il mio soggiorno in Sicilia.

Convinsi Giuseppe Farina, amico del mitico Mesina, a venire con me.

Era un tipo molto silenzioso, onesto e testardo: figlio unico con la madre vedova e anziana, non accettava mai niente da nessuno e, pur di rientrare a Orgosolo pieno di soldi, era disposto ad usare anche metodi illeciti,.

In diverse occasioni lo sentii parlare con altri sardi mentre progettavano una rapina in un ufficio postale in Germania.

Così, qualche giorno dopo, prendemmo un treno per Modena e, proseguendo in autobus verso Pavullo nel Frignano, andammo ad incontrare il grande Attilio Angelo Aleotti, vagabondo per antonomasia.

Sommersi dalla neve, Attilio ci fece trascorrere una settimana da sballo a Pavullo: lunghe escursione sui monti, notti a bere insieme ad altri amici che avevano vissuto l’esperienza sandinista e saggi consigli ricevuti dai suoi anziani genitori. Ripartimmo in treno per Roma, ci fermammo qualche giorno a vagabondare per le sue strade, poi giù in Sicilia, con i soliti abbracci e le solite promesse di rimanere a casa per farmi……una famiglia.                                                                        

In paese impazzavano già i preparativi per il carnevale.

La piazza, anima del piccolo centro, era allestita con un palco che avrebbe ospitato le varie manifestazioni e sul quale un piccolo complesso avrebbe allietato con la  musica quei giorni di festa.

Il fermento dei preparativi per le sfilate di quei giorni era talmente appassionante che non permetteva a nessuno di distrarsi da ciò che non fosse il carnevale.

Io e Giuseppe non destavamo nessun interesse, solo i miei genitori si accorsero del nostro arrivo ed io, per la verità, ci rimasi un po’ male.

Mi rimisi subito in movimento cercando gli amici, i compagni di partito e, soprattutto lei, Pina, a cui ero molto affezionato: la Sua figura, sempre presente nella mia vita, era molto bella ed io non vedevo l’ora di poterla abbracciare.

Ne ero innamorato follemente e, forse, anche Lei, tuttavia,  complicata  da mille problematiche, non si abbandonava mai come io avrei desiderato.

L’età era quella giusta per amarci follemente, accarezzarci, perderci in teneri sguardi pieni di passione, stringerci e fare l’amore…………a lungo, con passione…………….ma Lei era sempre difficile, dubbiosa, impaurita.

 

 

 

 

 

 

          Intanto qualcosa di terribile e imprevedibile mi stava cadendo sulla testa, una trappola che rischiava di farmi sprofondare nel  buio più tetro: il servizio militare. Non potevo esimermi perché lo Stato aveva bisogno della mia baionetta per andare alla conquista………..penalizzando enormemente la mia fantasia e la libertà.

I carabinieri mi avvertirono di non fare pazzie e di presentarmi subito al reparto perché il tempo era già passato.

 

La chiamata alle armi è la cosa peggiore che possa capitare ad un vagabondo: è’ una forza innaturale, conservatrice, che fa sentire ogni uomo impotente e gli toglie con violenza la gioia di decidere liberamente sulla propria vita.

Un vagabondo poi, che vive oltre ogni confine, che si considera cittadino del mondo, può mai chinarsi supinamente, senza reagire, ad una simile prevaricazione?

Lo Stato mi chiama, pensavo, cosa vuole da me!?..... Non mi ha dato mai nulla: tutto ciò che possiedo lo devo ai sacrifici della mia famiglia e al mio irrefrenabile desiderio di viaggiare…………. Devo servire la patria……… Ma quale patria?.............. Quella che spedisce in Germania la povera gente perché non è in grado di offrire dei posti di lavoro dignitosi…..  o quella che permette che gli uomini siano sempre sfruttati?

Solo nella libertà si cresce bene!!!!!

Un esperienza simile è come un non-viaggio, un rimanere fermi implodendo terribilmente: si corre il rischio di perdere la dignità di uomini!

 

Così, contro questo destino ineluttabile a cui sembrava ci si dovesse piegare ad ogni costo, reagii in modo insolito: avrei giocato il tutto per tutto pur di non soccombere a questa orrenda sorte.

Innanzitutto, anziché andare al reparto di destinazione, mi recai, con la cartolina in mano, all’ospedale militare di Messina con tutti i documenti possibili  attestanti la mia balbuzie; così, una volta tanto, mi sarebbe servita a dimostrare la mia impossibilità ad assolvere il servizio militare.

Giuseppe rimase a casa mia.

Arrivato a destinazione mi fecero indossare un pigiama color cacca e mi elencarono i miei limiti: una caterva di regole coatte che controllavano la vita  di tutti. Lo spazio era molto ridotto e, per giunta, super-controllato, la mensa puzzava, ma io, mi ricordo, non rifiutai mai il cibo che offrivano.

Insieme a me, tanti ragazzi aspettavano da un momento all’altro un verdetto sulla loro situazione: dovevamo essere continuamente rintracciabili perché in ogni momento qualche medico della commissione poteva decidere di visitarci.

Entrai in caserma con i capelli lunghi e la barba incolta e riuscii, nei 10 giorni che rimasi, ad evitare di farmi rasare, perché ogni volta che sentivo il pericolo cercavo di imboscarmi.

 

La mia forza in quegli anni stava proprio in quei lunghi peli, un modo come un altro, per essere catalogato e dimostrare visivamente a tutti cosa pensavo. Il mio senso di libertà era rappresentato  da quell’immagine costruita e, per niente al mondo, ci avrei rinunciato.

 

I giorni trascorsi in ospedale, alla fine, furono vissuti come l’ennesimo viaggio:  trovai il tempo di leggere “Lezioni sul fascismo” di Reich, di parlare di politica, di  conoscere un certo Giuseppe, marinaio diplomato, che per errore era finito in fanteria, mentre voleva andare in marina.

Ragazzo molto intelligente, furbo e veramente in gamba, possedeva il diploma nautico e aveva girato il mondo imbarcato su una nave-merci; io ascoltavo le sue storie di viaggio a bocca aperta e, con la mente trasognante, lo invidiavo un po’. Entrambi ci proteggevamo da chi voleva farci brutti scherzi.

Finalmente un gruppo di medici decise di esaminarmi per verificare la veridicità della mia balbuzie.

Così lessi qualche frase davanti a tutti e poi, a rafforzare la verità di quanto dicevo, ebbi la fortuna di avere la testimonianza del maresciallo del mio paese, Secchi, presente in quei giorni in ospedale per il ricovero di suo figlio.

In conclusione, riconquistai l’agognata libertà sottraendomi a quel giogo assurdo che mi avrebbe ucciso.

Ricordo, con soddisfazione ed un grande senso di sollievo, il foglio di carta che attestava il mio esonero perenne dal servizio militare, l’uscita di corsa dalla caserma e il senso di felicità per aver vinto una battaglia che ha determinato un giusto futuro alla mia vita.

Il carnevale era già iniziato, Giuseppe, inserito alla perfezione nella compagnia dei miei amici, non creò nessun problema a casa dei miei, anche perché mio fratello Franco era sotto le armi; in quanto a me, fiero e spavaldo, rientravo in paese da eroe perché lo Stato non era riuscito ad acciuffarmi.

Mi incontrai diverse volte con Pina e la mia felicità era veramente alle stelle: le parlavo a lungo dei miei rapporti con gli emigrati, mi pavoneggiavo un po’ e la rendevo partecipe  dei miei sogni di Norimberga che spesso la includevano.

Ero consapevole di dover partire alla fine del carnevale per gli innumerevoli impegni che avevo in Germania, tuttavia, ero sicuro che dopo qualche altro mese di lavoro sarei ritornato definitivamente a casa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

               La partenza fu molto difficile: mancava l’ebbrezza emotiva che accompagna ogni nuova conoscenza e lo stimolo dell’imprevedibile proprio a chi viaggia in libertà; in breve sapevo dove andare, cosa fare e quanto sarei ritornato.

Il solito treno che questa volta ci vedeva più comodi, ovvero stravaccati su due posti rigidi a sedere, ci riportava inesorabilmente e lentamente a Norimberga.

Poi la quotidianità : l’impegno politico, la visita medica per allungare la malattia, il relativo licenziamento, la ricerca di un nuovo lavoro trovato puntualmente dopo qualche giorno ecc……..

Ero stato ingaggiato, insieme ad Angelo, nella costruzione della metropolitana: lavoro pesante, ma ben pagato; ma mentre lui decise di rimanere in Germania, ad Erlanghen, perchè frequentava l’università, io trascorsi un altro mese impegnandomi attivamente nella distribuzione di volantini e invitando gli emigrati a ritornare a maggio per votare.

Dopo un po’ fummo licenziati senza un’apparente motivo e la vita divenne molto dura.

A questo punto decisi di rientrare in Sicilia, convinto di aver concluso un’altra avventura.

 

Quando il mio agire non è sostenuto da un sentire interno, non riesco a fare niente di positivo e serio; così, trascinato dalla noia e dal senso del dovere, anniento ogni iniziativa.

 

Ritornato in paese, cercai di trasferire il mio impegno nella sezione del  partito comunista lì presente: maggio era già vicino e, con esso, le tanto sospirate elezioni, per cui era necessario impegnarsi ed essere più incisivi.

A quei tempi, riflettendo un clima sociale dominato dalla democrazia cristiana, il comunista era considerato un mangiapreti, ateo e senza regole.

La spessa coltre di nebbia stentava a diradarsi, e le paure, artatamente create dal potere che gestiva le sorti della nostra nazione, si diffondevano, accrescendo il pericolo che la Russia, veicolata dai comunisti italiani, ci avrebbe invaso inglobandoci nella sua egida politica. 

Così, per sfatare ogni pregiudizio, andavamo a dividere volantini per le strade, ci mobilitavamo in tanti durante i comizi elettorali, uscivamo di notte per affiggere i manifesti facendo attenzione che non venissero coperti, insomma, offrivamo l’immagine di una grande forza in movimento che intimoriva i benpensanti, tutti dell’altra parte, democristiani, fascisti, socialisti, socialdemocratici.

La piazza registrava i battiti di tale innovazione e la linea del partito si muoveva alla conquista democratica del potere: in breve, non amavamo i compromessi e la nostra inesorabile avanzata dimostrava quanto giusta fosse questa scelta.

In futuro, quando si iniziò a discutere di compromesso storico, cominciò il declino, poiché, inevitabilmente, si era venuti meno alle prerogative iniziali: in breve, la conquista del potere a tutti i costi non ha pagato.

Comunque, tra tutti questi impegni, continuavo a vedermi con Pina, mantenevo la corrispondenza con gli amici tedeschi e non, riuscivo a leggere e, programmavo, quello sempre, altri viaggi assecondando la mia indole di “vagabondo del mondo.”

 

Maggio arrivò presto e si andò a votare in massa ottenendo un grande risultato, tuttavia l’auspicabile sorpasso, almeno quella volta, non avvenne.

In quegli anni, accecati dalla convinzione degli ideali e dalla verità delle nostre idee, non riuscivamo a mantenere rapporti con gli esponenti di altri partiti: la politica divideva il paese in gruppi, ed ogni gruppo si identificava in un partito.

In realtà “il partito” voleva e si elevava sopra ogni cosa: era una struttura piramidale così ferrea da non permettere a nessuno di volare con la mente; non esisteva intraprendenza e libera iniziativa, ogni immaginazione e progetto doveva piegarsi alla rigida razionalità del partito.

Da quel momento, lo ricordo con grande rammarico, la mia militanza cieca iniziava  a porsi delle domande che, lentamente, cominciavano a prefigurare il distacco dal partito; contemporaneamente sentivo nascere un nuovo anelito che, dopo  il senso di sfiducia nella politica, mi spingeva sempre più verso una ricerca spirituale.

Trascorsi giorni interi chiuso nella biblioteca del Magistero, peraltro molto fornita di materiale, a consultare libri sul Buddismo:la lettura mi riempiva di pace profonda ed apriva la mia mente a nuovi scenari.

Notavo con grande meraviglia un cambiamento dentro di me: dalla chiusura pregiudizievole verso gli altri sentivo il mio essere proteso ad aperture assolute verso il mondo intero. Inoltre mi rendevo conto che  solo nella comprensione può esservi la pace, solo accettando l’altro come è , con tutte le sue deficienze,  si può sperare in una vita migliore e le parole AMORE, SPIRITO, DIO, aborriti tabù del passato offrivano prospettive inimmaginabili.

 

Quel viaggio in India e l’immaginetta, che stranamente continuavo ad usare come segna libro, riconducevano la mia mente e tutto il mio corpo al risveglio di  conoscenze implicite, che possedevo già in me, e che vedevano l’uomo come Dio. Gli uomini non hanno la consapevolezza di essere Dio, ma potenzialmente lo sono in tutte le qualità, in tal senso cominciavo a percepire un Dio a misura d’uomo, meno etereo e distaccato che da irraggiungibile,  metafisico e onnipotente, diveniva comprensibile, avvicinabile e umano.

Ero affascinato da questa nuova dimensione.

Buddha e il suo perenne divenire, le quattro nobili verità, l’ottuplice sentiero, le relazioni interdipendenti, l’ignoranza samsarica ecc………..mi entusiasmavano. Volevo conoscere, andare oltre quel sapere limitante, scoprire sempre novità che mi arricchissero interiormente e, conseguentemente, non facevo altro che leggere e  divorare vari libri.

 

Condividevo il sapore della mia ricerca e il frutto delle nuove considerazioni con Pina, che incontravo sempre più spesso, infatti la tenevo al corrente delle mie scoperte e ci ritrovavamo a discutere insieme: in realtà, nasceva in me il desiderio di un contatto più profondo con lei.

Così, dopo vari tentativi di circuirla, il 3 giugno del 1972, la convinsi a marinare la scuola  per trascorrere qualche ora da innamorati ad Acitrezza.

Non fu facile, però alla fine cadde nella trappola che le avevo teso: eravamo tanto giovani!!!!

 

Rimase incinta di nostro figlio Antonio e da quel giorno, per mia grande fortuna, ho iniziato insieme a Lei il più grande viaggio della mia vita:

 

“affascinante perché la scoperta delle sue tante qualità ha riempito di cose belle la mia vita,

appassionante perché ho scoperto il suo grande spirito di adattamento, indispensabile per vivere viaggiando.

avventuroso perché tra i tanti cedimenti, insieme, abbiamo trovato sempre la forza di andare avanti.

spirituale perché abbiamo condiviso e seguito il nostro grande maestro: Sri Satya Sai Baba.

un viaggio non ancora finito, che continua a tutt’oggi, nella consapevolezza di  aver camminato e camminare, senza alcuna meta da raggiungere.

La fine non è prevista……nessuno finisce…… niente finisce…………

  tutto è in movimento e noi facciamo parte intrinseca di questo “continuum”.”

 

Usciti dalla pensione in cui ci eravamo appartati, abbiamo continuato a stare abbracciati in riva al mare, lasciandoci accarezzare dal sole cocente………più in là vi erano anche Pino con Ninni, ma noi……… teneramente innamorati, ci sentivamo soli…………….io mi sentivo solo.

 

Quel momento ha rappresentato per me la realizzazione di un sogno perseguito da una vita: ringrazio il mare che ha cullato, con il suo atavico suono, il nostro rapporto, ringrazio Dio per avermi dato la forza di resistere  al Suo primo rifiuto.  

Non dimenticherò mai quel momento e il senso di felicità che mi pervadeva!

In quello stesso periodo mio nonno, molto malato, trascinava la propria vita da un ospedale all’altro: i primi di maggio gli avevano diagnosticato un tumore ai polmoni che non lo avrebbe lasciato molto in vita.

Era stato un grande bestemmiatore in gioventù, ma negli ultimi anni, di nascosto, lo vedevo andare in chiesa. Probabilmente, con l’andare del tempo e il peggiorare delle condizioni fisiche, anche Lui, come tutti, sentiva l’avvicinarsi della morte e il bisogno inconscio di mettersi in regola con la coscienza.

 

Egli ha rappresentato una presenza importante nella mia crescita a cui mi sentivo particolarmente legato: in effetti avevamo tante cose in comune, soprattutto il desiderio di una vita diversa dalla norma, non incasellata negli stereotipi.

Ero sempre stato affascinato dalla Sua figura e lo ammiravo: infatti mi aveva insegnato, sin da bambino, il gioco delle carte spiegandomene i trucchi, mi portava in campagna e in giro per il paese, mi dava continuamente denaro, ma soprattutto condivideva il mio amore per i viaggi.

A volte, mentre dormiva nella notte, mi alzavo per andargli a rubare qualche soldo dalle tasche………

Mio padre lo criticava continuamente considerandolo un fannullone e giocatore di carte e, quando mi sgridava, diceva che assomigliavo a Lui: questo mi rendeva particolarmente orgoglioso!!!

Ricordo, ancora, le notti che trascorreva nella sale da gioco a…………sperperare la pensione, le lotte con  mio padre quando lo accusava di essere un vizioso, inefficiente………..e la mia povera nonna, disperata, che viveva tra i vizi di mio nonno e le urla di mio padre.

Era un mito conosciuto da tutto il paese e, ancor oggi, tutti se lo ricordano con affetto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                  Sempre in questi frangenti, Mario mi propose un viaggio a Mosca, la cui partenza era prevista per il 20 giugno, completamente a spese del partito: bisognava solamente pagare il biglietto del treno fino a Roma! L’occasione era irripetibile e, nonostante mille cose che avevo nella testa, accettai immediatamente. 

In realtà ero molto triste per la malattia del nonno, ma non riuscivo, neanche per un attimo, a prendere in considerazione l’idea di rinunciare a questa esperienza: in fin dei conti, un viaggio a Mosca, patria della realizzazione del socialismo, gratis, non capita due volte nella vita!!!

In una delle notti precedenti la partenza sognai la morte di mio nonno proprio quel 20 giugno e, abbastanza scosso, avvertii mia madre del presentimento; più tardi, in modo risoluto, anche a costo di sembrare cinico, affermai con decisione che, in ogni caso, niente mi avrebbe trattenuto.

Intanto, quasi a raddoppiare le contrarietà, Pina mi informava del suo ritardo mestruale e, a questo punto, c’erano abbastanza motivazioni che mi imponevano di rimanere.

La mia mente, in simili situazioni, cerca di razionalizzare tutto, tenendo sempre presente e mettendo in primo piano la soddisfazione delle richieste interiori, pertanto scelsi di partire ad ogni costo assecondando il mio desiderio.

Ricordo, in quei giorni di confusione totale, di aver annotato sulle pagine di un mio diario personale le seguenti considerazioni:

 

16 di giugno

 

 “Pina mi riferisce che le mestruazioni ritardano. Sono felice!!!

Esco insieme alla compagnia ad affiggere manifestini di propaganda.

 

 17 giugno

 

 “Non so se chiamare paura o felicità il fatto che Pina forse è incinta………..

………… Forse è incoscienza……………………………………….. L’avvenire…………..”

 

19 giugno

 

 “ Veglio accanto al letto di mio nonno………… Rantola tutta la notte.

 

20 giugno

 

 “Mio nonno muore. Io parto per Mosca……………….”

 

 

 

 

 

 

 

 

                   Mio nonno morì proprio il 20 giugno alle ore 12,15, più tardi, alle ore 21.20, presi il treno per Roma.

Una pagina triste della mia storia!!!!!!

Nella tristezza ho trovato la forza di continuare a vivere…….ma a quale prezzo????

Con la forza d’animo che nasceva dall’amore per il viaggio, presi il mio solito zaino con l’amato sacco a pelo e mi lanciai in questa nuova avventura.

Mia nonna fu l’unica a capirmi: vittima delle stravaganze di mio nonno, era  pronta a difendermi in ogni situazione; nonostante tutto anche la mia  famiglia fu comprensiva.

Sicuramente le profonde differenze politiche  e un diverso modo di vedere la vita non creavano molta armonia con mio padre: ricordo ancora i suoi continui richiami per il mio modo di vestire indecente e da vagabondo.

In generale tutta la famiglia era abituata alle mie continue fughe: da piccolo diverse volte scappai da casa  per andare a dormire da mia zia; più tardi, in diverse occasioni, partii per Roma per lunghi periodi senza dare alcuna notizia, così, si erano un po’ assuefatti a queste mie frenesie e, tenendo conto delle naturali paure dettate dall’amore per i figli, si sforzavano di capire le mie esigenze.

L’attimo in cui mio nonno morì, io ero presente, lo avevo vegliato tutto il tempo: qualche secondo prima di spegnersi ebbe la forza di spingere le spalle dal letto, aprire gli occhi, guardarmi e con le mani accennare  un saluto.

 

Quello sguardo, quegli occhi, quella vita che se ne andava e quelle mani che mi salutavano, non li ho mai dimenticati!!!!!

 

Era come se mi spingessero a continuare la mia strada: infatti il nonno era stato tra i pochi a non rimproverarmi quando ritornavo da un viaggio e, anzi, sembrava felice dei miei racconti condividendone le scelte.

 

Partii per Mosca alla Sua gloria: mentre Lui saliva in cielo, io procedevo verso un paese che rappresentava in quegli anni un grande mito.

Lasciai Pina alle prese con gli esami di maturità e, soprattutto, con il martellante dubbio della gravidanza e le eventuali complicazioni che essa comportava.

Poi la sosta a Roma, appena un giorno, trovando il tempo per affacciarmi a Piazza di Spagna, sentire l’odore degli ultimi beatnik, salutare qualcuno, e …. via,………   continuando verso Mosca.

Mario, che mi accompagnava, era già stato in quella città l’anno precedente e non faceva che parlarmene. Tuttavia, i suoi racconti erano perlopiù incentrati sulle ragazze, uniche entità che dialogavano con i turisti rischiando di cadere tra le grinfie di un potere che non aveva niente di democratico e tanto meno socialista. La mia immagine di Mosca era condizionata dal cieco innamoramento che nutrivo per il  comunismo. Inoltre, l’entusiasmo scaturito dal rapporto libero che avevo con le ragazze mi coinvolgeva a tal punto da attenuare l’esatta visione critica del contingente storico che avevo dinanzi. In realtà non ho mai tentato di superare la coltre di nebbia che mimetizzava l’oppressione esercitata dal potere verso chiunque anelava alla libertà.

Facevo parte di un gruppo di italiani, militanti comunisti, che visitavano il paese convinti di trovare la materializzazione dei propri sogni e di tutte le lotte che si sostenevano in quegli anni.

La rivoluzione di ottobre era la concretizzazione storica della nostra ribellione al sistema costituito e, soprattutto, la realizzazione di un’utopia che ci avrebbe procurato giustizia e felicità: in pratica, volevamo tutti constatare le effettive conquiste di un grande paese che, nato da un movimento popolare, veniva diretto da un gruppo di intellettuali, inseriti nella spirale di un partito autoritario.

L’hotel Bucarest era situato proprio accanto la piazza Rossa, di fronte al Cremlino, e rappresentava il punto di incontro di tutti gli occidentali presenti in quel momento a Mosca. Il luogo pullulava di gente avvolta da un mistero esotico affascinante e raccoglieva tutte le razze asiatiche nelle loro sfaccettature: dal mongolo all’afgano, dal siberiano al Kirghiso, dall’armeno all’estone.

L’odore di mondo impregnava l’atmosfera di Mosca ed io mi sentivo….……a casa.

La felicità, di trovarmi finalmente in un luogo tanto a lungo desiderato, non era completa: l’immagine di mio nonno morente non lasciava la mia mente come l’esile figura di Pina, sommersa dal dubbio di essere incinta.

Non si trattava di rammarico o tristezza, bensì dell’arrivo di una maturità diversa alla quale non ero ancora preparato: infatti l’idea di diventare padre mi palesava  l’arrivo di nuovi impegni che avrebbero, forse ridimensionato, il tipo di vita che in quegli anni cercavo di  costruirmi. In realtà, mi sentivo dibattuto sulla strada da scegliere e, soprattutto, sul tentativo di assecondare il mio essere: ero un ragazzo, amante della vita e delle avventure e non volevo cambiare per nulla al mondo. Allora non capivo che anche la vita vissuta in seno ad un matrimonio, anche con i figli, può essere un momento  di  libertà maggiore di quello vissuto da singolo.

 

Il partner non è un vincolo, lo diventa quando si cammina su strade diverse e quando  ognuno rispettivamente cerca di imporre le proprie scelte.

Il lungo cammino che si percorre insieme, sin dal primo momento di vita in comune, deve servire ad appianare le divergenze senza esasperare le differenze di ognuno.

Con Pina, sin dal primo viaggio, a differenza di quando eravamo semplici fidanzati, è esploso qualcosa che ci accomunava al di là di tutto:

 

L’AMORE PER I VIAGGI LIBERI,

IL RIFIUTO PER QUALSIASI FORMA DI COMPROMESSO,

LA COMPRENSIONE PER LE PERSONE CHE SOFFRONO

LA SOLIDARIETA’ PER GLI OPPRESSI.

 

 

Tornando al mio soggiorno a Mosca, mi sentivo particolarmente sicuro a girare per le strade della città anche perchè, la mancanza di disoccupazione garantita dal sistema annientava la delinquenza. Con Mario ci si vedeva pochissimo, nonostante condividevamo lo stesso alloggio: era sempre occupato con qualche ragazza.

Per quanto mi riguarda, uscii poche volte con il gruppo e, durante la visita al mausoleo di Lenin presso la Piazza Rossa, mi ritrovai, con grande emozione, accanto a Fidel Castro che rendeva omaggio al padre della rivoluzione sovietica.

Durante la mia permanenza in città conobbi una ragazza con la quale trascorsi giorni indimenticabili: Larissa, che mi introdusse nel mondo universitario sovietico.

Il mio rapporto con Lei fu molto aperto e disinibito, nonostante il divieto, esercitato dalle famigerate guardie rosse, di instaurare rapporti tra ragazze locali ed occidentali.

In tal senso, quando si andava in giro, ci atteggiavamo entrambi da occidentali  e, nel momento in cui veniva a trovarmi in albergo, bisognava escogitare stratagemmi per eludere la sorveglianza: gli ostacoli che poneva il sistema erano  veramente liberticidi.

Nei locali, al suono della balalaica, si passavano ore meravigliose.

Tutti i giovani moscoviti erano alla ricerca di qualche simbolo occidentale perché, realmente, desideravano identificarsi con questa meteora che era il nostro mondo. Essi sconoscevano, giustamente, la veemente passione con cui noi occidentali lottavamo contro un sistema che ci sembrava autoritario e razzista mentre, da parte loro, sentivano la necessità di liberarsi dalle grinfie di un partito che gestiva la loro vita annientando sogni e libertà.

I giorni trascorsero felici e spensierati: sapevo dell’impegno che mi aspettava in paese, ma non ero triste. L’amore infinito che nutrivo per Pina mi dava una grande speranza, e poi, mi consolava il fatto che finalmente potevo averla tutta per me.

Quel viaggio in Russia mi squarciò la mente.

Io santificavo il regime sovietico, Lei lo disprezzava. Perché!? Domande che trovarono molto presto delle risposte.

Capii l’importanza delle “vie nazionali al socialismo”, il valore inestimabile della libertà e tutti i tentativi per mantenerla.

Forse, in quel paese quella era l’unica strada perseguibile, ma sono stati così tanti  gli eccessi in negativo da oscurare persino l’ideale storico del socialismo.

Il fine non può giustificare i mezzi e ciò che perdiamo oggi, domani non lo riavremo più.

Questa logica ha distrutto le aspirazioni e i sogni di popoli interi!!!!......

 

 

 

Nuccio Guarnera

nuccioguarnera@virgilio.it  

 

 

 

 

 

 

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