"Sierra y playas"

Messico

Diario di viaggio 2003

di Patrizia Sacco

 

 

Il mio ottavo viaggio in Messico (la prima volta risale al lontano 1984) inizia naturalmente da Città del Messico. Arriviamo, Piero ed io, di sera verso le otto dopo un volo di un paio ore da Roma ad Amsterdam e una corsa disperata attraverso lo sconfinato aeroporto di Skiphol per non perdere la coincidenza con l’altro volo che in 11 ore ci ha portato a destinazione (a Roma c’è stato un ritardo). Arriviamo all’albergo Maria Cristina, prenotato via mail, abbastanza provati ma non tanto da non concederci una margarita nel patio dell’hotel. Brindiamo al Messico con il nostro augurio preferito “Salud, amor, dinero y tiempo para gastar” e stramazziamo a letto...


Come sempre quando arriviamo in America ci svegliamo ad ore albeggianti e la mattinata è tutta nostra per poter andare a fare colazione al mio adorato Samborn alla Casa de los Azulejos e poi in un’agenzia di viaggi a prenotare biglietti e prendere informazioni per i prossimi giorni. Più tardi un taxi ci porta a Xochimilco, a visitare il Museo Dolores Olmedo che l’ultima volta che eravamo stati in città non era ancora stato inaugurato. Da molti anni ho una vera passione per Frida Kahlo e non avrei mai potuto perdere questa occasione di vedere alcuni suoi quadri, forse gli ultimi esposti in collezioni pubbliche che non avevo ancora “incontrato”. Uso questa parola perché è veramente l’unica che può esprimere la sensazione che ho quando vedo una di queste tele che conosco così bene, che ho guardato mille volte in tutta la mia raccolta di libri fotografici: è l’incontro con un amico conosciuto a distanza e finalmente trovato. Il museo è un vero gioiello, una antica hacienda restaurata con gusto dalla ricchissima e anziana señora che vi ha collocato tre sue splendide collezioni, opere di Diego Rivera, di Frida, e terrecotte precolombiane, e ne ha fatto un grazioso dono al Messico. La villa è inserita poi in uno spettacolare parco in cui si aggirano pavoni ed altri animali, un vero piacere per gli occhi e lo spirito. La bella giornata viene completata da un nuovo piacevole ritorno: ceniamo a La Opera, il ristorante più storico della capitale, dove tra stucchi dorati e specchi si conserva un buco di pallottola che dicono sia stato sparato da Pancho Villa. E come sempre le margaritas e le cheviche sono all’altezza della tradizione.


Il giorno dopo un volo di due ore ci porta quasi 1000 chilometri più a nord, a Durango.
Siamo sull’altipiano a 1900 metri e arrivando di sera il freddo si fa sentire. L’albergo che scegliamo, in pieno centro, è una posada in un’antico edificio in pietra, con camere affacciate su un bel patio; poche stanze e tanta atmosfera, proprio il mio genere. Durango è una città non grandissima, con un centro storico coloniale. Per fortuna durante il giorno la temperatura sale molto, il sole è scintillante e l’aria tersa, con una luminosità tutta particolare che ha fatto un po’ la sua storia. Proprio il clima così asciutto e stabile e la luce prodigiosa ne hanno fatto il posto ideale per esterni cinematografici. Negli anni ‘50 si iniziarono a girare nei dintorni vari film western, ma non solo quelli, grandi produzioni statunitensi che qui trovavano bassi costi e ambientazioni perfette. Da allora la cosa è andata avanti al punto tale che si sono costruiti interi villaggi che sono diventati set stabili, adattati di volta in volta alla pellicola in lavorazione. Nei due giorni in cui ci siamo fermati a Durango siamo andati a vedere Città del Oeste, un set a una quindicina di chilometri che viene aperto il sabato e la domenica ai visitatori, ai quali offre uno spettacolino semplice ma divertente con comparse vestite da ballerine di saloon, banditi e duellanti che sono riusciti a coinvolgere perfino Piero in una sfida mortale. Ma ancora più suggestivo mi è sembrato Chupaderos, un paesino vero in cui le casette di mattoni d’argilla sono trasformate con facciate fittizie di legno e convivono con altre costruzioni “inventate” come l’ufficio dello sceriffo o la banca delle rapine. La gente continua ad abitare dietro le quinte e mostra orgogliosa il cimitero con le croci che riportano i nomi degli attori che sono morti qui nel corso degli anni: John Wayne (varie volte), James Caan, Madlein Stowe...


Da Durango un comodo autobus di prima classe ci ha portato in quattro ore a Zacatecas attraversando l’altipiano arido e pelato. Questa piccola ed elegante capitale di stato è a 2500 metri e l’altitudine si sente. Anche qui troviamo un antico ed affascinante piccolo albergo con le finestre che guardano verso quella che dicono essere la più bella cattedrale del Messico. E’ domenica e insieme a molti messicani prendiamo la teleferica che dal centro porta alla Bufa, una formazione rocciosa che domina la città; la salita è impressionante e la vista spettacolosa. Il giorno dopo visitiamo una miniera d’argento ormai in disuso che si trova quasi in centro, anzi si può dire che la città si sia sviluppata intorno ad essa nel corso dei secoli, dato che all’argento si legava la ricchezza di tutta questa parte del paese. Ci sono anche da vedere belle chiese e palazzi della stessa pietra rosa della cattedrale e in particolare un piacevolissimo museo nell’ex convento di San Francisco con una incredibile collezione di migliaia di maschere tradizionali con tutti i colori del Messico.

Proseguiamo ancora in autobus: ci vogliono tre ore per San Luìs Potosì e il viaggio è sempre ottimo. Altra capitale, più grande, piena di studenti universitari e internet point ai prezzi più stracciati, con un centro pedonale tranquillo e begli edifici coloniali.

Da qui il solito mezzo ci porta il giorno dopo a Matehuala, dove c’è la coincidenza per Real de Catorce, tre ore e mezzo in tutto attraverso il solito paesaggio arido. A proposito! ieri sera in albergo per un’incredibile coincidenza abbiamo visto “the Mexican”che non conoscevamo, anche se sapevamo che era stato girato al Real...
Improvvisamente la strada si trasforma in un sorprendente acciottolato che luccica sotto il sole e comincia ad arrampicarsi sulla sierra tra costoni traboccanti di cactus. Dopo 20 chilometri arriviamo in un piazzale e qui tutti giù perché bisogna trasferirsi in un pulmino: siamo infatti davanti al mitico Ogarrio, il tunnel scavato nella pietra della montagna per più di 2 chilometri, tanto stretto da non permettere a due auto di incrociarsi. Al di là c’è Real, un misto messicano di Shangrilà e Pompei, un miscuglio di suggestioni e atmosfere difficilmente raccontabili. Che si fa in un paesino di meno di mille abitanti? Null’altro che lasciarsi vivere ai ritmi lenti del posto, annusando l’atmosfera, bevendo tequila, mangiando botanas, chiacchierando con la gente. In un impeto di attività ce ne andiamo anche a fare una passeggiata a cavallo sui sentieri sassosi della sierra per vedere rovine di altri paesini ancor più abbandonati di Real dopo l’esaurirsi delle miniere d’argento. L’albergo in cui alloggiamo è quello in cui ha vissuto la Roberts durante la lavorazione di The Mexican e il proprietario mi mostra orgoglioso la sua suite, anche se io avrei preferito vedere il letto di Brad Pitt...

Dopo tre giorni di solitudini montane rifacciamo il percorso all’inverso per tornare a San Luìs Potosì, che ora mi sembra quasi una metropoli, e fermarci nuovamente una notte. Da qui per il viaggio a Città del Messico scegliamo una compagnia di autobus di categoria lusso e la scelta si dimostra vincente. Nemmeno nella prima classe in aereo ho mai visto sedili così comodi, ci si dorme quasi come a letto e le cinque ore di viaggio passano tra film, spuntino e caffè nel modo migliore. Una mezza giornata a passeggio per il centro della capitale e siamo pronti per spiccare il volo finalmente verso il caldo e il mare tanto desiderato!

L’aereo atterra a Puerto Escondido alle 11 e a mezzogiorno siamo già sulla bella Playa Marinero a spalmarci creme e bere il primo cocco. Abbiamo trovato un piacevole albergo che sta proprio alla fine di questa spiaggia; poco più in là, dopo un gruppo di rocce inizia Playa Zicatela, la preferita dai surfisti. A Marinero le onde sono meno violente e si può fare il bagno senza però dimenticare che siamo sul Pacifico, che pacifico non è quasi mai... In tanti anni e tanti viaggi in Messico avevo sempre evitato di venire a Puerto Escondido perché pensavo che la notorietà del film di Salvatores l’avesse trasformata in un posto modaiolo e pieno di gente, ma devo subito ricredermi: le spiagge sono belle e tranquille, i turisti pochi ( non so se sia un fatto solo stagionale o legato al particolare momento politico, ma fino ad ora abbiamo incontrato pochissima gente ovunque) e l’atmosfera piacevole. Ci fermiamo così quattro giorni, rosolandoci al sole e facendo escursioni in lancia e autobus alle spiagge dei dintorni: Puerto Angelito, Manzanillo, Chacahua, Zapotalito. 

 

Decidiamo poi di trasferirci più a sud a conoscere un altro tratto di costa, così raggiungiamo Puerto Angel, ma questa volta la scelta non ci soddisfa. Il paese è microscopico, ma ha una certa inspiegabile aria di precario e disgregato, qualcosa con cui “a pelle” non mi sento in sintonia, forse perché l’acqua è fredda più che altrove e la spiaggia principale si chiama Panteòn, che vuol dire cimitero. Poche decine di chilometri e l’atmosfera cambia completamente con Mazunte e Zipolite. Sono due paesi diversissimi tra loro e perfettamente complementari. Mazunte è il pueblito messicano da cartolina: piccolissimo, quasi del tutto privo di corrente elettrica e strade asfaltate, con tante palme, fiori e una tranquilla spiaggia a mezzaluna. Zipolite non è neanche un paese, ma una lunghissima e grande spiaggia con onde violente e una serie infinita di cabañas, ristorantini e baretti frequentati dal popolo più “alternativo” dello stato di Oaxaca: nudisti, artisti, surfisti, e anche fumati, espatriati, tatuati di ogni tipo... Il tutto nel raggio di una ventina di chilometri nei quali è compresa anche un altro piccolo paese che fa da spartiacque tra le due spiagge, San Augustinillo. La gente si sposta molto: si fa il bagno a Mazunte di pomeriggio, poi la sera si cena sulla spiaggia di Zipolite, ci si va a usare l’unico internet point della zona, si torna a Mazunte a vedere una partita di calcetto il sabato mattina, si fa colazione a San Augustinillo... Ci si muove in collectivo, in taxi, in autostop. Così passiamo quattro giorni nell’unico vero albergo di Mazunte, una decina di cabañas aggrappate sulla piccola baia, senza elettricità ma con le finestre inondate dalle albe più rosate che si possano immaginare. Andiamo a dormire sotto candide zanzariere al lume delle candele: non c’è nulla di più romantico! E anche noi naturalmente spaziamo tra le varie località a seconda dell’umore e dell’ispirazione...

Quando mancano due giorni al rientro in Italia ci spostiamo nuovamente e raggiungiamo col solito autobus Huatulco (un pezzetto di cuore rimane a Mazunte) perché da qui prenderemo poi un volo per la capitale e proseguiremo per Roma. Entriamo in un mondo tutto nuovo e diverso da qualsiasi altro posto del Messico. Negli anni ‘80 il governo decise di creare un’alternativa a Cancùn sulla costa del Pacifico ed espropriò 35 chilometri di costa che comprendevano nove baie sabbiose, un piccolo paese e vari altri agglomerati. Dopodiché rase tutto al suolo, bonificò, pulì, disinfettò e ordinò tutto per creare la perfetta “vacanzilandia”. Si cominciarono a costruire alberghi, un nuovo paese, ordinato e ridente con negozi di artigianato, ristoranti tipici, una piazza con la chiesetta e il giardinetto al centro, tutto perfetto ma incredibilmente finto. Tanto finto che a quanto pare la gente non ci casca, e dopo vent’anni Huatulco non decolla. Gli alberghi ci sono, ma meno di quanti se ne prevedevano, molti centri commerciali sono mezzi vuoti, vari ristoranti sono chiusi. Solo in metà delle baie si è costruito, e solo sulla ex-bellissima spiaggia di Tangolunda troneggiano enormi alberghi-villaggio, alcuni del funesto genere all-inclusive. Noi ci fermiamo in uno degli alberghi piccoli, in una zona fin troppo tranquilla con una spiaggia in cui ci ritroviamo quasi soli su un arenile dove ogni granello è stato rastrellato e forse disinfettato. Il personale dell’hotel è di una gentilezza e disponibilità squisita, come chiunque lavori in ogni negozio, ristorante o struttura di Huatulco: il ministero del turismo ha fatto una ottima scuola, ma non è riuscito a dare un’anima a questo posto. Così gli ultimi due giorni passano in un ambiente perfetto e ovattato, ma con il rammarico di non riuscire più a “sentire” il Messico. Va bene lo stesso: è un buon motivo per pensare di ritornare ancora per la nona volta, in un posto meno perfetto ma con tutto il carattere e il colore di questo paese meraviglioso.

 

 

Patrizia      piero.pat@tiscali.it

 

 

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